lunedì 29 febbraio 2016

RICORDANDO CON RABBIA-3

Corrado Bevilacqua
Gli anni della speranza





 
Mussolini arrivò a Roma il mattino del 30 ottobre. La sua prima dichiarazione fu che entro poche ore la nazione non avrebbe avuto soltanto un ministero. Avrebbe avuto un governo. Mezz’ora più tardi, Mussolini venne ricevuto dal re al quale si presentò pronunciando la frase: "Maestà, vi porto l’Italia di Vittotio Veneto". Ricevuto l’incarico di formare un nuovo governo di coalizione, Mussolini si mise al lavoro e la sera del 31 ottobre il governo era già formato. Il 16 novembre Mussolini si presentò alla Camera dove pronunciò un discorso nel quale affermò che avrebbe potuto fare di quell’aula "sorda e grigia" un "bivacco" per i suoi manipoli. Non l’aveva fatto, ma, aggiunse, nulla gli poteva impedire di farlo in futuro.


Ottenuta la fiducia con 306 voti a favore e 116 contro, Mussolini, il 24 novembre del 1922, ottenne dalla Camera, con 275 voti a favore e 90 contro, il conferimento dei pieni poteri.
Ciò non era ancora il regime. La svolta verso il regime avvenne tra il 1925 e il 1926. Il punto di svolta può essere individuato nel discorso pronunciato da Mussolini alla Camera il 3 gennaio del 1925 nel corso del quale egli dichiarò di assumersi la responsabilità "storica, politica e morale" dell’assassinio del leader socialista Giacomo Matteotti e sfidava i suoi avversari a chiedere la sua messa in stato d’accusa. L'anno successivo, toccherà a Piero Gobetti. Il suo nome è legato a un libro dal titolo intrigante: la Rivoluzione liberale  


Il libro di Gobetti è un capolavoro di polemica politica.
Le sue definizioni sono folgoranti. "Il fascismo è l’autobiografia della nazione… Il nostro antifascismo prima che un’ideologia è un istinto…"
I suoi giudizi sono senza appello: "Gli scrittori del liberalismo", scrive, "non hanno saputo fare i loro conti con il movimeno operaio…Lo schema dominante anche dei sedicenti liberali si appagò di uno sterile sogno di unità sociale e non volle riconoscere altri valori… Il Croce ubbidiva a una logica conservatrice e prescindeva da ogni esperienza pratica".
E, a proposito dei socialisti, scrive: "Il marxismo, dottrina della iniziativa popolare diretta, preparazione di un’aristocrazia operaia capace, nell’esperimento della lotta quotidiana, di promuovere l’ascensione delle classi lavoratrici è stato ripensato in Italia con qualche originalità soltanto da pochi solitari come Antonio Labriola e Rodolfo Mondolfo… L’esperimento torinese dell’Ordine nuovo fu la sola iniziativa di popolo alimentata dal marxismo".
Le sue analisi sono taglienti: "Il suffragio universale e la rappresentazione proporzionale [da realizzarsi con un ariforma del sistema elettorale] avrebbero potuto, esperiementati spregiudicatamente, preparare un’atmosfera di serenità per l’affermarsi di queste discussioni di queste esigenze [Gobetti si riferisce alla riforma di cui sopra]. Invece, il liberalismo non seppe dare la parola d’ordine alle forze nuove: gli industriali parvero costituire una banda misteriosa con nascoste funzioni sacerdotali…".
La sua narrazion è fluida: "Dopo il 1870 il partito liberale, risultante delle debolezze teoriche ed obbiettive sin qui descritte, è svuotato della sua funzione innovatrice perché privo di una dominante passione libertaria e si riduce a partito di governo… La pratica giolittiana fu liberale solo in questo senso conservatore, e la politica collaborazionista non salvava il liberalismo ma le istituzioni, tenendo conto non del movimento operaio ma dello spirito piccolo-borghese del partito socialista".
I suoi ritratti sono magistrali. Ecco come Gobetti descrive Gramsci: "La preparazione e la fisionomia di Antonio Gramsci apparivano profondamente diverse da queste tradizioni [Gobetti si riferisce al socialismo torinese dell'inizo del Novecento] già negli anni in cui egli compiva i suoi studi letterari all’università di Torino e si era iscritto al partito socialista, probabilmente per ragioni umanitarie maturate nel pessimismo della sua solitudine di sardo immigrato. Pare venuto dalla campagna per dimenticare le sue tradizioni, per sostituire l’eredità malata dell’anacronismo sardo con uno sforzo chiuso e inesorabile verso la modernità del cittadino. Porta nella persona fisica il segno di questa rinuncia alla vita dei campi e la sovrapposizione quasi violenta d’un programma costruito e ravvivato dalla forza della disperazione, dalla necessità spirituale di chi ha respinto e rinnegato l’innocenza nativa. Antonio Gramsci ha la testa di un rivoluzionario; il suo ritratto sembra costruito dalla sua volontà, tagliato rudemente e fatalmente per una necessità intima che dovette essere accettata senza senza discussione; il cervello ha soverchiato il corpo. Il capo dominante sulle membra malate sembra costruito secondo i rapporti logici necessari per un piano sociale… La voce è tagliente come la critica dissolutrice, l’ironia s’avvelna nel sarcasmo, il dogma vissuto con la tirannia della logica toglie la consolazione dell’umorismo…"
La sua ricostruzione storica del Risorgimento è effettuata attraverso penetranti insights: "Il motivo vitale del federalismo si ebbe nella critica di Cattaneo, il solo realista tra tanti romanntici e teorici. La fisionomia speculativa di Cattaneo si rivela tutta in una professione di cultura… L’impopolarità del Cattaneo derivava necessariamente dallo spirito della sua polemica e constatava il tramomto del nazionalismo…La sua filosofia è la prova che la originalità speculativa italiana si suol eaffermare dopo le parentesi di misticismo, nel riconoscere i valori più gelosi della personalità. La sua finezza è attestata dal suo atteggiamento antiromantico, libero da ogni peccato di sensismo. Il suo rigorismo morale, dall’opposizione inesorabile contro i demagogismi unitari e le illusioni patriottiche".
E, a proposito di Cavour, scrive: "Fu gran ventura per un popolo che non sapeva distinguere fra Cattaneo e il giobertismo, che si trovasse a guidarlo Cavour, il Cattaneo della diplomazia, che seppe evitare l’insterilirsi della rivoluzione in una tirannide… Il ministro piemontese sovrasta i suoi contemporanei perché guarda gli stessi problemi con gli occhi dell’uomo di stato". Genio della diplomazia, la cui "singolare virtù" era "la franchezza della sua astuzia", Cavour seppe "incominciare il processo moderno di una rivoluzione liberale, pur disponendo soltanto di un esercito e di una dinastia… La libertà economica fu il perno educativo su cui egli impostò la sua azione popolare…Il liberismo di Cavour mirava a far entrare nella vita nazionale nuove forze operose".

L’opera riformatrice di Cavour era, però, destinata a infrangersi contro lo scoglio della cultura politica italiana che non era liberale, ma individualistica e che si oppose alla vitalità della libera iniziativa. In questo quadro, scrive Gobetti, "il trasformismo di Depretis fu l’espressione più evidente di un’Italia che si pasceva di conciliazioni e di unanimità e non riusciva ad affrontare i terribili doveri della fondazione dello stato…Solo una pronta soluzione del problema elettorale e del problema burocratico avrebbe potuto porre rimedio a questa situazione parassitaria; ma non si osava discorrere di autonomie regionali per non compromettere l’unità e si voleva mantenere il diritto elettorale a una ristretta oligarchia. Quando gli italiani furono stanchi delle astuzie e delle lusinghe di Depretis si abbandonarono alle facili seduzioni della megalomania di Crispi, e nel fallimento africano tutta la nazione fu compromessa".

A quel punto, entrò in scena Giolitti. "Con Giolitti, la ripresa dei metodi di governo di Depretis ha una serietà nuova", scrive Gobetti. Malgrado ciò, Giolitti era un uomo di stato e "l’uomo di stato riconosce il suo compito nel creare un’atmosfera di tolleranza nei confronti dei conflitti sociali" che permise all’Italia dieci anni di "pace sociale di onesta amministrazione" che finirono con la guerra mondiale. "La guerra mondiale", nota Gobetti, "ci coglie im piena crisi unitaria e interrompe ascesi di ordinaria amministrazione e di serietà economica a cui il giolittismo ci aveva iniziati".

La sua individuazione delle cause del fallimento dell’Italia liberale è impeccabile: "Il liberalismo perdette la sua efficacia perché si dimostrò incapace di intendere il problema dell’unità… Il socialismo rivelò la povertà delle sue attitudini nel momento della realizzazione, ed espresse in Turati la sua impotenza di partito di governo. Accettò l’eredità della corrotta democrazia invece di mantenersi coerente a una logica rivoluzionaria. Rivoluzionari furono in Italia solo i coministi che agitando il mito di Lenin videro nella rivoluzione il cimento della capacità politica delle classi lavoratrici".

Per Gobetti, "c’era implicita nel movimento socialista, fuori degli astratti programmi di socializzazione, la possibilità di una nuova economia che risolvesse finalmente l’antinomia insolubile della politica economica italiana: protezionismo-libero scambio. Il consiglio di fabbrica poteva essere il punto di partenza di un’economia nuova".

Non fu così. L’esperienza dei consigli di fabbrica fallì. Gobetti non escludeva, tuttavia, che "un movimento operaio intransigente contro tutti i riformismi potrebbe segnare l’inizio della revisione e offrire i quadri per la lotta inevitabile… Ora", conclude,"è nostra ferma convinzione che l’ardore e lo spirito di iniziativa che portarono gli operai all’occupazione delle fabbriche non possano considerarsi spenti per sempre".

Occorsero vent’anni di fascismo, una guerra mondiale e un numero incalcolato di caduti nella lotta contro il fascismo per creare le condizioni che rendesseor possibile la rinascita di quello spirito d’iniziativa. Fra i caduti, ci fu anche Carlo Rosselli. Indomito antifascista e infaticabile organizzatore, Carlo Rosselli c’ha lasciato un numero elevato di scritti politici ed economici fra i quali spicca "Socialismo liberale".

Scritto da Rosselli tra il 1928 e il 1929 durante il suo confino a Lipari, "Socialismo liberale"
offre ancor oggi materiale per una discussione. Come scrive Rosselli, "il liberalismo si è investito progressivamente del problema sociale e non sembra più necessariamente legato ai principii dell’economia classica, manchesteriana. Il socialismo si va spogliando, sia pure faticosamente, del suo utopismo ed è venuto acquistando una sensibilità nuova per i problemi della libertà e dell’autonomia".

"E’ in nome della libertà, è per assicurare una effettiva libertà a tutti gli uomini, e non solo a una minoranza privilegiata", scrive Rosselli, "che i socialisiti chiedono la fine dei privilegi borghesi e la effettiva estensione all’universale delle libertà borghesi; è in nome della libertà che chiedono una più equa distribuzione della ricchezza e l’assicurazione in ogni caso a ogni uomo d’una vita degna di questo nome; è in nome della libertà che parlano di socializzazione, di abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, della sostituzione del criterio di socialità, dell’utile collettivo, la criterio egoistico dell’utile personale nella direzione della vita sociale".

