sabato 30 aprile 2016

Osservazioni sulla Tortura

Questa mattina ho ricevuto la  seguente email
"Ciao 
Corrado,
Mi chiamo Ilaria, ho 42 anni e 2 figli. Mio malgrado, sono molte le persone che mi conoscono in questo Paese. Sanno - perché da sette anni ormai non mi stanco di ripeterlo - che sono in ottima forma fisica e che sono viva. Al contrario di mio fratello, che pesava quanto me ma che vivo non è più. Mio fratello Stefano, quello "famoso". Perché morto tra sofferenze disumane quando era nelle mani dello Stato e, soprattutto, per mano dello Stato.
Nell'ottobre del 2009 non mi hanno pestato, non mi hanno rotto a calci la schiena, non ho avuto per questo bisogno di cure mediche. Non mi hanno torturato. Sono viva. Sono viva e combatto con una giustizia che ha dimenticato i diritti umani.
E per non smettere di credere. Ecco perché chiedo che Parlamento e Governo approvino finalmente, ed entro quest'anno, il reato di tortura in Italia. Stiamo chiedendo all’Egitto verità per Giulio Regeni.Dobbiamo farlo. Ma ricordiamoci che lo facciamodall'alto del fatto di essere l’unico Paese d’Europa a non avere una legge contro le brutalità di Stato.La Corte di Strasburgo ha già condannato l’Italia per gli orrori del G8 di Genova nel 2001. E ci ha imposto l’introduzione nel nostro codice penale del reato di tortura. Che aspettiamo?
Voglio che si riaccendano le luci non solo su questioni che riguardano la memoria di Stefano, ma che hanno a che fare con tutti noi. Penso a Giulio Regeni, Giuseppe Uva, Federico Aldrovandi, Riccardo Magherini. Tutte queste storie, tutte le persone dietro a queste storie ci testimoniano, con la loro morte che è una morte di Stato, che uno Stato di diritto senza diritto è una banda di predoni. 
Per Stefano, per Giuseppe, per Marcello, per Giulio, per Riccardo e per tutti gli altri: approviamo il reato di tortura in Italia entro il 2016!
Ora io credo che tutti,noi a cominciare da quelli di partiti di sinistra, dovremmo sinstra, i partiti di sinistra dovremmo vergognarci di ciò che accadde al fratello di Ilariai .Il problema è che non siamo popolo, siam plebe.. 

lunedì 25 aprile 2016

25 APRILE-2 GIUGNO. FACCIAMO UN PO' DI STORIA

OGGI SI CELEBRA IL 71 DELLA LIBERAZIONE DAL NAZIFASCISMO. IL2 GIUGNO SI CELEBRERA' IL 70 DELLA REPUBBLICA. AL REFERENUM MONACHIA/ REPUBBLICA VINSE LA REPUBBLICA, MA LA VITTORIA FU MENO ECLATANTE DI QUELLO CHE QUALCHE FURBACCHIONE VORREBBE FARCI CREDERE.

SECONDO I DATI FORNITI DALLA SUPREMA CORTE(FASCISTA)DI CASSAZIONE GLI ITALIANI VOTARONO IN QUESTO  MODO:

REPUBBLICA                               12. 717. 928
MONARCHIA                                10. 769. 284
SCHEDE NULLE                              1.498. 134

DIFFERENZA                                       453. 560

LA DISCUSSIONE VERTE' IL PROBLEMA SE DOVEVANO ESSERE CONTATI SOLO I VOTI VALIDI. SEONDO UN COMITATO DI GIURISTI DELLA UNIVERSITA' DI PADOVA, DOVEVANO ESSERE CONTATI I VOTI VALIDI, COME SOSTENEVA LA LEGGE ISTITUTIVA DEL REFEREDUM  LA SUPREMA CORTE MISE TUTTI D'ACCORDO AFFERMANDO CHE L'EPRESSIONE "LA MAGGIORANZA DEI VOTANTI" ANDAVA INTESA COME "LA MAGGIORANZA DEI VOTI VALIDI"

COME SI VEDE, LAREPUBBLICA SORSE SULLA BASE D'UN PATERACCHIO. ESSO SARA' SEGUITO DA MOLTI ALTRI. ALLE SUCCESSIVE ELEZIONI PER LA COSTITUENTE GLI ELETTORI ITALIANI VOTAONO IN QUESTO MODO

DC                     8.103828 voti pari al    35,2%    207 seggi

PSIU358.             4.763.663                     20%       115

 PCI                       4.358.243                     18.9%   104

L'ASSETTO DEFINITIVO DEL SISTEMA POITICO ITALIANO SI REALIZZO'  CON  LE ELEZIONI DELL'APRILE 1948 DEL PRIMO PARLAMENTO DELLA REPUBBLICA DOMINATO DALLA DC E DAI SUOI ALLEATI. SECONDO I DETTAMI DI QUELLA CHE GIULIO ANDREOTTI CHIAMO' TEORIA DEI DUE FORNI PER LA QUALE LA DC SI RISERVAVA IL PRIVILEGIO DI SCEGLIERSI GLI ALLEATI CASO PER CASO.

VIDERO COSI' LA LUCE  I "GOVERNI PRENDISOLE" I "GOVERNI PONTE O TRAGHETTO", I "GOVERNI DELLA NON SFIDUCIA". IL TUTTO ERA SERVITO IN TAVOLA CON IL TRADIZIONALE RONDO' DI SCANDALI: DALLO SCANDALO GIUFFRE' DETTO IL BANCHIERE DI DIO ALLO SCANDALO DELLE BANANE PASSANDO PER LO SCADALO DEI TABACCHI E QELLO DELLA FEDERCONSORZI DI PAOLO BONOMI. AL TEMPO SI PARLO' DI MILLE MILIARDI DI LIRE CHE SAREBBERO FINTI NELLE TASCHE DI UN DC MOLTO INFLUENTE E SI FACEVA IL NOME DI ALDO MORO.

