venerdì 4 marzo 2016

Ricordando con rabbia 5

Corrado Bevilacqua
Occasioni mancate


Le occasioni mancate  dall'Italia nel secondo dopoguerra  per diventare uno stato degno di questo nome furono molte.

La prima fu rappresentata dall'entrata i vigore il primo gennaio 1948 della nuova costituzione repubblicana. Non fu così. Lo rilevò con rabbia Piero Calamandrei in un saggio pubblicato nel 1948 (P. Calamandrei Questa nostra costituzione, Laterza). L'entrata in vigore della nuova costituzione forniva l'occasione per una riforma radicale dello stato. Non fu così. Non vi fu rottura ma continuità, per usare la fortunata espressione usata dal maggior storico italiano della Resistenza, Claudio Pavone (C. Pavone La continuità dello stato, Giappicchelli). Lo ammise anche Giorgio Amendola per il quale essa era da considerarsi l'espressione dei limiti dell'antifascismo (G. Amendola Fascismo e classe operaia, Editori Riuniti).

Un'altra occasione mancata: la ricostruzione. Come scrisse Vittorio Foa, la ricostruzione fu una restaurazione del potere di coloro che avevano sostenuto il fascismo politicamente il fascismo e finanziato i suoi ras. La ricostruzione parti subito con il piede sbagliato. Era stato proposto di cambiare la moneta e di introdurre una tassa sui profitti di guerra. Qualcuno si introdusse nottetempo nella zecca d'Italia e rubò le matrici della nuova moneta (S. Fedele Da Parri a De Gasperi, Feltrinelli; Del mancato cambio della lira, Fetrinelli; Il secondo dopoguerra, guida bibliografica, Feltrinelli). Poi, fu la volta della deflazione einaudiana. Luigi Einaudi moytivò la su decisione affermando che la quantutà iu biglietti di banca in circolazione aveva raggiunto il "punto critico". La teoria del "momento critico" si basava, in realtà, come dimostrò Giorgio Fuà, in un articolo pubblicato su "Critica economica", su un puro e semplice sofisma, ovvero, sull’uso improprio d’una formula aritmetica, che Fuà smontò in punta di logica economica.

Luigi Einaudi, rispose ai suoi critici, con un articolo sul "Corriere della sera" del 19 ottobre 1947 intitolato "Il sofisma". Nell’articolo, dopo aver ricordato il "baccano sorto attorno alla cosiddetta restrizione del credito", Einaudi sottolineava che la manovra era stata annunciata con largo anticipo e che le banche avevano avuto modo di adeguarsi anticipatamente ad essa. La verità è, come Pasquale Saraceno affermò in una intervista rilasciata nel 1977, che, considerata la gravità della situazione economica, un’azione monetaria fu certamente necessaria, ma è anche vero che la politica economica del governo fu caratterizzata dalla assenza di qualsiasi obiettivo che non fosse "il ripristino delle strutture preesistenti con le sole modifiche che la guerra aveva imposto".
Inoltre, non va dimenticato che la "deflazione einaudiana" fu favorita dalla esclusione delle sinistre dal governo, la quale, desiderata dagli Stati Uniti, venne messa puntualmente in atto dal presidente del consiglio, il democristiano Alcide De Gasperi, dopo il suo ritorno da un viaggio compiuto negli Stati Uniti nel mese di gennaio del 1947, a dimostrazione, come scrisse Valerio Castronovo, dello stretto legame esistente fra le opzioni politiche e quelle economiche.
La Cgil reagì alla politica deflazionistica del governo con il cosiddetto "Piano del lavoro". Presentato nel corso della Conferenza economica sul Piano del lavoro del 19-20 febbraio 1950, il piano prevedeva, oltre la nazionalizzazione delle industrie elettriche, la creazione di un ente per le bonifiche e altre iniziative dello stesso genere, un nutrito programma di opere pubbliche volte al miglioramento delle attrezzature economiche del paese e alla realizzazione d’un immediato incremento occupazionale. Per quello che riguardava il finanziamento, il piano prevedeva l’utilizzazione di parte delle risorse valutarie esistenti e di parte del fondo costituito come contropartita della vendita di merci del Piano Marshall.