Il movimento socialista", scrive Rosselli, "è dunque il concreto erede del liberalismo, il portatore di questa dinamica idea di libertà che si attua nel moto drammatico della storia. Liberalismo e socialismo, ben lungi dall’opporsi, secondo una vieta polemica, sono legati da un intimo rapporto di connessione. Il liberalismo è la forza ideale ispiratrice, il socialismo è la forza pratica realizzatrice".

Poi, Rosselli annota: "Il liberalismo borghese tenta di arrestare il processo storico allo stadio attuale, di eternare il suo dominio, di trasformare in privilegio quello che fu un tempo un diritto derivante da una incontestabile opera innovatrice; e si oppone all’ingreso nella storia delle nuove forze sociali preminenti". Per Rosselli, si tratta, però, d’una battaglia di retroguuardia. "Solo alcune frazioni della borghesia esercitano ancora una utile funzione progressista. E quali? Quelle che, indipendentemente dal privilegio della nascita, realizzano nella vita nuovi valori nella sfera della intelligenza pura e del lavoro di direzione".

"Dove vive e dove si attua dunque il liberalismo?", si chiede Rosselli. "In tutte le forze attive, rivoluzionarie della storia; in tutte le forze sociali che esercitano una funzione rinnovatrice; in tutte le forze che intendono superare lo stato sociale attuale e aprire alla libertà e al progresso sempre nuoiterritori, sempre nuovi orizzonti" in concomitanaza con un movimento analogo che interessa il socialismo che "da problem astratto di giustizia sta trasformandosi ogni giorno di più in un problema di capacità".

Quindi, conclude Rosselli: "Il socialista liberale, fedele alla grande lezione che sgorga dal pensiero critico moderno, non crede alla dimostrazione scientifica, razionale, della bontà delle empiriche soluzioni socialiste e neppure alla necessità dell’avvento della società socialista; non si illude di possedere il segreto dell’avvenire… Il suo motto è: il regime socialista sarà, ma potrebbe anche non essere. Sarà se noi lo vorremo, se le masse vorranno che sia, attraverso un consapevole sforzo creatore".

Tutt’altro che dogmatica era anche la posizione di Eugenio Colorni. "E’ evidente, perciò che se la vera democrazia non può realizzarsi che in una società socialista e questa presuppone la soppressione delle classi e perciò anche del proletariato, tale soppressione non può intendersi se non nel senso che il proletariato assorba progressivamente in sé, nel suo ordine sociale, tutte le classi, e distruggendole se le assumi. Alla creazione di questo mondo il proletariato non può convocare un movimento ‘popolare’ sulla base generica della libertà – poichè la libertà che i ceti piccoli e medi borghesi chiedono non è la libertà cui tende la classe operaia con la sua azione rivoluzionaria, ma una libertà borghese -: può soltanto conquistarli alla lotta di rivendicazioni concrete contro il grande capitalismo, e neutralizzarlo nella conquista del potere", scrsse Eugenio Colorni sul "Nuovo Avanti" del 27 febbraio 1937. "La presa del potere non annulla ipso facto i rapporti di classe; la realizzazione d’una democrazia socialista non può essere che il termine di un lungo, organico processo di trasformazione della struttura economica e dei rapporti politici del nuovo mondo. Di questo processo la classe operaia non può cessare di essere, attraverso l’azione sindacale come attraverso l’azione politica, la forza direttiva".

"Quando si parla di rivoluzione, allo stato attuale delle cose, occorre tener conto di alcuni fattori che rendono la situazione profondamente diversa da quella che si era venuta creando alla fine della scorsa guerra", scrisse Colorni poco prima di venire ucciso da una pattuglia fascista nell strade di Roma nel maggio del 1944. "Allora, gli stati vincitori, pur intromettendosi profondamente nella vita interna dei vinti, li lasciarono però essenzialmente liberi di scegliersi il regime interno che preferivano… Oggi questo principio non vale assolutamente più… Oggi, gli elementi in gioco si sono allargati, i legami di interdipendenza si sono moltiplicati". Ciò, secondo Colorni non eliminava l’azione di massa. La trasformava da azione per abbattere un regime in azione per costruire un nuovo regime attraverso lo sviluppo di quella che Gramsci avreva chiamato "egemonia culturale".

Poi, c’è il Colorni filosofo; c’è lo studioso di Leibniz e di Kant: c’è l’autore degli splendidi "Dialoghi di Commodo": "Per me, una volta compiuta, la cosa ha il supremo interesse di esserci, di esistere, e allora, io posso morire tranquillamente; o meglio, posso vivere senza paura di morire". E c’è lo scienziato che s’interroga memore dell’insegnamento di Kant, sui limiti della conoscenza scientifica:"Lo scienziato lavora, insomma, su qualche cosa che egli ha di fronte a sé e della quale sono elementi costituenti alcune forme, o categorie che provengono dalla sua mente, incorniciano la realtà e gliela rendono comprensibile e afferrabile".
"Kant, scrisse Colorni, "ha ammonito sull’impossibilità di uscire dalle forme dell’intelletto, per attingere la cosa in sé… La scienza conosce un altro tipo di conoscenza, diverso da quello chella filosofia. E’ la conoscenza intesa come padronanza di un processo. Si conosce una cosa quando si è capaci di costruirla, cioè di scomporla e ricomporla. Di fronte al problema kantiano, la scienza non si è domanda tase si potesse o meno uscire dal mondo delle categorie, ma se tale mondo fosse modificabile…".


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La Seconda guerra mondiale finì e scoppiò la Guerra fredda [Lewis Gaddis, Fontaine, Bongiovanni, a, b. Benvenuti, Traverso]. Tre furono le sue caratteristiche principali: oscurò qualunque rivalità che non fosse quella esitente fra capitalismo e comunismo; congelò la situazione politica internazionale; riempì il mondo d’armi atomiche in nome della teoria della deterrenza che trovò la sua formulazione più compiuta nella teoria della Mutually assured destruction, il cui acronimo MAD, considerato come una parola intera, nella "lingua dell’impero" significa pazzo da cui deriva madness, in italiano, follia . Sschelling La strategia del conflitto, Bruno Mondadori; E. J. Hobsbawm Il secolo breve, Rizzoli].

La teoria della MAD eliminò la possibilità dello scoppio d’una guerra fra le due superpotenze, ma alimentò, nello stesso tempo, una nutrita serie di "guerre per procura" che insanguinarono il Terzo mondo. A queste "guerre per procura", vanno aggiunte: la guerra di Corea, la guerra di Indocina, la guerra d’Algeria, la guerra del Vietnam.[J. Black La gurrra nl mondo conteporaneo, Il mulino; E. Di Nolfo Dagli imperi miliari agli imperi tecnologici, Laterza ].

Molti furono gli eventi della Guerra fredda che meriterebbero d’essere ricordati: il blocco sovietico di Berlino, la crisi di Suez, la rivoluzione cubana, la crisi dei missili, la crisi del’U2… [Galli della Loggia Il mndo comtemporaneo, Il mulino]. Io credo, tuttavia, che l’evento più significativo della Guerra fredda fu la rivoluzione ungherese [F. Argentieri La rivluzione calunniata, L’untà]. Essa, infatti, non fu significativa solo per quello che rappresentò come evento, ma essa fu significativa anche per il contesto nel quale avvenne: "l’indimenticabile 1956″, l’anno del XX congresso del Pcus e del "rapporto segreto" di Chrusëv sui crimini di Stalin il quale aprì una drammatica crisi all’interno del mondo comunista [Flores].
Va anche detto, però, che gli anni della Guerra fredda non furono soltanto gli anni della corsa agli armamenti e della paura d’una guerra atomica. Essi furono anche gli anni del più lungo boom della storia dei paesi capitalistici avanzati i quali, tra gli anni ’50 e ’60 conobbero elevati tassi di occupazione, moderati tassi di inflazione, alti tassi di crescita acompagnati da un notevole miglioramento del tenore di vita delle loro popolazioni [Kidron, Postan, Aldcroft, Glyn]. Questo fatto creò un clima di generalizzato ottimismo che favorì la creazione del mito economico della "crescita senza fine" [Vedi Appendice].
Gli anni della Guerra fredda furono, inoltre, gli anni nei quali vennero gettate le fondamenta sulle quali venne costruita l’Unione Europea (UE): settembre del 1950, istituzione della Unione europea dei pagamenti (UEP); aprile del 1951, costituzione della Comunità del carbone e dell’acciaio (CECA); maggio del 1952, firma del trattato istitutivo della Comunità europea di difesa (CED) che costituì, come scrisse Martin Gilbert, "la più ampia cessione di sovranità fatta dai paesi dell’Europa occidentale fino al trattato di Maastricht nel 1992″; marzo del 1957 firma del trattato di Roma che istituì la Comunità economica europea [Gilbert]. In questo quadro, va inserita la vicenda italiana.
Come scrisse, infatti, lo storico inglese, Paul Ginsborg, "Italy in the mid 1950s was still in many respects an underveloped country. Its industrial sectors could boast of some advanced elements in the production of steel, cars, electrical energy and artificial fibres, but these were limited both geographically and in their weight in national economy as a whole", [P. Ginsborg History of contemporary Ialy, Penguin]. Dieci anni dopo, l’Italia era "in many respects" un paese sviluppato. he cos’era accaduto? Era accaduto che gli italiani avevano imparato a sfruttare le proprie risorse, le quali erano le proprie braccia e la propria inventiva. Il segreto del "miracolo economico" è riconducibile ad una combinazione fortuita di bassi salari, di esportazioni basate su prodotti a tecnologia matura e di inventiva [A. Graziani L’economia italiana 1945-197o ].

Tra il 1958 e il 1963 il tasso di crescita medio annuo del pil, superò il 6,5%, mentre quello dell’industria superò l’8%. Gli investimenti lordi arrivarono al 26% del pil. Le esportazioni crebbero del 14,5% [Salvati, a]. La crescita economica produsse un notevole cambiamento nel modo di vivere degli italiani [Colarizi, a]. Il benessere che avanzava diede il via a una dilatazione dei consumi e modificò lo stile di vita. Gli italiani scoprirono l’auotmobile, la televisione, gli elettrodomestici.[G. Crainz Storia del miracolo economico, Donzelli].

Al cambiamento a livello economico si accompagnò un cambiamento a livello politico. Nacque, non senza traumi – vedi il caso Tambroni – il Centrosinistra [A. Lepre Storia della prima repubblica, Il mulino]. Venne varata la politica di programmazione [M. Carabba ]. Infine, si registrò l’avvio di un nuovo ciclo di lotte operaie [V. Foa Lotte operaie e sindacato in Italia, Loescher].