martedì 12 aprile 2016

La rivoluzione copernicana di Marx

Corrado Bevilacqua
La rivoluzione copernicana di Marx
Prefazione. Quando si parla di rivoluzione copernicana in senso stretto di solito ci si riferisce a un evento che ha cambiato la nostra concezione del mondo in modo duraturo, com’è accaduto con la pubblicazione del testo di Copernico sul moto dei corpi celesti. [T. Kuhn La rivoluzione copernicana, Einaudi]
Una cosa analoga è accaduta con la pubblicazione da parte di Marx de Il capitale. Dopo la sua pubblicazione, non fu più possibile pensare il mondo in cui viviamo nello stesso modo in cui lo si pensava prima, indipendentemente dal fatto che si aderisse o meno alle tesi politiche di Marx. [C. Napoleoni Smith, Ricardo, Marx, Boringhieri]
Treviri-Londra. Marx non arrivò all’elaborazione della sua concezione di punto in bianco, ma vi arrivò attraverso un lavoro di ricerca che egli iniziò con la critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico e lo portò alla critica dell’economia politica. A muoverlo nella sua ricerca fu l’insoddisfazione nei confronti di una teoria che, a suo modo di vedere forniva un’interpretazione del mondo che era precostituita grazie all’uso di categorie che davano per scontato lo stato presente delle cose. Marx rifiutò questa impostazione e cercò di far emergere le radici ideologiche quindi non scientifiche delle suddette categorie [L. Colletti Il marxismo e Hegel, Laterza, Id Ideologia e società, Laterza; E Mandel La formazione economica del pensiero di Marx, Laterza].
Quanto detto interessava tutte le discipline, ma era particolarmente evidente in economia. L’economia alla quale Marx si riferiva era l’economia classica: Smith, Ricardo, Malthus [R. Faucci, a cura di, L'economia classica, Feltrinelli, R. Faucci Marx interprete degli economisti classici, La nuova Italia. E. Mandel La formazione del pensiero economico di Marx, Laterza].
Oggi, però, a mio avviso, un confronto fra il pensiero di Marx e il pensiero degli economisti neoclassici, in paricolare dei marginalisti, è molto più interessante di un nuovo confronto fra il pensiero di Marx e quello degli economisti classici [S. Veca Marx e la critica dell'economia politica.]
Per capire l’originalità della teoria esposta da Marx in Il capitale nei confronti della teoria neoclasssica, definibile anche come teoria ortodossa, occorre ricordare i fondamenti della teoria economica ortodossa. Cioè, di quella teoria che, nata negli anni 1870 per impulso di William S. Jevons, Léon Walras e Carl Menger, è successivamente divenuta la teoria economica dominante. [B. Ingrao, G. Israel La mano invixibile. Storia dell'equilibrio economico generale, Laterza. C. Napoleoni L'equilirio economico generale, Boringhieri, G. Lunghini Equilibrio in Dizionario di economia, Boringhieri]
La teoria marginalista. Tale teoria soppiantava definitivamente il concetto classico al quale era ancora legato Marx di valore-lavoro e introduceva il concetto di utilità, che diventerà poi con Pareto ofelimità; abbandonava il tema dello sviluppo economico caro agli economisti classici come Smith, Ricardo. Malthus, Torrens e introduceva il concetto di equilibrio economico generale. Infine, avviava una progressiva matematizzazione della teoria economica che portò allo sviluppo di una particolare disciplina chiamata matematica per economisti. [M. Blaug Storia e crtica della teoria economica, Boringhieri. P. Pettenati, M. Crivellini L'economia politica in una prospettiva storica, Il mulino. M. Dobb Storia del pensiero economico, Editori Riuniti. E. Roll Storia del pensiero economico, Boringhieri. J. Schumpeter Storia dell'analisi economica, Boringhieri. H. Denis Storia del pensiero economico, Il saggiatore. J. Robinson Ideologie e scienza economica, Sansoni].
Tale teoria trovò la sua sistemazione epistemologica nel 1932, quando, per opera di Lionel Robbins, insignito successivamente del titolo di Lord, essa venne definita come la scienza che studia il comportamento umano come relazione fra risorse scarse che hanno usi alternativi. [L. Robbins Sulla natura e sul significato della scienza economica, Utet].
Dalla definizione di Robbins, scrisse Napoleoni, discendevano delle importanti conseguenze. La prima si riferisce al carattere essenzialmente deduttivo della scienza economica. Tale carattere, già teorizzato da Stuart Mill un secolo prima in Alcune questioni irrisolte dell’economia politica, vene riconosciuto ad essa dal Jevons. La seconda conseguenza riguarda la neutralità della scienza economica che taforma la stess in una sorta di tecnica delle decisioni. La terza è connessa con la determinazione del punto di ottimo, inteso come ottimo paretiano di cui parleremo pù avanti. [C. Napoleoni Il pensiero economico del 900, Einaudi]
La teoria economica ortodossa fu oggetto di molte elaborazioni. Fondamentale fu quella di Alfred Marshall che si differenziò nettamente da Walras e da Pareto; fondamentale fu pure di quella di Wicksell, il grande economista svedese che non ebbe mai in vita il riconoscimento che meritava. [K. Wicksell Lezioni di economia, Utet]
Qui, merita ricordare il contributo di Leontiev e quello di Hicks. Leontief, in gioventù aveva partecipato al dibattito sull’industrializzazione sovietica e che ispirandosi alla teoria walrasiana dell’equilibrio generale elaborò la sua contributo teoria delle interdipendenze settoriali. [W. Leontief La teoria delle interdipendenze settoriali, Etas Kompas]
Hicks, invece, mirò nel suo capolavoro del 1938 intitolato Valore e capitale, a dinamizzare la teoria dell’equilibrio economico generale introducendo il concetto di equilibrio temporaneo. Come scrisse infatti Hicks,
Ora, la ragione della sterilità del sistema walrasiano io credo che sia dovuta al fatto che egli non ci fornisce le leggi del cambiamento del suo sistema di equilibro generale. Egli poté dire quali condizioni devono essere soddisfatte dai prezzi stabiliti con date quantità e date preferenze, ma egli non spiegò che cosa accadrebbe se i gusti o le quantità disponibili mutassero.
Hicks s’è guadagnato un posto nella storia del pensiero economico contribuendo inoltre in modo fondamentale alla creazione della cosiddetta sintesi neoclassica che aveva trasformato la teoria keynesiana in un caso particolare della teoria ortodossa.[J. Hicks Mr Keynes ed i classici, in R.G. Mueller Problemi di macroeconomia, vol. III, Etas kompass. ]