Alberto Breglia, nella relazione letta alla conferenza di presentazione del Piano del lavoro, difese le ragioni del piano affermando che "la produzione nel suo svolgimento, se è produzione, trova il suo finanziamento in se stessa"; perciò, volendo, si sarebbe potuto dire che il piano finanziava il piano. Come spiegò, Breglia, "ciascuna attività economica, se è produttiva socialmente genera in seguito una nuova attività economica e questa crea i suoi mezzi di finanziamento attraverso le normali, conosciutissime vie del credito bancario" .
Le argomentazioni di Breglia vennero riprese da Antonio Pesenti in un articolo apparso su "Critica economica" nel quale ironizzò nei confronti della "teoria della coperta" evocata dal professor Piero Battara. Come Pesenti spiegò nel suo articolo, il reddito non andava considerato in "senso statico", ma in "senso dinamico". Inoltre, aggiunse Pesenti, il problema del finanziamento del piano poteva essere risolto attingendo alle riserve esistenti.
Una dura critica nei confronti della "teoria della coperta" provenne anche da Sergio Steve, il quale spiegò che tale teoria sarebbe stata vera se tutti i fattori della produzione fossero stati occupati, ma questo, aggiunse Steve, non era il caso dell’Italia. Inoltre, affermò Steve, era ora mandare al macero il "feticcio del bilancio in pareggio". Secondo  Steve, il criterio del pareggio di bilancio non poteva soddisfare le esigenze della economia italiana.

In termini keynesiani, il Piano del lavoro della Cgil proponeva era di attivare il "moltiplicatore dell’investimento". John M. Keynes, però, non era di casa in Italia. La cultura economica italiana era, infatti, neoclassica e rifiutava non solo la concezione keynesiana della spesa pubblica, ma rifiutava l’idea stessa di piano. In altre parole, la maggioranza degli economisti italiani pensava come Luigi Einaudi che "il modo migliore di fare il bene dello stato non è di fare, di agire direttamente, ma invece l’azione più efficace per l’avanzamento economico e sociale del paese è quella indiretta". Essi, inoltre, pensavano che la pianificazione non potesse funzionare.

Come affermò, infatti, Giuseppe Di Nardi in un saggio pubblicato nel 1947 sul "Giornale degli economisti", "la pianificazione impostata sulla determinazione quantitativa a priori delle posizioni di equilibrio risulta legata a ipotesi non verificabili" e ciò induceva a pensare che "qualunque tentativo volesse farsi per renderla operante in concreto sarebbe votato all’insuccesso".

Critico nei confronti della pianificazione fu pure Agostino Lanzillo, il quale, su "L’industria", scrisse che "l’illusione di poter pianificare è generalmente diffusa nel mondo moderno ed è fatale all’assetto della società. Essa è il prodotto della prevalenza del razionalismo e del tecnicismo. Se tutto oggi è diretto dalla ragione, perché dovrebbe essere sottratta ad una rigorosa disciplina l’attività economica?".

All’incontro, Fernando Di Fenizio, dopo aver notato in un articolo su "L’industria", che l’economia possedeva due schemi per l’interpretazione del funzionamento dei sistemi economici concreti: lo schema dell’economia di concorrenza e lo schema dell’economia diretta dal centro, chiedeva provocatoriamente se vi fosse ancora qualcuno disposto "a credere che gli economisti liberali sian ciechi adoratori del laissez-faire" .
Però, aggiunse Di Fenizio, occorreva stare attenti, perché "chi ammette una politica contro le variazioni cicliche è implicito debba ammettere debba cederne altre, contro, ad esempio, le variazioni stagionali. Accettato, infatti, il principio d’una politica economica attiva, ogni elencazione, come ben si comprende, esemplifica: non tronca l’argomento". In ogni caso, concluse Di Fenizio, occorreva tener distinti quelli interventi che, come aveva spiegato Ropke, erano "conformi" alla economia di mercato da quelli che non erano "conformi" e che la danneggiano, ne pregiudicano il funzionamento, ne neutralizzano i riflessi".

Favorevole all’intervento dello stato nell’economia era, invece, Alberto Bertolino, il quale, in un articolo su "Il ponte", dopo aver affermato che occorreva "combattere il dominio capitalistico come uno dei privilegi più lesivi della dignità umana", scrisse che "la Costituente dovrà proclamare che compete allo stato la funzione di regolamento dell’economia nazionale" .
La Costituente discusse il problema e quello che uscì dalla discussone fu l’articolo 41: "L’iniziativa privata e libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali" – che è cosa molto diversa da quello che prevedeva il cosiddetto "emendamento Foa- Montagnana".
Recitava l’emendamento Foa- Montagnana: "Allo scopo di garantire il diritto al lavoro di tutti i cittadini, lo stato interverrà per coordinare e orientare l’attività produttiva dei singoli e di tutta la Nazione secondo un piano che assicuri il massimo di utilità sociale". L’emendamento fu discusso dalla Assemblea costituente il 9 maggio 1946.
Intervennero nel dibattito: Luigi Einaudi il quale evidenziò la palese incostituzionalità dell’emendamento; Vittorio Foa che era uno dei firmatari dell’emendamento e Ferruccio Parri. Chiuso il dibattito, l’emendamento venne messo ai voti. I votanti furono 418. I voti a favore furono 174, i contrari furono 244.