Come scrisse, infatti, Vittorio Rieser, gli Anni ’50 non furono "una fase priva di conflitto industriale". L’inizio del decennio è caratterizzato da grandi lotte e non si trattò soltanto delle lotte per il Piano del lavoro e contro la "legge truffa", "ma resta vero il fatto", notò Rieser, che "essi sono anni di pieno controllo padronale sulla forza lavoro" [V. Rieser Lo strano caso del dott. Marx e del prof Weber,  Sisifo].

Questa situazione era ben descritta in un documento Fiom del 1956 relativo alla Fiat. "In questi ultimi anni", si leggeva nel documento Fiom, "sia in relazione con la politica di investimenti perseguita in alcuni settori Fiat, sia in relazione con la politica del taglio dei tempi e dell’ intensificazione del lavoro, il rendimento operaio è aumentato in misura impressionante. Questa tendenza ha corrisposto naturalmente ad una forte diminuzione del costo del lavoro e, anche in ragione della situazione di monopolio in cui opera la Fiat, un fortissimo aumento dei profitti"

Il processo di razionalizzazione che era in atto in quegli stessi anni nell’industria italiana nel suo insieme venne analizzato, invece, da Silvio Leonardi nella sua relazione al convegno dell’Istituto Gramsci su "I lavoratori e il progresso tecnico".

Nella relazione, Leonardi notava che "il processo di razionalizzazione che si è sviluppato nel nostro paese in questo dopoguuerra è partito da una situazione di scarsa utilizzazione degli impianti". Leonardi spiegava, poi, che "il suo sviluppo ha fatto risaltare lo stato di relativa esuberanza del personale" e che era stato possibile raddoppiare la produzione manifatturiera senza praticamente aumentare la manodopera occupata. Quindi, aggiungeva che la stasi dell’occupazione aveva fatto sì che i cambiamenti dei rapporti di lavoro non trovassero una sufficiente compensazione nell’interno delle singole industrie e del sistema industria e nel suo complesso" [S. Leonardi Democrazia di piano, Einaudi].

Tale situazione cambiò con il "miracolo economico", quando si creò un mercato del lavoro favorevole al venditore. "Una prima avvisaglia", scrisse Rieser, "se ne ha nella ripresa delle lotte contrattuali del 1959, ma il segno inequivocabile del mutamento si ha con gli scioperi contro il governo Tambroni dell’estate 1960″ che si trasformeranno nelle grandi lotte contrattuali del 1962-63. Esse portarono dei notevoli elementi di novità: una forte contrattazione di categoria, una contrattazione aziendale, il tutto entro un quadro di sostanziale unità sindacale [V. Rieser op. cit].

Improvvisamente, arrivò la crisi a causa, si disse, d’una stretta creditizia messa in atto dalla Banca d’Italia per evitare i rischi d’una inflazione da salari indotta da un mutamento repentino dei rapporti di forza esistenti nel mercato del lavoro [M. Salvati Economia e politica in Italia nel dopoguerra, Garzanti]. La verità è che la crisi sarebbe arrivata ugualmente. Il boom aveva messo a nudo, da un lato, le "debolezze strutturali" della economia italiana a cominciare dal suo "nanismo" industriale [G. Nardozzi Miracolo e delino, Laterza, Colli].

Dall’altro lato, aveva portato alla luce, come scrisse Claudio Napoleoni, la "mancanza d’una politica economica alla scala dei problemi italiani" [C. Napoleoni Programmazione economica e politica dei redditi, in Graziani cit.]. In questo senso, il boom fu, per usare le parole di Michele Salvati, una "occasioni mancata" [Salvati, b. Rossi, a, b] dovuta alla mediocrità della classe dirigente italiana [C. Carboni La classe dirigente italiana, Laterza).


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In questo contesto si collocarono  le "Sette tesi sul controllo operaio" di Raniero Panzieri e di Lucio Libertini. Per Panzieri e Libertini, infatti, la "via democratica al socialismo" passava per "la via della democrazia operaia". Tale via si differenziava, a sua volta, dalla "via parlamentare" al socialismo, anche se essa non disdegnava l’uso degli strumenti del parlamentarismo. Anzi, Panzieri e Libertini consideravano l’uso degli strumenti del parlamentarismo "uno dei compiti più importanti che si pongono al movimento di classe" il quale avrebbe dovuto trasformare gli istituti parlamentari "da sede rappresentativa di diritti meramente politici, formali, ad espressione di diritti sostanziali, politici ed economici nello stesso tempo". Ciò non doveva fare dimenticare, però, che "la forza reale del movimento di classe si misura dalla quota di potere e dalla capacità di esercitare una funzione dirigente all’interno delle strutture della produzione". Per Panzieri e Libertini, infatti, "l’autonomia rivoluzionaria del proletariato si concreta nella creazione dal basso, prima e dopo , la conquista del potere, degli istitituti della democrazia socialista." Così facendo, "la classe operaia, mano a mano che, attraverso la lotta per il controllo, diviene il soggetto attivo di una nuova politica economica" e "assume su di sé la responsabilità di un equilibrato sviluppo della economia, tale da spezzare il potere dei monopoli" [Panzieri, b].
La pubblicazione delle "Sette tesi sul controllo operaio" suscitò un vivace dibattito sia all’interno del Psi che nel Pci. Francesco De Martino osservò che "le tesi muovevano dal presupposto classico che lo stato parlamentare borghese è lo strumento della borghesia capitalista… ma lo stato attuale non è più quello d’un tempo…Perciò, lo stato democratico in molti paesi, pur non essendo certo lo stato dei lavoratori, non si può considerare allo stesso modo in cui Marx ed Engels lo consideravano". Alberto Caracciolo scrisse che "l’impegno e la prospettiva per il controllo operaio della produzione si presentano come qualche cosa di sostanzialmente nuovo nell’odierno panorama di idee del movimento socialista in Italia". Roberto Guiducci affermò che "non è cosa facile rispondere all’invito alla discussione dagli spinosissimi problemi contenuti nelle sette tesi sulla questione del controllo operaio". Rodolfo Morandi, in aperta polemica, dichiarò d’essere "più che mai collettivista". Antonio Pesenti obbiettò che "il capitalista non accetta né accetterà mai di dividere il suo potere". Nella loro risposta, Panzieri e Libertini ribadirono che "il controllo operaio va visto come elemento centrale e insostituibile di sviluppo e di democrazia" [L. Libertini Introduzione a Sette te sul controllo operaio, Fetrinelli)
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I temi trattati da Panzieri e Libertini in "Sette tesi sul controllo operaio", confluirono successivamente nelle "Tredici tesi sulla questione del partito di classe", pubblicate su "Mondo operaio" nel novembre del 1958. Nelle tesi, Pcato per un lungo periodo, cioè i tempi di ammortamento diventano estremamente lunghi e quindi c’è la necessità di programmare un mercato".
Per poter realizzare ciò, il capitale doveva uscire dalla fabbrica e doveva coinvolgere la società nel processo di valorizzazione. Come Panzieri notò nel saggio [Panzieri, h] "Sull’uso capitalistico della macchine", "come processo di sviluppo della divisione del lavoro e il luogo fondamantale di questo processo è la fabbrica"; è nella fabbrica, infatti, che si realizza "la contrapposizione delle potenze intellettuali del processo produttivo materiale agli operai come proprietà non loro e come potere cheli domina"; ed è pure nella fabbrica che si realizza "lo sviluppo della tecnologia" la quale "distrugge il vecchio sistema della divisione del lavoro e lo consolida sistematicamente quale mezzo di sfruttamento della forza lavoro in una forma ancora più schifosa". Il punto d’arrivo di questo processo di espropriazione del lavoratore e del suo asservimeento al capitale è rappresentato dalla fabbrica automatica nella quale, scrive Panzieri citando Marx, "l’automa stesso è il soggetto e gli operai sono coordinati ai suoi organi incoscienti solo quali organi coscienti e insieme a quelli sono subordinati a quella forza motrice centrale". In questo quadro, nota Panzieri nel suo saggio, "una formulazione non mistificata del controllo operaio ha senso soltanto in rapporto a un obiettivo di rottura rivoluzionaria e ad una prospettiva di autogestione socialista". In altre parole, "il controllo operaio esprime la necessità di colmare il salto attualmente esistente tra le stesse rivendicazioni operaie più avanzate a livello sindacale e la prospettiva strategica".
Tale prospettiva strategica, secondoPanzieri, doveva tener conto, però, del fatto che la sfera d’azione del capitale non è più limitata alla fabbrica. La monopolizzazione dell’economia l’aveva estesa alla società; in altre parole, come Panzieri scrisse in "Plusvalore e pianificazione" [Panzieri, i], "dal capitalismo mono-oligopolistico si sviluppa il capitalismo pianificato… L’industria reintegra in sé il capitale finanziario e proietta a livello sociale la forma che specificatamente in essa assume l’estorsione di plusvalore: come sviluppo neutro delle forze produttive, come razionalità, come piano. Il compito dell’economia apologetica è facilitato." Ciò, notò Panzieri, imponeva al marxismo un compito nuovo. Esso "si muove alla superficie della realtà economica e non riesce a coglire l’insieme né l’interna variabilità del funzionamento. I cambiamenti vengono visti a livello empirico e quando ci si sforza di raggiungere un livello scientifico, si torna a modelli di spiegazione che astraggono dallo sviluppo storico. Accade così che al pensiero marxista sfugga, in generale, la caratteristica fondamentale dell’odierno capitalismo che è nel recupero dell’espressione fondamentale della legge del plusvalore, il piano, dal livello di fabbrica al livello sociale".
Secondo Panzieri, infatti, la "sociologia di Marx", in quanto "nasce dalla cirtica dell’economia politica, nasce da una constatazione e osservazione sulla società capitalistica, la quale è una società dicotomica, una società nella quale la rappresentazione unilerale della scienza della economia politica lascia fuori l’altra metà". Occorreva superare questa dicotomia e, per poterlo fare, occorreva superare l’ambito della critica dell’economia politica [Panzieri, l].
Ciò significava che noi potevamo "criticare la sociologia come Marx faceva con l’economia politica classica, cioè vedendola come una scienza limitata, e tuttavia ciò significa che ciò che essa vede è nel complesso vero, cioè non è qualcosa di falsificato in sé, ma è piutttosto qualcosa di limitato che provoca delle deformazioni interne; ma essa conserva tuttavia quello che Marx considerava il carattere di una scienza, cioè un’autonomia che regge su un rigore di coerenza, scientifico, logico" [ivi].
Mario Tronti fu ancora più esplicito. "Il rapporto di produzione capitalistico vede la società come mezzo, la produzione come fine", egli scrisse, infatti, nel saggio "La fabbbrica e la società", pubblicato sul n. 2 dei "Quaderni rossi" [Tronti, a]. "Il capitalismo è produzione per la produzione. La stessa socialità della produzione è niente altro che il medium per l’appropriazione privata. In questo senso, sulla base del capitalismo, il rapporto sociale non è mai separato dal rapporto di produzione; e il rapporto di produzione si identifica sempre più con il rapporto sociale di fabbrica; e il rapporto sociale di fabbrica acquista sempre più un contenuto direttamente politico. E’ lo stesso sviluppo del capitalismo che tende a subordinare ogni rapporto politico al rapporto sociale, ogni rapporto sociale al rapporto di produzione: perché solo questo gli permette poi di cominciare, dentro la fabbrica, il cammino inverso: la lotta del capitalismo per scomporre e ricomporre a propria immagine la figura dell’operaio collettivo". Si prefigurava, così, per Tronti, il nuovo assetto dei rapporti sociali di produzione: "Non più soltanto i mezzi di produzione e l’operaio dall’altro che lavora, ma da una parte tutte le condizioni di lavoro; dall’altra l’operaio che lavora: lavoro e forzalavoro tra loro contrapposti e tutti e due uniti dentro il capitale".
Ciò apriva, per Tronti, come egli scrisse nel saggo "Il piano del capitale", pubblicato sul n. 3 di "Quaderni rossi", "una lunga serie di domande inquietanti": "Fino a qual punto la contraddizione fondamentale fra carattere sociale della produzione e appropriazione privata del prodotto può venire investita e intaccata dallo sviluppo capitalistico? Nel processso di socializzazione del capitale non si nasconde una forma specifica di appropriazione sociale del prodotto privato? La stessa socialità della produzione non è diventata la più importante mediazione oggettiva della proprietà privata?". La risposta di Tronti a queste domande era che "tutto il meccanismo oggettivo funziona a questo punto dentro il piano soggettivo del capitalista collettivo. La produzione sociale diventa funzione diretta della proprietà privata. Agli operai non rimane altro che il loro parziale interesse di classe. Da un lato l’autogoverno sociale del capitale; dall’altro lato l’autogestione degli operai organizzati". [Tronti, b]
Ciò chiamava in causa quella che veniva chiamata "programmazione democratica [Forte]. In un editoriale intitolato "Piano capitalistico e classe operaia", pubblicato sul n. 3 della rivista, la direzione di "Quaderni rossi" affermava che "in questi anni il potere capitalistico si è andato profondamente trasformando", . "L’aspetto più importante di questa trasformazione è la programmazione dello sviluppo che esso ha impostato. Tale programmazione ha molti aspetti complessi e importanti. Uno dei più importanti è la decisione coordinata degli investimenti di capitali, in modo da eliminare gli squilibri esistenti nell’economia del paese e da accelerare il ritmo di sviluppo. In questo coordinamento, il ruolo dello stato è fondamentale: possiamo dire che lo sviluppo del paese è deciso dai più grandi gruppi capitalistici attraverso il coordinamento dello Stato e che lo Stato ha un’importanza fondamentale anche negli interventi industriali che esso effettua direttamente attraverso le aziende da esso controllate."
I "Quaderni rossi" ritornarono sul medesimo tema in un editoriale pubblicato suil n. 6 della rivista dal titolo: "Movimento operaio e autonomia della lotta di classe". "L’economia italiana", affermava l’editoriale, "è avviata a soluzioni pianificiate del proprio sviluppo, ma il processo di ristrutturazione dei rapporti capitalistici internazionali introduce un elemento di precarietà nelle scelte economiche nazionali. Per questo il capitalismo italiano si trova oggi nella impossibilità di programmare uno sviluppo economico nel quale si consideri obiettivo principale la soluzione dei tradizionali squilibri sociali del paese". Questi problemi vennero affrontati da Dario Lanzardo in tre saggi apparsi sui numeri 3, 4, 6 di "Quaderni rossi".
Nel primo dei tre saggi recante il titolo "Temi della programmazione sociale dello sviiuppo", Lanzardo dimostrava che i limiti che la programmazione doveva fronteggiare nascevano dalle contraddizioni dell’economia oligopolistica che essa pretendeva di gestire. [Lanzardo a]. Nel secondo saggio, intitolato "Produzione, consumi, lotta di classe", Lanzardo, dopo aver rilevato che "la storia del capitalismo, dal periodo in cui Marx conduceva la sua analsi, ci mostra il meccacinismo attraverso il quale si produce l’accumulazione del capitale si è gradualmente modificata, nel senso che la seconda sezione dell’economia – quella che produce mezzi di consumo – è venuta ad avere un peso crescente nell’ambito del proceso accumulativo di ogni singolo paese e dello sviluppo mondiale del capitalismo", notava che "stabilito che la programmazione economica è comunque una tecnica che ha lo scopo di intensificare il processo accumulativo e di controllarlo in tutte le sue componenti", era chiaro che la programmazione andava incontro a due generi di limiti derivanti, da un lato, dal livello medio dello sviluppo mondiale, dall’altro lato, dallo stato dei rapporti sociali di produzione" [Lanzardo b]. Nel terzo saggio intitolato "Note sul problema dello sviluppo del capitale e della rivoluzione socialista", Lanzardo individuava la causa del fallimento della rivoluzione socialista nella contraddizione che s’era aperta fra soggettività rivoluzionaria e arretratezza delle condizione oggettive [Lanzardo c].
Ciò ci riporta a Panzieri. Come scrisse, infatti, Panzieri, "La necessità di assicurare la vitalità e di difendere la esistenza del sistema socialista nelle condizioni di assedio e di accerchiamento capitalista, ha portato ad anticipare la trasformazione dei rapporti di produzione rispetto allo sviluppo delle forze produttive. Tale anticipazione s’è tradotta nel ritmo forzato impresso alla collettivizzazione forzata e alla industrializzazione e si è dato così luogo a un processo contradditorio di fronte al quale le strutture originarie della democrazia socialista sovietica e i suoi controlli hanno ceduto a causa del debole sviluppo iniziale delle deboli forze rivoluzionarie coscienti"
.
In questo modo, offrendo una spiegazione economico- sociologica dello stalinismo, Panzieri evitò, però, di affrontare il problema delle origini ideologiche dello stalinismo. Lo stalinismo non nacque, infatti, dal nulla. Esso nacque dal medesimo ceppo da cui nacque il leninismo. Ciò significa che la critica dello stalinismo non può prescindere dalla critica del marxismo.
Chiarito ciò, possiamo pure discutere dell’accerchiamento dell’Unione sovietica da pate delle potenze capitalistiche che portò Stalin ad anticipare la trasformazione dei rapporti di produzione rispetto allo sviluppo delle forze produttive e possiamo pure discutere del "marxismo come abbozzo d’una sociologia", per usare una definizione dello stesso Panzieri.
Tutto ciò appare, oggi, in tempo di "pensiero unico", privo di senso, come priva di senso appare, oggi, la affermazione di Panzieri che "solo una rozza mistificazione può presentare il neocapitalismo come una lotta del nuovo contro il vecchio: esso costituisce la tendenza e la direzione che si iscrivono e si definiscono all’interno della decadenza e della crisi"]. Non era così negli anni di Panzieri.