Per dirla in parole povere, la teoria economica ortodossa funziona in condizioni di concorrenza perfetta, dove le curve di domanda e offerta sono perfettamente elastiche per quanto piccoli siano i movimenti dei prezzi e delle quantità. Non funziona se si formano delle rigidità che impediscono di realizzare l’equilibrio sui singoli mercati: in breve, mercato del lavoro, mercato dei capitali, mercato dei beni di consumo, mercato dei beni di investimento. Ora, se le cose stavano così, il problema delle crisi poteva essere risolto garantendo l’elasticità delle curve di domanda e offerta sui diversi mercati, primo fra tutti quello del lavoro lasciando cadere liberamente prezzi e salari. In questo modo, si sarebbbe realizzato il cd effetto Pigou; cioè ad un certo punto, sosteneva Pigou, i salari arebbero stati così bassi e il costo del lavoro per unità di prodotto sarbbe stato così basso, da indurre gli impreditori a tornare ad assumere personale.
Sul mercato della moneta poteva crearsi una situazione per cui, continuando le prospettive di profitto ad essere negative, diventava inutile stimolare l'economia con niziei abndanti di liquidità che restava intrappolata nel sistema, incapce di trovare una via d'uscita. L'unico modo aiutare la liquidità esistente a mettere in  l'economia, era di quello di usare l'intervento pubbblico.
Il sistema di walrasiano-paretiano. Quella che è nota agli storici del pensiero economico come rivoluzione marginalista si realizzò quasi 140 anni fa, quando, con una singolare coincidenza di date, nel 1871 apparvero in Gran Bretagna The Theory of Political Economy di William Stanley Jevons e in Austria i Grundsätze der Volkswirtschaftslehre di Carl Menger; tre anni più tardi, nel 1874, furono pubblicati in Francia gli Eléments d’économie politique pure di Leon Walras. Queste coincidenze hanno ovviamente suggerito che esistessero, e fosse possibile rintracciare, origini storiche in qualche modo comuni alla base della rivoluzione marginalista (filosofiche, politiche o economiche). Il dibattito al riguardo non sembra però aver sinora condotto ad una conclusione condivisa.
Ma in cosa consiste la rivoluzione marginalista? Detto semplicemente, ha spiegato Enrico Saltari, essa consiste nella comparsa di una nuova teoria del valore di scambio ossia di una nuova spiegazione dei prezzi relativi, del valore di un bene in termini di un altro. Con la teoria dei classici (i cui rappresentanti più autorevoli furono Smith, Ricardo e successivamente Marx) il valore di scambio di un bene veniva ricondotto al costo di produzione espresso dal lavoro necessario a produrlo. Ora, con la rivoluzione marginalista, l’origine del valore di un bene viene rintracciata nella scarsità del bene medesimo ovvero nel fatto che il bene è “utile e disponibile in quantità limitata“, per usare la definizione di Walras. Il passo teorico decisi vo compiuto da Jevons, Menger e Walras fu di individuare nell’utilità marginale lo strumento analitico in grado di misurare la scarsità e di farne con ciò stesso il fondamento del valore, anche se, come vedremo in seguito, il solo Walras riuscì a dedurre dall’utilità marginale una rigorosa teoria della determinazione dei prezzi. Interpretata in questi termini, la rivoluzione marginalista è assai meno rivoluzionaria di quanto l’etichetta lasci trasparire. L’utilità e la scarsità avevano già fatto la loro comparsa ben prima del 1870 come fondamenti del valore di scambio nelle opere di molti altri economisti. Per fare un solo accenno che ci tornerà comodo più avanti, Auguste Walras (il padre di Leon) aveva sostenuto più di quaranta anni prima che all’origine del valore si trovava non il lavoro ma la rareté, con un’espressione che il figlio riprenderà letteralmente nei suoi Elementi. Quella che si verificò nei primi anni del 1870 con le opere di Jevons, Menger e Walras non fu dunque affatto una trasformazione radicale e improvvisa, come dovrebbe essere una rivoluzione. Al contrario, la sua gestazione durò assai a lungo e impiegò poi più di un decennio per affermarsi. Per parafrasare una celebre definizione, se l’etichetta di rivoluzione marginali-sta è appropriata, lo è assai più per l’aggettivo che non per il sostantivo. Il motivo è che con la rivoluzione marginalista, e l’economia marginalista che ne derivò, fece per la prima volta la sua apparizione sulla scena della teoria economica il calcolo differenziale per via della determinazione delle posizioni di ottimo il cui ruolo è cruciale nella nuova teoria del valore. Insomma, nacque il connubio oggi noto come Economia matematica. Al centro della nuova concezione dell’Economia si trova il consumo, colto soprattutto sul terreno individuale, vale a dire inteso essenzialmente come soddisfazione dei bisogni del singolo. Ne discende che un bene in tanto ha valore ed è utile − è un bene economico − soltanto in quanto può provvedere direttamente o indirettamente alla soddisfazione dei bisogni. Il problema dell’individuo è di conseguenza di ripartire le risorse a sua disposizione tra i vari beni in modo tale che la soddisfazione dei bisogni, e quindi l’utilità che ne ritrae, sia massima. Guardando agli incrementi di utilità che quantità addizionali dei diversi beni danno – l’utilità marginale appunto – l’individuo è in grado di risolvere questo problema di massimo, determinando così le quantità “ottime” da destinare al consumo, tali cioè da massimizzare l’utilità. Supponiamo per semplicità che l’individuo sia in possesso di un solo bene. Secondo l’economia marginalista, questo bene verrà dapprima destinato a soddisfare i bisogni più urgenti perché è in questi impieghi che, per definizione, si ha l’utilità maggiore. Ma a mano a mano che si utilizzano dosi successive del bene a soddisfare questi bisogni, l’utilità che se ne ottiene è via via minore. L’utilità marginale è cioè decrescente. Questa è l’ipotesi cardine del marginalismo perché implica, dal punto di vista economico e formale, l’esistenza di una posizione di massimo. Proprio perché l’utilità marginale è decrescente, può verificarsi che divenga a un certo punto più conveniente destinare dosi ulteriori del bene ad altri bisogni, magari meno impellenti in assoluto ma che ora presentano un’utilità marginale più elevata. L’utilità totale sarà massima quando l’allocazione del bene tra i diversi bisogni sarà tale da renderne uguale in tutti gli impieghi l’utilità marginale. Se così non fosse, l’individuo non starebbe massimizzando la propria utilità: sarebbe infatti conveniente spostare l’impiego del bene dal bisogno dove l’utilità marginale è minore a quello in cui è maggiore, aumentando in questo modo l’utilità totale.