In questo quadro che va inserita la proposta d’un piano socialista che Rodolfo Morandi avanzò alla Conferenza economica socialista del 1947. Per Morandi, la pianificazione era "un’esigenza naturale e spontanea dell’economia collettivistica, qualcosa di congenito ad essa". I socialisti, disse Morandi, erano consapevoli del fatto che "solo in una società socialista sussistono le condizioni perché la pianificazione possa essere attuata". Il loro piano si fondava, perciò, "sul concetto di un’azione che portata a svolgersi dall’interno degli ordinamenti capitalistici, è indirizzata a dislocare incessantemente l’equilibrio del sistema, fino al completo rovesciamento dei rapporti di classe". Ne derivava, spiegò Morandi, che il concetto di piano socialista era inseparabile da quello di "riforme di struttura" e di controllo dal basso.
L’intervento di Morandi era stato preceduto da quello d’Alessandro Molinari il quale, dopo aver sostenuto che "nell’attuale fase storica del capitalismo, la necessità di un’economia controllata, programmata o pianificata, si è imposta nella maggiore parte dei paesi civili", spiegò che "una programmazione economica richiede innanzitutto una precisa formulazione degli obiettivi generali ai quali i piani economici debbono informarsi, al di sopra e al di là dei programmi, dei contingenti piani di emergenza o di breve respiro". Per potere realizzare una cosa del genere, aggiunse Molinari, la pianificazione socialista deve ispirarsi, perciò, a "una idea centrale e a ragionevoli traguardi da raggiungere".
All’intervento di Molinari era seguito l’intervento di Giulio Pietranera il quale aveva spiegato che "la pianificazione socialista consiste tutta in questa affermata e attuata necessità di procedere tenendo presenti, in tutti i loro rapporti di coesistenza e di sviluppo, tutti gli elementi e gli strumenti d’azione, fondandosi su una notevole apertura di sviluppo per le diverse alternative che possono presentarsi".
Di tutt’altro avviso era Palmiro Togliatti. Come egli disse, infatti, nel convegno sui problemi della ricostruzione tenuto dal Pci nel 1945, il Pci non chiedeva una pianificazione socialista poiché esso era consapevole del fatto che non esistevano le condizioni per realizzarla: chiedeva, invece, "un controllo della produzione e degli scambi del tipo di quello che esisteva e che esiste tutt’ora in Inghilterra e negli Stati Uniti" .
Tale posizione fu ribadita da Togliatti nel discorso da lui tenuto il 24 settembre 1946 a Reggio Emilia. Nel discorso, divulgato dalla stampa comunista con il titolo "Ceto medio e Emilia Rossa", Togliatti sosteneva che il Pci voleva che venisse lasciato "un ampio campo di sviluppo all’iniziativa privata, soprattutto del piccolo e medio imprenditore", mentre riserva allo stato il compito di "dirigere tutta l’opera di ricostruzione"].
Togliatti era, quindi, intervenuto sul medesimo tema nella "Relazione sui rapporti sociali" da lui tenuta il 3 ottobre del 1946, nel corso della quale aveva sottolineato "la necessità di un piano economico, sulla base del quale sia consentito allo stato di intervenire per il coordinamento e la direzione dell’attività produttiva", "il riconoscimento costituzionale di forme di proprietà diverse da quella privata", la nazionalizzazione di quelle imprese che "per il loro carattere di servizio pubblico o monopolistico debbano essere sottratte alla iniziativa privata"].
L’Italia riuscì a superare la crisi postbellica e riuscì a avviarsi sulla strada dello sviluppo. I fattori che favorirono la ricostruzione del paese furono: la dimensione relativamente ridotta dei danni di guerra subiti dalle industrie italiane, la collaborazione sindacale nelle fabbriche, il buon utilizzo della capacità produttiva esistente, il varo di riforme agricole, una soluzione innovativa del problema dei vincoli della bilancia dei pagamenti per un paese povero di fonti energia.
Agli anni della ricostruzione fecero seguito gli anni dello sviluppo economico. Gli aspetti fondamentali dello sviluppo economico italiano furono tre: una forte crescita dell’industria manifatturiera che trasformò l’Italia da paese prevalentemente agricolo in paese industrializzato; una crescente apertura ai mercati esteri; la crescita urbana.
Tale sviluppo fu oggetto di differenti interpretazioni. Si parlò di "dualismo economico". Si parlò di sviluppo trascinato dalle esportazioni. Si parlò di distorsione dei consumi a causa dell’effetto di dimostrazione. Si parlò di diseguaglianze regionali. Lo sviluppo, comunque, ci fu, ma on ruscì a coinvolgere la oolitica.

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