domenica 28 febbraio 2016

RICORDANDO CON RABBIA - 2


CORRADO BEVILACQUA
UNA CRISI DI CIVILTA'


Ha scritto Kenneth Rogoff a proposito della crisi finanziaria del 2008, in uno studio per la Federal Reserve della California: “The fundamental flaw in these analyses was the assunption that advanced country capital markets were fundamentally perfect”. Eppure, c’erano state altre crisi, prima di quella del 2008: in Asia, in Messico, in Argentina. Esse erano state oggetto di studio di due premi Nobel per l’economia: Joseph Stiglitz e Paul Krugman  che avevano scritto dei libri su di esse.

Altri economisti, meno famosi, ma non meno valenti, Nouriel Roubini e Rafaj Rajan, avevano messo in guardia sulla possibilità d’una crisi. I valori di borsa erano troppo elevati rispetto ai “fondamentali”, c’era in giro troppa liquidità, troppi titoli ad alto rischio erano posti in circolazione dalle banche. In altre parole, si stava realizzando ciò che era previsto nel modello di Minsky.

Parole al vento. Chi avrebbe dovuto ascoltare gli ammonimenti degli economisti più avveduti, non aveva alcuna voglia di starli ad ascoltare. S’era creato un clima di “euforia irrazionale” che gonfiava la bolla speculativa che s’era areata attorno a dei titoli spazzatura. La bolla si gonfiò, si gonfiò, poi esplose come la rana che voleva diventare bue, splendida allegoria del capitalismo del nostro tempo. Un capitalismo che, sospinto dal vento sprigionatosi dall’implosione del comunismo sovietico, ha inondato di scintillanti monete false tutto il mondo che non era stato ancora conquistato alla sua causa.

Un mondo di risorse da sfruttare a proprio piacimento. Un mondo intero da soggiogare alla logica della ricerca del massimo profitto. Un mondo intero nel quale diffondere il verbo del neoliberismo. Liberi di scegliere. Abbasso le regole. Viva la deregolamentazione. Liberalizziamo i servizi che oggi sono pubblici, prendiamoci l’acqua. E con l’acqua prendiamoci anche l’uomo che è per la maggior parte fatto d’acqua.

L’acqua è un bene fondamentale, fonte essenziale di vita. Prendere l’acqua, privatizzarla, sottomettere il suo sfruttamento alla logica della ricerca del massimo profitto vuol dire prendere la vita delle persone, appropriarsi delle loro possibilità di sopravvivenza. L’ha spiegato molto chiaramente Vandana Shiva.

Per i neoliberisti queste preoccupazioni sono un non senso. Per essi, ognuno di noi altro non è che una sorta di Robinson Crusoe e il mondo in cui viviamo altro non è che l’isola dove egli ricostruisce la propria vita. E Venerdì? Venerdì non è un uomo. Venerdì è uno schiavo: né potrebbe essere qualcosa di diverso. Nel petto di Robinson Crusoe alberga l’anima di Kurz, l’eroe negativo di Cuore di tenebra di Joseph Conrad: il pozzo nero del colonialismo europeo. In questo contesto Kurz rappresenta il Male e il capitano Marlowe, man mano che si avvicina al covo di Kurz, sente crescere dentro di lui un sentimento inaspettato di attrazione nei suoi confronti (A.Riding Belgium confronts the horrors of its colonial reign in Africa, ikn IHT, Sept. 25, 2002) In Conrad c’è sempre qualcosa di irrisolto. Pensiamo a Lord Jim roso interiormente da un oscuro senso di colpa; c’è sempre qualcosa di indecifrabile, ai limiti dell’indicibile, come l’odio di Claggart per Billy Budd nell’omonimo racconto di Herman Melville.

Nel Kurz di Ford Coppola non v’è alcunché del genere. Né avrebbe potuto esservi, considerato il contesto: una guerra fatta più per far dispetto al proprio avversario che per convinzione. Una guerra che gli Usa non avrebbero mai potuto vincere. Una guerra tipica della Guerra fredda. Prodotto della teoria del domino.

Una guerra che dimostrò come il sogno americano, il sogno della città sulla collina, fosse ormai un lontano ricordo. Imperava la ragion di stato, la necessità di dimostrare la propria esistenza come superpotenza: tutti dovevano sapere che gli Usa non avrebbero mai consentito a nessuno stato al mondo di diventare comunista.