Tale risultato teorico e che è alla base della nuova teoria del valore, denominato da Walras teorema dell’utilità massima, non fu affatto facile e scontato da raggiungere per i tre fondatori del marginalismo. Al contrario, venne ottenuto seguendo percorsi teorici spesso lunghi e tortuosi e soprattutto assai diversi tra loro. Questa diversità è rilevante. Mentre Jevons e Menger partirono dall’utilità marginale per arrivare, anche se non sempre in modo chiaro e rigoroso, alla spiegazione del valore di scambio, Walras seguì esattamente il percorso opposto: per Walras l’utilità marginale fu soltanto lo strumento concettuale che dava fondamento teorico alla teoria dello scambio e dei prezzi. Soltanto Walras riuscì a incastonare l’utilità marginale all’interno di quell’edificio mirabile di interrelazioni tra mercati noto oggi come teoria dell’equilibrio economico generale. Più precisamente, solo Walras riuscì a ricavare dal teorema dell’utilità massima le curve individuali di domanda e offerta e a determinare poi per aggregazione i prezzi di equilibrio. Ripercorrere sinteticamente le tappe principali della strada seguita da Walras per ottenere quei due risultati ci permetterà di apprezzare qual è stato il contributo specifico della Matematica (e dei matematici) all’Economia e quanto dell’armamentario da lui impiegato faccia ancora parte della cassetta degli strumenti dell’economista d’oggi.
Walras eredita dunque dal padre il concetto di rareté come spiegazione e causa del valore di scambio. In realtà, l’eredità che Auguste Walras lascia al figlio è assai più consistente. Per avere un’idea di questa influenza, basti ricordare perché per Auguste Walras il concetto di scarsità era così importante. In un’opera pubblicata nel 1831 (De la nature de la richesse et de l’origine de la valeur) afferma che, indagando nelle sue ricerche filosofiche sull’origine e la natura della proprietà privata, si era imbattuto nello studio del-l’Economia politica e che da questo studio aveva tratto la conclusione che tra l’Economia politica e la teoria della proprietà sussistono rapporti assai stretti. La prima si occupa di tutti quei beni che hanno un valore di scambio e che per ciò stesso costituiscono la ricchezza sociale, come egli ama definirla; la seconda di tutto ciò di cui ha senso appropriarsi, cioè di tutti i beni “coercibili”. Ma all’origine di queste due qualità dei beni, il valore e l’essere oggetto di appropriazione, vi è un’unica causa, la rareté. Soltanto i beni utili ma disponibili in quantità limitata hanno, per Auguste Walras, valore di scambio; d’altra parte, soltanto di questi beni ha senso appropriarsi. Tuttavia, per Auguste Walras esiste una priorità logica. Si deve iniziare dallo studio del fenomeno del valore di scambio, per poi considerare quello dell’appropriazione, perché è il valore a motivare l’appropriazione, e non viceversa. Gli Elementi di Leon Walras, a partire dalla seconda edizione (1889), recano un sottotitolo assai meno noto che recita Teoria della ricchezza sociale e la succinta descrizione delle caratteristiche e dell’origine della ricchezza che abbiamo appena dato si trova quasi negli stessi termini all’inizio degli Elementi. Leon Walras definiva l’Economia politica come la catallattica, ossia come la teoria del valore di scambio che peraltro identificava esplicitamente con la teoria della ricchezza sociale. Ciò detto, rimane il problema della misurabilità della scarsità. Qui sta naturalmente la differenza più rilevante tra Auguste e Leon Walras. Per il primo, la scarsità di un bene è definita dal rapporto tra la quantità esistente e la quantità totale desiderata dagli individui (“la somme des besoins“). Auguste Walras ritiene che il rapporto così costruito sia misurabile e che quindi l’Economia politica sia una “scienza matematica”. Ma è proprio questo che non è possibile visto che, come lo stesso Auguste Walras riconoscerà trent’anni dopo in una lettera al figlio, non è chiaro come possa essere misurata la somma dei bisogni non esistendo un’unità di misura del bisogno. La ragione immediata ed evidente dell’impossibilità di definire questa unità è che non possiamo effettuare confronti interpersonali. Non possiamo cioè sommare bisogni individuali per loro natura eterogenei, perché espressi da soggetti tra loro diversi. Per dirla in altro modo, la definizione di scarsità di Auguste Walras non funziona perché in¬terpreta la scarsità dal punto di vista sociale.
Questa è anche la strada intrapresa, almeno all’inizio, da Leon Walras e su cui continua a lavorare per ben dodici anni (dal 1860 al 1872) senza riuscire a trovare una via d’uscita. W. Jaffé ha suggerito che l’incontro “fatale” tra Economia e Matematica avvenne nel 1872. Proprio in quell’anno Walras ha modo di sottoporre un problema formale di cui non riesce a venire a capo a Paul Piccard, suo collega presso l’Università di Losanna dove insegnava Meccanica industriale e dove Walras stesso era professore di Economia politica dal 1870.
Come si deduce da una lettera allo stesso Piccard del 1873, Walras ha compiuto notevoli progressi nel corso di quei dodici anni. Da un lato, ha elaborato una teoria generale dei prezzi: nel caso dello scambio afferma che, date le curve di domanda e le quantità esistenti dei beni, i prezzi vengono determinati attraverso l’equilibrio di domanda e offerta. Dall’altro, è arrivato a supporre che vi sia un’unità di misura dell’intensità dei bisogni riferita però – questo punto è decisivo – al singolo individuo e non all’insieme dei soggetti che desiderano un dato bene. Insomma, Walras ipotizza che esista una funzione di utilità individuale. Il problema cruciale che Walras non riesce a risolvere e che sottopone a Piccard è come si possa dedurre la funzione di domanda di un bene dalla funzione di utilità. La risposta formale si trova in una nota redatta dallo stesso Piccard e riprodotta nel primo dei volumi che raccolgono la corrispondenza di Walras. Ciò che colpisce in questa soluzione, scrisse Saltari, poi adottata da Walras, è non solo e non tanto l’approccio analitico quanto piuttosto che in essa si trova implicitamente la definizione formale di scarsità, ovvero l’utilità marginale. La soluzione di Piccard è assai semplice e si compone di una parte grafica e una più propriamente analitica. Nella pagina linkata ne riproponiamo una versione aggiornata.
La breve nota di Piccard contiene la soluzione al problema (posto da Walras) di ricavare la funzione di domanda dalla funzione di utilità: se pensiamo al prezzo p come a una costante parametrica, la condizione del primo ordine per il problema di massimizzazione dell’utilità permette infatti di determinare quella che il più noto e rigoroso manuale di Microeconomia attualmente in circolazione denomina funzione walrasiana di domanda: possiamo cioè scrivere x = x(p) (trascurando l’influenza della quantità posseduta dell’altro bene y). È peraltro facile verificare che, se valgono le ipotesi walrasiane che le utilità dei beni siano indipendenti e che la condizione del secondo ordine sia soddisfatta, questa funzione di domanda è decrescente rispetto al prezzo così come ipotizzava Walras. Inoltre, consente di dare precisione formale al concetto di rareté attraverso l’impiego del calcolo differenziale, di dare cioè un contenuto alla definizione di rareté come “l’intensité du dernier besoin satisfait“ che si trova negli Elementi.
Quanto di questa impostazione sopravvive ancora oggi? Per rimanere sul terreno dei rapporti tra Economia e Matematica, ci concentreremo sul problema della misurabilità dell’utilità, un tema cui Walras era particolarmente sensibile e su cui decise di sentire l’opinione di quello che era il matematico più importante e noto dell’epoca, Henri Poincaré. Per affrontarlo, partiamo da quella che appare come l’ipotesi meno realistica dell’impostazione walrasiana: l’utilità di un bene non dipende da quella dell’altro ossia i due beni sono tra loro indipendenti. A pensarci bene, è più difficile immaginare beni indipendenti piuttosto che beni dipendenti (complementari o succedanei che siano). In termini formali, questa estensione implica che l’utilità non è più separabile e che dobbiamo scrivere l’utilità totale U = U(x,y) senza poter separare le singole utilità dei due beni. In questo caso le utilità marginali, che indicheremo sinteticamente con Ux e Uy, saranno delle derivate parziali in cui l’utilità marginale del singolo bene dipende anche dalla quantità dell’altro bene. Questa estensione tuttavia non modifica di molto la condizione del primo ordine che ora diviene:
Ux / Uy = p.
Cambia naturalmente anche la condizione del secondo ordine che deve tener conto dell’interdipendenza tra beni attraverso la derivata parziale mista. Questa estensione al caso di beni dipendenti fu effettivamente perseguita da Pareto all’inizio del secolo scorso. La sua generalizzazione condusse tuttavia a qualcosa di più importante: l’abbandono della misurabilità dell’utilità e dell’ipotesi dell’utilità marginale decrescente. Quando introduciamo l’interdipendenza tra beni, abbiamo a che fare con tre variabili, l’utilità totale e le quantità dei due beni. Per rappresentare il comportamento del consumatore in un grafico a due dimensioni, Pareto suppone costante l’utilità. Si individuano in tal modo delle curve di indifferenza, convesse verso l’origine degli assi, che rappresentano l’insieme delle combinazioni delle quantità dei due beni (x,y) per cui l’utilità non varia e rispetto alle quali il consumatore è appunto indifferente.
Si può mostrare che la posizione di ottimo del consumatore, e quindi le quantità scelte dei due beni, è caratterizzata dalla tangenza tra una data curva di indifferenza e il vincolo di bilancio. Ragionando in questo modo, tuttavia, ai fini della determinazione della posizione di ottimo non abbiamo più la necessità di conoscere il livello dell’utilità raggiunto ma soltanto che una combinazione di beni – (x*, y*) – è preferita alle altre. Siamo passati da una rappresentazione cardinale dell’utilità ad una ordinale. Con la prima, l’utilità è misurabile nel senso che è possibile stabilire un’unità di misura della soddisfazione anche se in senso solo soggettivo e quindi misurare l’utilità totale in base a questa scala (come avviene per il peso, la distanza o la temperatura). Si noti che l’unità di misura, e quindi l’utilità, è unica a meno di una trasformazione lineare (come per chilometri e miglia). Con la seconda, i valori assegnati all’utilità servono soltanto a ordinare le combinazioni di beni in base alle preferenze; l’utilità perde ogni significato quantitativo. Purché l’ordinamento rimanga inalterato, i valori assegnati possono cambiare: la funzione di utilità è unica a meno di una trasformazione monotona crescente. Per cogliere questo punto, vediamo come è possibile ricavare la condizione di ottimo prima vista utilizzando però l’apparato delle curve di indifferenza. La pendenza delle curve di indifferenza rappresenta il saggio di sostituzione di y con x ed è misurata, in valore assoluto, dal rapporto tra le utilità marginali. D’altra parte,la pendenza del vincolo di bilancio è, sempre in valore assoluto e nel piano (x,y), uguale al prezzo relativo p: per definizione, sul mercato possiamo sostituire y con x pagando p. Poiché l’utilità aumenta procedendo verso l’alto e a destra nel grafico, la posizione di ottimo si avrà quando curva di indifferenza e vincolo di bilancio sono tangenti. Nel punto di tangenza le due pendenze saranno uguali e dovrà perciò valere di nuovo la condizione di ottimo, in cui il saggio di sostituzione è uguale al prezzo. Per caratterizzare la posizione di ottimo, l’utilità marginale (come pure l’ipotesi che sia decrescente) non conta. Ciò che conta ai fini della massimizzazione dell’utilità è il rapporto tra le utilità marginali, cioè la scarsità relativa, e quindi il saggio di sostituzione tra i due beni. Per stabilire qual è il suo paniere preferito, il consumatore confronta quanto è disposto a “pagare” in termini di utilità rinunciando ad un dato bene con il prezzo di mercato. Quando la valutazione soggettiva della sostituibilità coincide con quella oggettiva del mercato, la posizione raggiunta non è ulteriormente migliorabile. Si noti un’altra significativa modifica rispetto all’apparato walrasiano. Affinché la posizione di ottimo così determinata sia effettivamente un massimo, non abbiamo più bisogno di ipotizzare (come fece Walras) che l’utilità marginale sia decrescente ma soltanto che le curve di indifferenza siano convesse ovvero che il saggio di sostituzione sia decrescente. È un’ulteriore prova del fatto che l’utilità è misurabile ma solo in senso ordinale e non cardinale: per determinare la posizione di ottimo, basta sapere che un paniere è preferito ad un altro ma non di quanto.