Eravamo negli Anni 60. Essi s’erano aperti con la elezione di John F. Kennedy alla Casa Bianca. Un uomo giovane per una politica giovane. Walter Heller, suo consigliere economico, scrisse un manifesto per la politica economica della “nuova frontiera”. Essi s’era chiusi con due anni di anticipo, nel 1968, con l’uccisione a Memphis di Martin Luther King, l’uomo che aveva un sogno. Non aveva capito che il sogno americano era morto nel delta del Mekong.

Improvvisamente, scoppiò il 68. Fu come una colata lavica che tutto travolse e per un momento sembrò che fosse possibile realizzare “il sogno d’una cosa” di cui Marx parlava in una famosa lettera giovanile a lettera a Ruge, siglata Kreuzenach, settembre 1843. Volevamo tutto perché ci sentivamo tutto. Avevamo deciso di non stare più al gioco della dialettica servo-padrone. Noi un sapevamo cosa fosse avere un padrone: né volevamo il suo riconoscimento. Bastavamo a noi stessi. Eravamo Il momento svanì e noi ci trovammo a fare i conti con la prosaicità della politica quotidiana, la politica delle mediazioni e dei compromessi, tra rumori di sciabole e fragore di bombe fatte scoppiare dai manutengoli d’uno stato corrotto che era gestito da fine della guerra da un partito che aveva trasformato le istituzioni pubbliche in feudi per le proprie correnti politiche.

Oggi, tutto ciò è lontano da noi, avvolto nella nebbia dei ricordi, coperto dalla polvere del passato. L’Unione Sovietica non esiste più. Il nemico è scomparso nel nulla. L’impero del male è crollato e sulle sue ceneri è nato uno stato di tipo nuovo controllato da una nuova classe dirigente. Nuove potenze economiche si sono affacciate sulla scena mondiale mettendo in crisi le vecchie potenze capitalistiche occidentali che non riescono a tenere il passo dei nuovi concorrenti.

La classe operaia, sulle quale Marx aveva puntato le sue speranze, è stata smembrata dalla rivoluzione informatica; è stata messa al tappeto dalla concorrenza delle nuove potenze economiche che possono contare su un enorme esercito industriale di riserva che abbassa il costo di riproduzione della forza lavoro a livelli preindustriali e mette fuori mercato i beni prodotti dalle economie capitalistiche occidentali.

In un capitolo famoso dei Principi di economia pubblicati all’inizio dell’Ottocento, quando la Rivoluzione industriale era nella sua prima stagione, David Ricardo, ricco agente di cambio trasformatosi in economista, dimostrava che il Portogallo avrebbe guadagnato molto di più, nei suoi scambi con l’Inghilterra, se avesse continuato a produrre vino invece di mettersi a produrre il grano che importava dalla stessa Inghilterra. Il vantaggio sarebbe stato ancora maggiore, se invece di grano si fosse messo a produrre macchine.

La Germania dimostrò che Ricardo sbagliava. Essa dimostrò, infatti, che era possibile per un paese non ancora industrializzato, com’era invece l’Inghilterra, industrializzarsi fino a superare la stessa Inghilterra grazie ad una oculata politica industriale che mettesse in uso le sue forze produttive, come aveva suggerito Federico List in Il sistema dell’economia nazionale.

E’ quello che sta oggi succedendo nei rapporti fra le potenze capitalistiche occidentali e le nuove potenze economiche le quali stanno dimostrando che il problema della formazione del capitale nei paesi sottosviluppati può essere risolto attraendo capitali dall’estero grazie ai vantaggi comparati che la presenza di un enorme esercito industriale di riserva offre agli investitori esteri.

Questo fatto, da un lato, ha mandato a gambe all’aria la vecchia divisione internazionale del lavoro e ha posto in serie difficoltà le potenze capitalistiche occidentali nelle quali il costo di riproduzione della forza lavoro è molto più elevato di quello esistente nelle nuove potenze economiche; dall’altro lato ha dimostrato che il problema del sottosviluppo era più n problema politico relativo al controllo straniero sull’uso delle risorse locali che un problema economico.

L’economia di carta ha preso il sopravvento sull’economia reale, derivati, hedge funds hanno preso il sopravvento su fabbriche, operai, prodotti materiali. In altre parole, la ricchezza si è virtualizzata allo stesso modo che s’è virtualizzata la nostra vita.

Esiste ciò che si vede in televisione. Noi siamo ciò che si legge nei nostri profili online. Lo spettacolo ha preso il sopravvento sulla realtà. Siamo degli alienati che vivono vite virtuali. Non siamo più Tizio, Caio, Sempronio, Mevio, Tullio, siamo i nostri Id online, le nostre passwords: 46maggio19. Marx asseriva che non è la nostra coscienza che fa il nostro essere sociale, ma è il nostro essere sociale che fa la nostra coscienza. Se è così, allora dobbiamo chiederci, qual è l’essere sociale di una ragazza dei call center; qual è l’essere sociale di un giovane precario.

Come può svilupparsi una coscienza di classe in chi non ha classe di appartenenza, in chi trascorre la propria vita facendo i lavori più diversi per brevi periodi di tempo. Come può svilupparsi una professionalità in chi non ha una professione, in chi non ha mai imparato un mestiere; in chi sa far tutto perché ha sempre fatto dei lavori per i quali non era richiesta alcuna professionalità, alcun saper fare?

Quale vita può mai costruirsi costui’ E che senso può avere per lui una vita senza alcun punto di riferimento; una vita, per usare una celebre espressione di Deleuze e Guattari, da rizoma? Come può mettere radici chi non ha alcun terreno in cui porle? Non ha un futuro cui guardare con speranza? Che umanità è quella che stiamo generando?

L’uomo, si dice, è un animale sociale che non può vivere isolato, come il protagonista del racconto Il lupo della steppa di Hermann Hesse. L’uomo, si dice, è un animale politico che non può vivere allo stato brado. Ha bisogno di un’organizzazione, come spiegò Platone. Lo stato esiste perché nessun uomo può fare da solo tutte le cose di cui abbisogna.

In questo modo, si creò la prima elementare divisione del lavoro, nacquero le prime specializzazioni C’è chi si specializza nella produzione di punte di lancia e chi si specializza nella produzione di lame per coltelli. Chi si specializza nella produzione di fiocine e chi si specializza nella produzione di scodelle.

Siamo ancora nella fase primitiva della divisione del lavoro; siamo, cioè, in quello che Adam Smith chiamava lo stadio rude e rozzo della storia della società. Smith vedeva, infatti, la storia come susseguirsi di fasi attraverso le quali l’uomo era passato dalla barbarie primitiva alla civiltà. Oggi barbaro è il diverso, l’altro, l’immigrato specialmente se è di colore; è chi parla un’altra lingua a noi incomprensibile, ha altri usi e costumi, venera un altro Dio.

Questo fatto mette paura, rende più sottile la nostra percezione del rischio, ci fa sentire insicuri, determina la nostra domanda di sicurezza, anche se per ottenere maggior sicurezza dobbiamo rinunciare a parte della nostra libertà; dobbiamo accettare controlli che non avremmo mai accettato; accettiamo intromissioni nella nostra vita privata che avremmo sempre rifiutato.

Ritorniamo così al punto di partenza. La crisi contro la quale stiamo lottando non è una crisi come le altre. Essa è molto più complessa; essa è espressione, infatti, dell’intrecciarsi di differenti crisi che hanno coinvolto la nostra economia, la nostra società la nostra politica, le quali richiedono per la loro soluzione il varo d’un insieme di misure di carattere economico, sociale, politico che l’attuale sistema economico-sociale non è in grado di offrire.

Essa richiede quella che una volta si chiamava fuoriuscita dal sistema; superamento del capitalismo. Per andare dove? Non c’è stato spiegato che la storia è finita con il crollo dell’Unione sovietica. Che il comunismo mancò l’obiettivo, che non c’è alternativa al capitalismo? Se fosse davvero così, vorrebbe dire che il nostro destino è segnato, in quanto non c’è limite a quella che Eric Fromm chiamò auto-distruttività umana.

Questa è una possibilità che Marx non prese in considerazione. Marx possedeva una concezione della storia come progresso. Il comunismo rappresentava lo stadio superiore, il più evoluto, nel quale, secondo la celebre formula del Manifesto dei comunisti, “la libertà di tutti sarebbe stata la condizione della libertà di ciascuno”

Le cose andarono, com’è noto, in modo molto diverso. Preso il potere, il partito bolscevico, prese anche possesso dello stato e attraverso lo stato, assunse il controllo su ogni aspetto della vita economica, politica, sociale, culturale. Nacque così una nuova classe di funzionari di partito, funzionari dello stato, dirigenti industriali che gestì il potere in modo rude e violento. In gergo, era nota come la Nomenklatura.

Non era ammessa alcuna voce di dissenso, fosse essa espressione di un’ideologia progressista come quella di Sacharov o fosse essa espressione di un’ideologia ancorata al passato zarista come quella di Solzenitsyn. In altre parole, si trattava d’un sistema basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, non più in nome del profitto individuale, ma in nome del mantenimento del potere d’una classe di burocrati.

Tutto ciò non aveva alcun elemento in comune con la visione che Marx aveva del socialismo, ma era stato il prodotto d’una serie di circostanze che avevano costretto lo stesso Lenin a fare i conti con una realtà economica, sociale, politica e culturale che mal si prestava alla costruzione di un sistema economico, politico, sociale di tipo socialista.

L’idea base fu che, se il capitalismo voleva dire anarchia della produzione, economia di mercato, ricerca del massimo profitto individuale, il socialismo avrebbe dovuto essere l’esatto opposto: direzione centralizzata dell’economia, pianificazione economica, ricerca del massimo d benessere sociale. Il tutto da realizzarsi con i pochi strumenti teorici e pratici che erano allora a disposizione dei pianificatori.

Collegato a questo, era il problema del modello di industrializzazione: quali settori sviluppare, come finanziare gli investimenti, quale genere di organizzazione dei rapporti di lavoro dentro e fuori le fabbriche costruire. Si aprì un dibattito, si formarono delle scuole di pensiero, si crearono delle correnti politiche, si organizzarono manifestazioni politiche.

Le questioni dibattute furono molte. Qui è sufficiente ricordare alcune di esse. Per quello che riguardava il modello di industrializzazione due furono le principali scuole di pensiero. Una che sosteneva la necessità di mantenere un rapporto equilibrato tra i diversi settori della produzione; un’altra che sosteneva, invece, il punto di vista degli industrializzatori, di coloro, cioè, che ritenevano che lo sviluppo dell’industria e nel fattispecie dell’industria pesante dovesse aver la preferenza su quello dell’agricoltura e in particolare su quello dei beni di consumo, la cosiddetta industria leggera.

Per quello che riguarda le fonti da cui trarre le risorse necessarie allo sviluppo dell’industria, è da sottolineare come anche in questo campo si fossero formate due scuole di pensiero, l’una che faceva capo alla teoria di Preobrazenskij sulla accumulazione originaria socialista che sosteneva che le risorse dovevano essere tratte dall’agricoltura anche in modo forzoso; l’altra che faceva capo a Nicholai Bucharin per il quale occorreva favorire, invece, lo sviluppo dell’agricoltura..