La necessità di rinunciare all’utilità cardinale e di passare a quella ordinale era stata anticipata da Poincaré a Walras nella lettera dell’ottobre del 1901 riportata nel box, che afferma esplicitamente come la funzione di utilità che rappresenta le preferenze sia unica a meno di una trasformazione monotona crescente. Qualunque trasformazione della funzione di utilità che lasci invariato l’ordine delle preferenze del consumatore può essere considerata una valida funzione di utilità. L’osservazione di Poincaré sulla non unicità della funzione di utilità lascia peraltro intravvedere che dietro l’utilità vi è un oggetto più primitivo: le preferenze del consumatore, formalmente specificate da una relazione binaria definita sull’insieme delle alternative come (x, y) e su cui vengono imposti degli assiomi che si ritiene definiscano il comportamento del consumatore. L’esempio più rilevante di questi assiomi è che il consumatore sia razionale, il che significa che è sempre in grado di scegliere tra due alternative e che non si contraddice nelle sue scelte. L’idea di fondo dell’approccio assiomatico del comportamento del consumatore, quello che oggi ha finito con l’affermarsi, è che la funzione di utilità rappresenti le preferenze specificate dagli assiomi nel senso che dire che preferiamo una combinazione di beni a un’altra equivale a dire che l’utilità della prima è maggiore di quella della seconda.
Non ci dilungheremo oltre su questo punto. Aggiungiamo solo che, se partiamo dalle preferenze e intendiamo da queste dedurre la funzione di utilità, l’assioma di razionalità non è di per sé sufficiente. Se vogliamo ottenere le curve di indifferenza del grafico, occorre imporre altri assiomi sulle preferenze come la monotonicità, la convessità, la continuità. Per Walras la questione della misurabilità dell’utilità rimase fino alla fine una questione cruciale. Nell’ultimo scritto pubblicato un anno prima di morire (Économie et Mécanique, 1909) Walras sostenne l’esistenza di una stretta analogia tra l’Economia e le “scienze fisico-matematiche”. Il principio di minimizzazione permeava tutta la Fisica del-l’epoca. Anche se nessuno si sognerebbe di dire che le particelle stanno consapevolmente minimizzando qualcosa, si dice che esse hanno un comportamento che può essere descritto come se esse agissero in modo minimizzante. Viene inoltre introdotta la nozione di energia potenziale come un’entità non osservabile che può essere inferita soltanto dai suoi legami teorici con altre variabili. Qui per Walras si apre un importante parallelo con la sua costruzione teorica. Egli sostiene che le utilità marginali, e cioè le derivate parziali della funzione di utilità (che non sono osservabili), sono uguali a meno di una costante di proporzionalità ai prezzi (che sono invece osservabili). Così come le derivate parziali della non osservabile energia potenziale sono uguali alle componenti del vettore di forza.
In conclusione , notò Saltari, si possono citare le parole di Poincaré: “Quando dunque ho parlato dei ‘giusti limiti’, non era assolutamente quello che intendessi dire. Ho pensato che all’inizio di ogni speculazione matematica ci sono delle ipotesi e che, perché questa speculazione sia fruttuosa, occorre, come del resto nelle applicazioni della Fisica, che ci si renda conto di queste ipotesi. È se si dimenticasse questa condizione che si supererebbero i giusti limiti. Per esempio, in Meccanica si trascura spesso l’attrito e si guarda ai corpi come infinitamente lisci. Lei guarda agli uomini come infinitamente egoisti ed infinitamente perspicaci. La prima ipotesi può essere accettata come prima approssimazione, ma la seconda necessiterebbe forse di qualche cautela.” Non è del tutto chiaro cosa intenda Poincaré quando critica l’ipotesi di Walras che gli uomini siano “infiniment clairvoyants“. Con ogni probabilità, si riferisce all’ipotesi che gli uomini siano sempre in grado di calcolare la loro posizione di ottimo in qualunque situazione per quanto complessa e quindi che siano perfettamente razionali. È in ogni caso del tutto evidente che, qualunque sia l’interpretazione, Poincaré solleva un problema di realismo delle ipotesi alla base della teoria walrasiana. Il problema nasce proprio dal tentativo di Walras (e più in generale del marginalismo) di “matematizzare” l’Economia inducendolo a fare ipotesi, come quella della perfetta razionalità, al fine di ottenere risultati formali. Sarebbe fin troppo facile concludere con questa accusa a Walras, di degenerazione nell’uso della Matematica e di scarso realismo, notando che a tutt’oggi pochi progressi sono stati fatti su questo terreno. Le critiche alla scarsità di realismo sono oggi amplificate dalla crisi finanziaria che ha riacceso il dibattito sulle (in)capacità previsive dell’Economia attribuite all’uso “eccessivo” dei modelli matematici.
Detto ciò, merita ricordare la tripartizione operata da Walras della materia economica in: lo studio delle leggi naturali del valore di scambio ovvero la teoria della ricchezza sociale; lo studio dell’economia applicata; lo studio dell’economia sociale. Tale distinzione, introdotta da Ricardo – vedi la sua definizione di economia come la scienza che si occupa della distribuzione del reddito nazionale – venne rielaborata da Stuart Mill per il quale, mentre le leggi della produzione dovevano essere considerate alla stregua di leggi naturali, si poteva agire a livello sociale al fine di migliorare le condizioni delle classi subalterne. Non a caso, Walras amava definirsi liberale in economia e socialista in politica. [L. Robbins La teoria della politica economica nell'economia politica classica inglese, Utet]
Merita inoltre ricordare che la teoria marginalista considera il lavoro alla stregua d’un normale fattore della produzione e che per tale via esso deve essere retribuito allo stesso modo degli altri fattori della produzione, cioè, sulla base della sua produttività marginale. Affatto opposto è il punto di vista di Marx. Per Marx il capitale altro non è che lavoro accumulato, lavoro morto che sfrutta lavoro vivo, potenza della produzione che si erge contro il suo stessso produttore, l’operaio che con il suo lavoro produce il plusvalore che serve a valorizzare quello stessso capitale che lo lega al proprio lavoro.
In altre parole, per Marx, parlare di produttività del capitale è un non-senso, fa parte del gioco degli specchi creato dall’alienazione capitalistica che trasforma il creatore del valore, l’operaio, in servitore del capitale che egli, con il suo lavoro ha contribuito a creare. Come Marx scrisse nelle Teorie del plusvalore,
La produttività del capitale consiste nella costrizione a fornire pluslavoro, a lavorare in misura superore alle necessità immediate, una costrizione che il modo di produzione capitalistico ha in comune con i modi di produzione precedenti, ma che esso esercita, ealizza in maniera più favorevole alla produzione.
Fondamentale, in questo processo è l’uso delle macchine alle quali è affidato il compito di aumentare la produzione di plusvalore relativo. Come Marx scrisse in Il capitale:
Nella manifattura la rivoluzione del modo di produzione prende come punto di partenza la forza-lavoro scrisse Marx nel Capitaale; nella grande industria, il mezzo di lavoro. Occorre dunque indagare in primo luogo in che modo il mezzo di lavoro viene trasformato da strumento in macchina, oppure in che modo la macchina si distingue dallo strumento del lavoro artigiano. Qui si tratta soltanto di grandi tratti caratteristici generali, poiché né le epoche della geologia né quelle della storia della Società possono esser divise da linee divisorie astrattamente rigorose.
I matematici e i meccanici — e qua e là qualche economista inglese ripete la cosa — dichiarano che lo strumento di lavoro è una macchina semplice e che la macchina è uno strumento composto: in ciò non vedono nessuna differenza sostanziale, e chiamano macchine perfino le potenze meccaniche elementari, come la leva, il piano inclinato, la vite, il cuneo, ecc Di fatto tutte le macchine consistono di quelle potenze elementari, qual ne sia il travestimento e la combinazione. Tuttavia dal punto di vista economico la spiegazione non vale niente, perché vi manca l’elemento storico. Da un’altra parte, la distinzione fra strumento e macchina viene cercata nel fatto che nello strumento la forza motrice è l’uomo, nella macchina una forza naturale differente dall’uomo: ad esempio, animali, acqua, vento, ecc. Da questo punto di vista, l’aratro tirato dai buoi, che appartiene alle più differenti epoche della produzione, sarebbe una macchina, e il circular loom (Telaio circolare) del Claussen, che, mosso dalla mano di un solo operaio, esegue novanta- seimila maglie al minuto, sarebbe un semplice strumento. Anzi lo stesso loom sarebbe strumento, se mosso a mano, e macchina, se mosso a vapore. Poichè l’uso della forza animale è una delle più antiche invenzioni dell’umanità, la produzione a macchina precederebbe di fatto quella artigianale. Quando John Wyatt nel 1735 annunciò la sua macchina per filare, e con essa la rivoluzione industriale del secolo XVIII, non accennò neppure con una parola che la macchina non fosse mossa da un uomo ma da un asino; tuttavia questa parte toccò all’asino. Il programma del Wyatt suonava: una macchina « per filare senza dita».
Ogni macchinario sviluppato consiste di tre parti sostanzialmente differenti, macchina motrice, meccanismo di trasmissione, e infine macchina utensile o macchina operatrice. La macchina motrice opera come forza motrice di tutto il meccanismo. Essa o genera la propria forza motrice, come la macchina a vapore, la macchina ad aria calda, la macchina elettromagnetica, ecc., oppure riceve l’impulso da una forza naturale esterna, già esistente, come la ruota ad acqua dalla caduta d’acqua, l’ala d’un mulino a vento dal vento, ecc. Il meccanismo di trasmissione composto di volanti, alberi di trasmissione, ruote dentate, pulegge, assi, corde, cinghie, congegni e apparecchi di ogni genere, regola il movimento, ne cambia, quand’è necessario, la forma, per esempio, da perpendicolare in circolare, lo distribuisce e lo trasmette alle macchine utensili. Queste due parti del meccanismo esistono solo allo scopo di comunicare alla macchina utensile il moto per il quale essa afferra e trasforma come richiesto l’oggetto del lavoro. Da questa parte del macchinario, dalla macchina utensile, prende le mosse la rivoluzione industriale del secolo XVIII; ed essa costituisce ancora sempre di nuovo il punto di partenza tutte le volte che una industria artigianale o manifatturiera trapassa in industria meccanica.
Se ora consideriamo più da vicino la macchina utensile o macchina operatrice vera e propria, vediamo ripresentarsi, tutto sommato, se pure spesso in forma assai modificata, gli apparecchi e gli strumenti coi quali lavorano l’artigiano e l’operaio manifatturiero; ora però non più come strumenti dell’uomo, ma come strumenti d’un meccanismo o strumenti meccanici. O è tutta la macchina che si riduce a una edizione meccanica, più o meno modificata, del vecchio strumento del mestiere artigiano, come nel telaio meccanico; oppure gli organi operanti applicati allo scheletro della macchina operatrice sono vecchie conoscenze, come i fusi nella filatrice meccanica, come gli aghi nel telaio del calzettaio, le lame dentate nella segheria meccanica, i coltelli nella triturazione meccanica, ecc. La differenza fra questi strumenti e il corpo della macchina operatrice in senso proprio risale alla loro nascita. Infatti essi vengono ancor oggi prodotti per la maggior parte da lavoro di tipo artigiano o manifatturiero, e solo in seguito vengono fissati al corpo della macchina operatrice, che è prodotto a macchina. la macchina utensile è un meccanismo il quale, dopo che gli sia stato comunicato il moto corrispondente, compie con i suoi strumenti le stesse operazioni che prima erano eseguite con analoghi