Il dibattito si protrasse per alcuni anni che furono caratterizzati dalla nuova politica economia voluta da Lenin di incentivazione dell’iniziativa privata nelle campagne nella speranza che in questo modo si potesse aumentare la produzione agricola evitando gli sprechi delle confische e si potesse garantire così il rifornimento di generi alimentari alle città.

Il dibattito si concluse con la presa del potere da parte di Stalin che favorì la vittoria degli industrializzatori e segnò l’inizio del nuovo corso economico caratterizzato dalla direzione centralizzata della economia, dall’industrializzazione pesante, dalla collettivizzazione forzata delle campagne.

Destinati a restare inascoltati furono gli ammonimenti di cui Bucharin s’era fatto promotore in un articolo intitolato Note di un economista all’inizio del nuovo anno economico, nel quale metteva in guardia nei confronti dei pericoli insiti in un’industrializzazione spinta, perché come egli scrisse non si può costruire con i mattoni del futuro.

In altre parole, sosteneva Bucharin, non si può mettere in programma la costruzione di un certo numero di case se devono essere ancora costruite le fabbriche che dovranno produrre i mattoni con i quali dovranno essere costruite le suddette case.

La scelta a favore dell’industrializzazione pesante, della direzione centralizzata dell’economia e della collettivizzazione forzata delle campagne, comportò da un lato la crescita distorta dell’economia sovietica che costrinse a penosi sacrifici il popolo russo a causa della penuria di beni di consumo; dall’altro lato, comportò degli sprechi inauditi di risorse umane, economiche e naturali che si nascondevano dietro agli alti tassi di crescita dell’industria pesante sovietica.

Tali alti tassi d crescita furono al centro di accese discussioni fra economisti marxisti ed economisti borghesi, come allora si definivano, allo stesso modo che furono al centro di un acceso dibattito le questioni relative alla pianificazione dell’economia. Per gli economisti borghesi non era possibile realizzare, come spiegò l’economista austriaco di Ludwig von Mises, un calcolo economico razionale in un’economia che non fosse di mercato.

Ludwig von Mises scriveva a ridosso della Rivoluzione bolscevica. Oggi, sappiamo che, almeno in via teorica, è possibile realizzare un calcolo economico razionale sia utilizzando teorie e metodi elaborati dagli “ottimalisti” sovietici, come Kantorovic e Novozilov, che teorie e metodi elaborati in Occidente. Pressoché insormontabili, invece, si sono rivelati i problemi pratici.

Questa difficoltà nasce dal fatto che non è sufficiente emanare degli ordini di produzione corretti dal punto di vista teorico. Occorre che ciò che viene ordinato venga realizzato in tempi e modi previsti dai pianificatori e questo fatto pone dei problemi che sono praticamente insormontabili per una pianificazione di tipo centralizzato com’eraa quello sovietico.

Il modello di crescita sovietico fu per anni il modello di rifermento dei governi dei paesi in via di sviluppo (PVS) in generale e, in particolare, degli economisti marxisti; penso a Paul Baran e a Charles Bettelheim. Baran parlava di “ripida ascesa” e di massimo saggio di surplus investibile. Bettelheim parlava di “sviluppo accelerato”

Le teorie di Baran e di Bettelheim presentavano i difetti delle teorie dello sviluppo della prima generazione, penso a Sviluppo economico e struttura di Kuznets, a Teoria dello sviluppo economico di Lewis, a La formazione del capitale nei paesi sottosviluppati di Nurske che fu tradotto in italiano da Lucio Libertini.

Eccentrici rispetto al pensiero dominante in materia di sviluppo economico, furono Teoria economica e paesi sottosviluppati di Myrdal e La strategia dello sviluppo economico nel quale Hirschman criticava il modello sovietico e introduceva il concetto di connessioni. In base a questa teoria, gli investimenti per lo sviluppo andavano effettuati nei settori che presentavano maggiori connessioni a monte e a valle.

Il fallimento dei modelli tradizionali di sviluppo e, più in generale, delle politiche per lo sviluppo della prima generazione portò all’elaborazione di nuove teorie, come la teoria dei poli di sviluppo e delle regioni motrici; ovvero, le nuove teorie della nuova dipendenza di Theotonio Dos Santos, dello sviluppo del sottosviluppo di André Gunder Frank, dello sviluppo autocentrato di Samir Amin, dello scambio ineguale di Arghiri Emmanuel.

Oggi, tutto ciò appare relegato irrevocabilmente al passato. Il neoliberismo ha mietuto le sue vittime anche nei PVS. Nessuno più dibatte dei tassi sovietici di crescita economica. Per essere più precisi, nessuno più si cura di teoria dello sviluppo; nessuno più discute di modelli di crescita. Nessuno più discute del problema relativo al rapporto fa economia e politica. Tutto ciò che succede viene dato per scontato, come se fosse scritto nel libro del destino.

Nello suo studio sullo sviluppo del capitalismo in Russia, Smith venne usato da Lenin nella sua polemica contro i populisti e i seguaci russi di Simonde de Sismondi. Sismondi fu uno dei primi critici del capitalismo. Sismondi non credeva nella legge di Say, non credeva, come egli scrisse sulla Edinburgh Review, che l’offerta creasse la propria domanda, che i prodotti si comperassero con i prodotti, che gli economisti dovessero occuparsi solo della ricchezza “facendo astrazione dalle sofferenze degli uomini che producono questa ricchezza”.

Tali sofferenze erano note a Smith, il quale in un passo molto significativo della Ricchezza delle nazioni si interroga sulle conseguenze che anni di lavoro stupidamente ripetitivo avranno sulla mente dei lavoratori. Hegel, nella Filosofia dello spirito jenese, analizzando le pagine dedicate da Smith alla divisione del lavoro, introduce il concetto di alienazione: “Il lavoro diventa sempre più assolutamente morto, sempre più macchina, l’abilità del singolo diventa sempre più infinitamente limitata e la coscienza degli operai della fabbrica diventa sempre più degradata fino all’ottusità”.

Queste considerazioni di Smith e di Hegel ci permettono di capire cosa Marx intendesse dire quando, nei Manoscritti del 1844 scriveva che “il lavoro non produce soltanto merci, produce il lavoro e l’operaio come merce…l’oggetto che il lavoro produce, il prodotto del lavoro, si contrappone ad esso come un essere estraneo, come una potenza indipendente…”

Ne derivava, per Marx, che solo nel comunismo, grazie alla abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione e scambio, sarebbe stato possibile abolire l’alienazione dell’operaio di fronte all’oggetto del proprio lavoro e restituire all’operaio la sua perduta dignità.

Ritorniamo così all’oggi. I dati della crisi sono impressionanti; e ancora più impressionanti dei dati della crisi sono gli errori compiuti dai nostri governi in nome del mito del pareggio di bilancio che hanno fatto precipitare le nostre società in una recessione senza fondo che ha messo in ginocchio le classi popolari, a dimostrazione che non è vero che le classi sociali non esistono più.

Esse continuano ad esistere e lo stato continua ad essere un comitato d’affari come ai tempi della Curée di Zola, titolo intraducibile che può essere reso con l’espressione volgare “trippa per gatti”. I gatti sono i signori del finanzkapital, la trippa è costituita dai titoli dei debiti sovrani da essi utilizzati per le loro speculazioni.

L’ attuale crisi economica è stata spesso paragonata alla crisi del 1929. Il paragone è suggestivo, ma fuorviante. All’origine della crisi degli anni Trenta del secolo scorso vi fu, com’è noto, il crollo nel 1929 della borsa di Wall Street. Le vicende che portarono al Great Crash sono state narrate da Galbraith in un famoso libro intitolato Il grande crollo. Qui, è sufficiente ricordare che il crollo fu dovuto allo scoppio d’una bolla speculativa che aveva fatto salire vertiginosamente i corsi dei titoli durante una fase caratterizzata da quella che Shiller ha chiamato euforia irrazionale.

In altre parole, per dirla con Galbraith, nessuno può essere considerato responsabile della crisi; nessuno condusse la gente al macello. La crisi fu il prodotto della libera scelta di migliaia di persone spinte dal desiderio di diventare ricche. In realtà, la crisi scoppiò, come ricordò Gordon in Crescita e ciclo dell’economia americana, dopo un periodo di grande espansione sia a livello di produzione industriale che d formazione del capitale e, come scrisse Overy, le imprese lucravano cospicui profitti emettendo grandi quantità di azioni che eccedevano le capacità di assorbimento del mercato.

Il crollo di Wall Street si ripercosse sulla economia reale causando la chiusura d’un grande numero di aziende e un aumento drammatico della disoccupazione. Gli effetti negativi della crisi vennero aggravati dalla politica del governo americano, il quale, invece di porre in essere le necessarie misure anti-crisi, emanò una serie di provvedimenti che andavano in direzione affatto opposta.

Il crollo Wall Street ebbe conseguenze negative anche in Europa. Come ricordava Aldcroft, alla metà del 1930 tutti i paesi europei erano caduti vittime della crisi. Il peggio, però, doveva ancora arrivare. Esso arrivò nell’estate del 1931 con il crack del viennese Credit Anstalt.

Le ripercussioni negative del crollo di Wall Street si fecero sentire particolarmente duro in Germania che era ancora alle prese con le conseguenze economiche negative della Prima guerra mondiale e con le difficoltà create dal pagamento delle riparazioni di guerra, come Keynes aveva previsto in Le conseguenze economiche della pace. Coloro che trattarono con la Germania le condizioni della pace non erano preoccupati del futuro dell’Europa, ma erano unicamente interessati a punire la Germania imponendole una pace cartaginese.

La storia economica della Germania di Weimar può essere divisa, come ha scritto Weitz, in tre fasi; la prima 1921-23 fu caratterizzata dall’iperinflazione, la seconda 1924-29 fu caratterizzata dalla modernizzazione; la terza 1929-33 fu caratterizzata dalla depressione. In altre parole, la crisi creata dal crollo di Wall Street colpisce, come ha scritto Peukert, una “economia malata” e le cause della malattia erano disoccupazione di massa e debolezza della crescita.

In sede storica s’è discusso se la crisi degli anni Trenta fosse evitabile. La conclusione è stata, per usare le parole di Kindleberger, che la crisi avrebbe potuto essere evitata qualora fosse esistito un cd prestatore di ultima istanza il quale si fosse fatto carico dell’onere non lieve dell’aggiustamento mettendo a disposizione degli operatori economici e finanziari la liquidità necessaria a frenare la corsa alla vendita di attività finanziarie.

Fu in questo contesto che Keynes elaborò la sua teoria. Essa si basava sulla critica radicale della teoria dominante secondo la quale l’economia di mercato possedeva dei meccanismi automatici di aggiustamento come accadeva quando, come Hicks aveva spiegato in Teoria dei salaria, a causa della elevata disoccupazione, i salari cadevano in modo da rendere conveniente per le imprese la riassunzione dei lavoratori che erano stati in precedenza licenziati.

La stessa cosa accadeva sul mercato dei beni di consumo. Un eccesso di offerta faceva scendere i prezzi. La discesa dei prezzi rendeva conveniente il loro acquisto. Ciò faceva risalire i prezzi rendendo così nuovamente conveniente la ripresa della loro produzione. Se ciò non accadeva, la causa andava cercata nel fatto, come aveva notato Hicks in Teoria dei salari, che esistevano delle rigidità, ovvero, andava cercata nel fatto che le curve di domanda e di offerta non erano abbastanza elastiche perché i mercati non erano perfettamente concorrenziali.

In particolare, per quello che riguardava il mercato del lavoro, Cecil Pigou, in The Theory of Unemployment, aveva sostenuto che se c’era disoccupazione la causa andava cercata , da un lato, nella presenza dei sindacati che imponevano salari più elevati di quello che avrebbero dovuto essere; dall’altro lato, nel rifiuto dei lavoratori di prestare la loro opera per salari più bassi di quelli contrattuali. In altre parole, se esisteva disoccupazione, era per colpa dei lavoratori e delle loro organizzazioni sindacali. Quindi si trattava di disoccupazione volontaria.

Keynes non credeva nell’azione provvidenzialistica della mano invisibile della concorrenza e non nutriva alcuna fiducia nei meccanismi automatici di aggiustamento presenti in un’economia di mercato. Come egli aveva scritto nel 1926 in La fine del lasciare fare, il mondo non era governato dall’alto da una mano invisibile che trasformava il perseguimento dell’interesse individuale in benessere collettivo.

Inoltre, egli pensava che, come ebbe a scrivere nel 1923 nel saggio La riforma monetaria, “gli economisti si attribuiscono un compito troppo facile e troppo inutile, se, in momenti tempestosi, possono dirci soltanto che , quando l’uragano sarà lontano, l’oceano tornerà tranquillo”

Secondo Keynes, noi agiamo in un mondo che noi non conosciamo e raramente gli effetti delle nostre azioni, come egli aveva scritto nel Trattato delle probabilità, risultano essere quelli voluti. In queste condizioni, soltanto per un caso fortunato può crearsi una situazione di equilibrio di piena occupazione.

Per quello che riguardava la crisi in corso, egli contestava l’affermazione che essa potesse essere superata con una riduzione dei salari monetari. Secondo Keynes, come egli aveva sostenuto nel 1933 in I mezzi della prosperità, la via della ripresa passava attraverso l’investimento autonomo da parte dello stato di denaro fresco in modo da attivare il moltiplicatore degli investimenti. Y =kI, dove k è l’inverso della propensione al consumo.

Ciò significava creare, attraverso una articolata politica di lavori pubblici, un congruo numero di occupati che avrebbero speso i loro salari in beni di consumo che erano altrimenti destinati a restare invenduti. Per Keynes, infatti, il livello di occupazione dipende, da un lato, dalla propensione al consumo; dall’altro lato, dalla disposizione a investire. La prima dipende dal livello di reddito e e dalla sua distribuzione. La seconda dipende dalla preferenza per la liquidità, dal tasso di interesse e dall’efficienza marginale del capitale e da tasso di interesse.. L’efficienza marginale del capitale dipende dalla quantità di capitale esistente, dallo stato della fiducia. Il tasso di interesse dipende dalla preferenza per la liquidità e dalla quantità di moneta.

Per quello che riguarda la legge di Say potremmo dire che essa è valida in un’economia basata sul baratto dove tutti i beni vengono prodotti per essere scambiati. Non è valida in presenza della moneta che ha fra le sue funzioni anche quella di riserva di valore per cui solo una parte viene spesa nell’acquisto di beni, mentre una parte, spesso cospicua, viene trattenuta sotto forma di scorte, oppure, può essere investita nei mercati finanziari.

In termini generali, posiamo dire con Joan Robinson che fu allieva di Keynes a Cambridge, che “anzitutto Keynes ha riportato nell’economia politica la praticità dei classici”; poi, “ha fatto riemergere il problema morale che la teoria del laissez fare aveva abolito”; infine, “riportò il tempo entro la teoria economica”. Soprattutto, potremmo aggiungere noi prese il capitalismo sul serio, cosa che gli economisti neoclassici s’erano sempre rifiutati di fare. In tal senso Keynes potrebbe essere definito il Marx della borghesia la cui teoria, come scrisse Mattick, aveva uno scopo molto pratico: salvare il capitalismo dal declino.

La crisi favorì, alla lunga, un sempre più esteso intervento dello stato nell’economia. Emblematici furono i casi dell’America del New Deal e dell’Italia fascista, dove, nel 1933, venne fondato l’IRI in funzione congiunturale come ente provvisorio. Nel 1937, esso venne trasformato in ente permanente con il compito di assicurare allo stato fascista, diventato nel frattempo imperiale, il controllo sui settori strategici dell’economia italiana.

Il New Deal non produsse l’effetto sperato nel campo di pertinenza dell’economia e nel 1937 l’economia americana piombò in una nuova drammatica crisi economica. Fu solo con l’avvio della politica di riarmo che l’economia americana imboccò la strada della ripresa. Grande fu invece l’effetto positivo prodotto dal New Deal sul piano politico ideologico.

Da questo punto di vista, estremamente interessante è, ancor oggi, la lettura dei testi delle conferenze tenute dai collaboratori di Roosevelt per illustrare la NRA. Tali conferenze vennero pubblicate in volume nel 1934 con il titolo America’s Recovery Program. Il testo era aperto dalla conferenza di Dickinson il quale analizzò l’impianto della NRA alla luce dei cambiamenti avvenuti nel capitalismo nel corso degli ultimi decenni e spiegò che era necessario trovare il modo di limitare il potere economico delle nuove grandi imprese se si voleva salvaguardare la democrazia americana.

Lo sviluppo di tale linea di ragionamento portò alla formulazione da parte d Galbraith nel secondo dopoguerra della teoria dei “poteri contrapposti”. In questo modo, come conseguenza della crisi economica, si operò, per usare una celebre definizione di Polany, la “grande trasformazione” della società capitalistico-borghese che sanzionò il passaggio dal capitalismo concorrenziale fondato sull’attività di una miriade di imprese di medie e piccole dimensioni al capitalismo monopolistico fondato su imprese di grandi dimensioni non più gestite direttamente dai proprietari, ma da potenti consigli di amministrazione, come dimostrarono Berle e Means in Società per azioni e proprietà privata, opera da essi pubblicata nel 1932.

Pollock dedicò la propria attenzione al nascente fenomeno del capitalismo di stato. Buhrnam parlò di rivoluzione manageriale da lui definita come una rivoluzione nei rapporti di proprietà e nella gestione degli stessi. Tale teoria, criticata aspramente da Sweezy in Il presente come storia, per il quale l’avvento del capitalismo manageriale non modificava il tradizionale ordine economico capitalistico fondato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e scambio. ispirò la teoria del “nuovo stato industriale” di Galbraith che nel 1966 introdusse nel ragionamento economico il concetto di tecnostruttura.

La trasformazione del capitalismo da individualistico-concorrenziale in capitalismo monopolistico indusse gli economisti a sviluppare nuove teorie a livello di economia di impresa – teorie che cercavano di rendere conto delle trasformazioni avvenute appunto a livello di impresa quali la teoria della concorrenza imperfetta, la teoria della concorrenza monopolistica, la teoria della concorrenza tra pochi, la teoria dell’oligopolio, la teoria del grado di monopolio.

In un modo o nell’altro, tutte queste nuove teorie si occupavano della maniera i cui le imprese riuscissero a condizionare il mercato e potessero per questa via difendere e/o espandere la propria quota di mercato utilizzando a proprio vantaggio le esistenti barriere alla concorrenza.

Altri economisti avevano dedicato le loro energie nell’affrontare il problema delle crisi e, più in generale, il problema del ciclo economico. Di particolare interesse in questo campo sono lavori di Aftalion, Spiethoff, Mitchell, Hawtrey, von Hayek, Myrdal, Kondrat’ev.

In particolare, secondo la teoria di Kondratev, lo sviluppo nel lungo periodo della economia capitalistica sarebbe caratterizzato dalle presenza di onde lunghe generate da fattori quali guerre e rivoluzioni, innovazioni tecniche, scoperta di nuove miniere d’oro, la comparsa di nuove potenze economiche.

In questo contesto, si colloca l’opera di Schumpeter. Come egli scrisse in Cicli economici, sviluppando un’idea contenuta ini Teoria dello sviluppo economico, il progresso tecnologico è uno dei fattori determinanti lo sviluppo dell’economia capitalista. Esso, però, non procede i modo lineare, ma attraverso delle fasi che determinano lo sviluppo ciclico dell’economia capitalista. Fondamentali in tale contesto sono i concetti di innovazione e di imprenditore. Laddove tale funzione venga meno, viene meno, come egli scrisse in Capitalismo, socialismo, democrazia, anche la giustificazione dell’esistenza del capitalismo.

Timori sul futuro del capitalismo furono espressi anche da Hansen. Tre erano, secondo Hansen, gli “elementi costitutivi del progresso economico: le invenzioni, le scoperte geografiche e lo sviluppo di nuovi territori, lo sviluppo della popolazione.” Questi fattori mostravano segni di rallentamento e questo fatto non era certamente di buon auspicio per il futuro del capitalismo.

Per Kaleki, l’economista polacco considerato come l’alter ego di Keynes, “lo sviluppo di lungo di lungo periodo non è inerente l’economia capitalistica”. Anche per Kalecki, come per Schumpeter, le innovazioni sono il motore dello sviluppo economico. Il crescente grado di monopolizzazione dell’economia ovvero l’aumento grado di monopolio delle imprese avrebbe potuto disincentivare l’introduzione di innovazioni da parte delle imprese e rallentare la crescita dell’economia capitalistica.

Posizione analoga era stata espressa da Sweezy quando s’era chiesto se l’economia capitalistica non stesse entrando in un’epoca di depressione cronica. Secondo Sweezy, infatti, era inerente al capitalismo una tendenza al sottoconsumo che portava al sottoutilizzo dei mezzi di produzione. Si creava in questo modo un crescente surplus economico che veniva assorbito essenzialmente nell’aumento delle spese militari.

A conclusioni simili era pervenuto Baran nelle Riflessioni sul sottoconsumo. Per tale via, Sweezy e Baran facevano propria, seppurev in forma diversa quella che era stata la posizione di Rosa Luxenburg , in Accumulazione del capitale, aveva notato che il capitalismo s’era sviluppato in un ambiente non capitalistico e che gli occorreva l’esistenza di un ambiente non capitalistico per potersi sviluppare ancora.

In realtà, come i fattori scatenanti la crisi sono, come ricordava Dobb in l’anarchia della ricordava Dobb, produzione capitalistica e la ricerca del massimo profitto che porta i capitalisti a sovra-accumulare capitale il quale viene poi svalorizzato attraverso la crisi.

La crisi degli anni Trenta spianò la strada al nazismo che scatenò, a sua volta, la Seconda guerra mondiale.. La responsabilità della Germania nazista nello scatenamento della Seconda guerra mondiale venne messa in discussione dal famoso storico britannico Taylor, secondo il quale fu la Gran Bretagna che, modificando la sua politica verso l’Europa, si rese responsabile della crisi che portò allo scatenamento della Seconda guerra mondiale. Per Taylor, Hitler non fece altro che dare nuovo impulso al tradizionale espansionismo tedesco verso oriente.

In realtà, se Francia e Gran Bretagna avessero voluto fermare Hitler, esse avrebbero potuto farlo in più d’una occasione. Il problema è che esse non lo vollero fare. I motivi furono molti, non ultimo il fatto che gli elettori francesi e britannici non avrebbero probabilmente accettato d’essere trascinati dai loro governanti in una nuova guerra con la Germania.

Per quello che riguarda l’ascesa al potere di Hitler, è da ricordare che essa venne facilitata, com’era accaduto in Italia con il fascismo, dal comportamento della classe dirigente tedesca che credette di poter utilizzare Hitler in funzione antisocialista.

Inoltre, è da ricordare che non si può capire l’ascesa al potere di Hitler se si prescinde dalla crisi che sconvolse la breve e drammatica vita della repubblica di Weimar. Frutto d’una rivoluzione abortita, essa non era mai riuscita a ottenere il consenso della maggioranza dei tedeschi, i quali, quando gli eventi giunsero al dunque, le voltarono le spalle e l’abbandonarono al suo destino senza provare alcun rimpianto.

Ancora aperta, invece, è la discussione sulla responsabilità del popolo tedesco per i crimini compiuti dal regime nazista. Ora io credo sia sbagliato parlare di responsabilità collettiva, ovvero, chiamare un intero popolo sul banco degli accusati. La responsabilità è sempre individuale, a meno chi compie l’azione non sia legato a qualcun altro da un accordo preventivo. E’ l’individuo che commette il crimine. Chiarito ciò, possiamo pure discutere di tutto il resto al fine di dare a ciascuno il suo. Ciò non riguarda solo il popolo tedesco. Riguarda anche la chiesa cattolica.

Mentre in Occidente imperversava la più grave crisi che avesse mai colpito il capitalismo, in Russia si stava costruendo una società di nuovo genere i cui pilastri erano: la pianificazione economica centralizzata, il partito unico della classe operaia, un potente e temuto servizio di sicurezza, un’ideologia ufficiale che veniva inculcata nelle teste dei bambini fin dalle scuole elementari e che costituiva, in quanto teoria dei “nessi dell’esistente”, la fonte di ogni sapere.

Tale ideologia, nota come materialismo dialettico, era la rielaborazione del pensiero di Marx letto attraverso l’interpretazione che ne era stata data da Engels, cui s’erano aggiunti i contributi di Lenin. E’ un errore infatti considerare il marxismo come un blocco monolitico. Il pensiero di Marx differisce da quello di Engels il quale differisce da quello di Lenin che differisce da quello di Marx. Per Marx, la rivoluzione era il punto d’arrivo di un processo storico che era necessario alla creazione delle basi materiali del socialismo. Per Lenin, la rivoluzione era il punto di partenza del processo storico che avrebbe portato alla costruzione del socialismo. Per Marx, la coscienza di classe si formava nel corso del processo storico che creava le bassi materiali della costruzione del socialismo. Per Lenin, la coscienza di classe doveva essere portata al proletariato dall’esterno.

Per Marx, il soggetto rivoluzionario era rappresentato dalla classe operaia. Per Lenin, il soggetto rivoluzionario era rappresentato dal partito intesa come avanguardia politica composta da rivoluzionari di professione.

Engels, figlio di un industriale tessile della Renania, finito il liceo, era stato mandato dal padre a farsi le ossa a Lubecca; quindi venne inviato a Manchester, dove il padre aveva aperto una succursale. Engels era, perciò, un autodidatta e come tale si mise a studiare filosofia, fisica, chimica, biologia. Chi legga oggi i sui scritti in materia non può non rimanere colpito dalla loro ingenuità.

Malgrado ciò, egli influenzò il pensiero socialista più di Marx. Fu Engels infatti a dare la definizione del materialismo dialettico come “filosofia dei nessi dell’esistente” che tanta parte ebbe nella formazione del Diamat sovietico. Lenin era un rivoluzionario di professione, non era un filosofo; tuttavia, egli si occupò, per motivi politici, anche di filosofia. Lenin era un “realista”, sbeffeggiava la cosa-in-sé di Kant e ironizzava sulla nuova fisica senza aver compreso, come scrisse il socialista olandese Pannekoek in Lenin filosofo, il significato della rivoluzione quantistica.

Per Lenin, l’unica differenza era fra ciò che sappiamo e ciò che ancora non sappiamo, come scrisse in Materialismo e empiriocriticismo. Lenin pensava, come scrisse in Quaderni filosofici, che le cose del mondo esterno si riflettessero nel nostro cervello.

Lenin ragionava come un economista classico. La sua visione dello sviluppo dell’economia di mercato era prettamente smithiana. Critico di Simondi, come dimostra il suo saggio sul Romanticismo economico, egli associava, infatti, come egli scrisse in Lo sviluppo del capitalismo in Russia, sviluppo dell’economia di mercato e sviluppo della divisione del lavoro.

Il suo scritto economico più importante è comunemente considerato Imperialismo fase suprema del capitalismo. Nel saggio, pubblicato nel 1917, egli intendeva dimostrare le origini economiche della Prima guerra mondiale. Secondo Lenin, l’imperialismo era il prodotto del capitalismo monopolistico sorto dalla fusione fra banche e industria.

L’analisi di Lenin, stimolante dal punto di vista politico, era gravemente manchevole, come dimostrarono Baran e Sweezy, dal punto di vista economico, mancando nel saggio di Lenin un’analisi microeconomica del modo di funzionamento delle grandi imprese moderne.

Alla guida della nuova società in costruzione in Russia c’era Stalin, un uomo, che era stato criticato dallo stesso Lenin per i suoi modi militareschi, la sua insofferenza per ogni genere di dibattito politico, per il suo modo burocratico di affrontare i problemi del partito. Quest’uomo, tanto odiato quanto temuto, era riuscito a creare un filo diretto con le masse alle quali l’ideologia ufficiale affidava il compito di creare questo nuovo genere di società.

Gli studiosi di cose sovietiche si sono a suo tempo chiesti, per usare le parole di Nove, se Stalin fosse necessario; ovvero, se fosse destino della Russia cadere nelle grinfie di Stalin. Io credo di no. Stalin non fu necessario, come la Rivoluzione d’ottobre non fu ineluttabile. Stalin e, più in generale, il fenomeno dello stalinismo, furono, come dimostrò Reiman, il prodotto d’una serie di circostanze economiche e di decisioni politiche che segnarono il corso della storia russa.

L’abilità di Stalin consistette nel sapersi avvalere delle suddette circostanze per conquistare il potere. Poi, una volta conquistato il potere, egli usò in modo spietato gli strumenti che gli erano forniti dal potere che era nelle sue mani o per liberarsi di tutti coloro che avrebbero potuto ostacolare la sua azione o per vendicarsi delle umiliazioni subite. Il metodo fu quello di offrirli in pasto alle masse con l’accusa d’aver tradito la causa della rivoluzione.

Fu così che venne messa a morte tutta la vecchia guardia bolscevica. Stalin fu autore d’una nutrita serie di scritti e discorsi che diventarono la lettura obbligata dei comunisti di tutto il mondo. Come scrittore, Stalin fu una nullità. Ed una nullità fu anche come ideologo. Ciononostante, egli affascinò fior fiore di intellettuali in tutto il mondo, a dimostrazione del potere micidiale dell’ideologia.

Bettelheim, nel libro Lotte di classe in Urss 1917-1930, critica quella che egli chiama la visione idealistica della storia dell’Unione sovietica, propria di storici come Ellenstein, che vedono nella creazione dell’Unione sovietica la realizzazione pratica del pensiero di Marx. In realtà, se è vero che, quando Marx parlava di socialismo, pensava a tutto meno che alla Russia da lui considerata troppo arretrata per essere oggetto del suo interesse; è anche vero che furono proprio Lenin e Stalin a assumere il pensiero in Marx come riferimento della loro azione politica.

Per renderci conto di questo fatto, possiamo pensare agli appunti preparatori di Stato e rivoluzione di Lenin, oppure, possiamo pensare a Materialismo storico, materialismo dialettico di Stalin. Ciò non significa che Marx debba essere considerato l’ispiratore dei crimini di Stalin.

Stalin era, come ha messo in evidenza Amis, un dittatore sanguinario che si divertiva a giocare a gatto e topo e che godeva nel far soffrire le sue vittime prima di consegnarle ai suoi boia, nessuno dei quali è morto nel proprio letto.

Chiarito ciò, va ricordato che, se fu possibile a Stalin procedere all’eliminazione fisica dei suoi avversari politici per vie legali, ciò accadde in virtù d’una concezione strumentale del diritto che era considerato, per usare le parole del pubblico accusatore nei processi si Mosca, “forza materiale nella costruzione del socialismo”.

In questo contesto, io credo sia difficile comprendere il pensiero politico bolscevico prescindendo dalla concezione comunista del diritto cui Kelsen dedicò a suo tempo alcuni saggi fondamentali.

La Seconda guerra mondiale aprì la via al lungo boom degli anni ’50-’60 che – è stato detto – vide il trionfo delle idee di Keynes. In realtà, gli anni ’50-’60 videro il trionfo della cd sintesi neoclassica. In tal senso, più che gli anni di Keynes essi furono gli anni di Modigliani.

Keynes non era un rivoluzionario. Professore di economia a Cambridge, direttore di “Economic Journal”, membro della delegazione britannica ai colloqui di pace a Versailles, membro della delegazione britannica a Bretton Woods, frequentatore del Circolo di Bloomsbury, amico di Wittgenstein, autore di ponderosi libri di economia, di brillanti saggi di attualità politica, di fondamentali testi di logica matematica, era un liberale vecchio stampo che non voleva abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione e scambio. Ciò non gli impedì di elaborare una critica della teoria economica dominante che ne distruggeva i fondamenti.

La pubblicazione di tale critica gli attirò gli strali dei suoi colleghi di Cambridge e delle altre università. Fu così che si pensò, stimolati da una famosa recensione di Hicks, di correre ai ripari cercando di dimostrare che la teoria di Keynes rappresentava un caso particolare della teoria economica dominante che si registra quando le condizioni economiche sono tali da scoraggiare gli investitori anche in presenza di un tasso di interesse prossimo a zero. Nacque in questo modo con il contributo fondamentale di Modigliani la cd sintesi neoclassica.

Il nome di Keynes è stato spesso associato a quello dei teorici dell’economic planning. Niente di più sbagliato. Keynes era un economista tradizionale; né ci potremmo aspettare qualcosa di diverso da un allievo di Marshall. Keynes s’era reso conto che la tradizionale prassi liberale di attendere che che la crisi facesse il suo corso non funzionava più. Occorreva intervenire con denaro fresco per mettere in moto il moltiplicatore.