strumenti dall’operaio. Ora, la sostanza della cosa non cambia, sia che la forza motrice provenga dall’uomo, sia che provenga anch’essa a sua volta da una macchina. Dopo che lo strumento in senso proprio è stato trasmesso dall’uomo ad un meccanismo, al puro e semplice strumento subentra una macchina. Anche se l’uomo stesso rimane ancora primo motore, la differenza balza subito agli occhi. Il numero di strumenti di lavoro coi quali l’uomo può operare contemporaneamente è limitato dal numero dei suoi strumenti naturali di produzione, cioè dei suoi organi corporei. In Germania s’era provato, prima a far muovere due filatrici a ruota da un solo filatore, cioè di farlo lavorare contemporaneamente con le due mani e i due piedi: ciò era troppo faticoso; poi s’inventò una filatrice a pedale con due fusi, ma i virtuosi della filatura che riuscissero a filare due fili allo stesso tempo erano rari quasi quanto gli uomini con due teste. Invece la jenny filato fin da principio con dodici fino a diciotto fusi, il telaio da calzettaio ammaglia con molte migliaia di aghi per volta, ecc. Da bel principio il numero degli strumenti coi quali la stessa macchina utensile lavora simultaneamente è emancipato dal limite organico che restringe l’uso dello strumento artigiano da parte dell’operaio.
La distinzione fra l’uomo come pura e semplice forza motrice e l’uomo come operaio che manovra il vero e proprio operatore, possiede una esistenza tangibilmente particolare in molti strumenti artigiani. Per esempio, nel filatoio a mulinello il piede opera soltanto come forza motrice, mentre la mano che lavora al fuso, trae e torce, compie la vera e propria operazione della filatura. La rivoluzione industriale s’impadronisce per prima proprio di quest’ultima parte dello strumento artigiano lasciando all’uomo, oltre al nuovo lavoro consistente nel sorvegliare con l’occhio la macchina e nel correggerne con la mano gli errori, ancora in un primo momento, la funzione puramente meccanica di forza motrice. Invece gli strumenti pei quali l’uomo agisce fin da principio soltanto come semplice forza motrice, come per esempio nel girare il manubrio d’una macina nel pompare, nell’alzare ed abbassare le braccia d’un mantice, nel pestare in un mortaio, provocano certo per primi l’uso di animali, dell’acqua e del vento come forze che danno movimento. In parte entro il periodo manifatturiero, e sporadicamente già molto prima di esso, questi strumenti si stirano fino a diventare macchine, ma non rivoluzionano il modo di produzione. Nel periodo della grande industria si vede che anche nella loro forma di tipo artigianale essi sono già macchine. Per esempio le pompe, con le quali gli olandesi prosciugarono nel 1836-37 il lago di Hariem, erano costruite secondo il principio delle pompe comuni; solo che, invece di braccia umane, erano ciclopiche macchine a vapore a muovere i pistoni. In Inghilterra il mantice comune e molto imperfetto del magnano viene ancora a volte trasformato in pompa pneumatica meccanica per mezzo del semplice collegamento del suo braccio con una macchina a vapore. La stessa macchina a vapore, come è stata inventata alla fine del secolo XVII durante il periodo della mani fattura e come ha continuato ad esistere fino al principio del decennio 1780-1790, non, ha provocato nessuna rivoluzione industriale. È stato piuttosto il fenomeno inverso, la creazione delle macchine utensili, che ha reso necessario rivoluzionare la macchina a vapore. Appena l’uomo agisce ormai soltanto come forza motrice di una macchina utensile invece di agire con il suo strumento sull’oggetto del lavoro, il travestimento della forza motrice in muscoli umani diventa un fatto casuale, e al suo posto può subentrare il vento, l’acqua, il vapore, ecc.
Ciò non esclude naturalmente che tale cambiamento non richieda spesso grandi modificazioni tecniche del meccanismo originariamente costruito per la sola forza motrice umana. Oggi tutte le macchine che debbono ancora cominciare a farsi strada, come le macchine per cucire, le macchine per impastare il pane, ecc., vengono costruite contemporaneamente per forza motrice umana e per forza motrice puramente meccanica quando non escludano fin da principio, per la loro stessa destinazione, d’esser costruite su piccola scala.
La macchina, dalla quale prende le mosse la rivoluzione industriale, sostituisce l’operaio che maneggia un singolo strumento con un meccanismo che opera in un sol tratto con una massa degli stessi strumenti o di strumenti analoghi, e che viene mosso da una forza motrice unica, qualsiasi possa esserne la forma. Ecco la macchina, ma per il momento solo come elemento semplice della produzione di tipo meccanico.
L’ampliamento del volume della macchina operatrice e del numero dei suoi strumenti che operano contemporaneamente, richiede una macchina motrice più massiccia, e questa richiede a sua volta, per vincere la propria resistenza, una forza motrice più potente di quella umana, astraendo dal fatto che l’uomo è un imperfettissimo strumento di produzione di moto uniforme e continuo. Presupponendo che l’uomo agisca ormai soltanto come semplice forza motrice, e che quindi al posto del suo strumento sia subentrata una macchina utensile, ci sono forze naturali che lo possono sostituire anche come forza motrice. Di tutte le grandi forze motrici tramandate dal periodo della manifattura la peggiore era quella del cavallo, in parte perché il cavallo ha la testa, a modo suo, in parte perché è caro e può essere usato nelle fabbriche solo in misura limitata. Tuttavia il cavallo è stato spesso usato durante l’infanzia della grande industria, come ci attesta già, oltre le lamentele degli agronomi di quell’epoca, l’uso tramandato fino a noi di esprimere la forza meccanica in « cavalli ». Il vento era troppo incostante e incontrollabile; inoltre l’applicazione della forza idraulica predominava già durante il periodo della manifattura in Inghilterra, paese di nascita della grande industria.
La trasformazione del macchinismo industriale dalle macchine utensili ai moderni robot, ha comportato un mutamento nell’organizzazione del lavoro dalle prime forme rudimentali di divisione del lavoro alla catena di montaggio, dalla catena di montaggio alle “isole” , dal fordismo al toyotismo al post-fordismo, che hanno visto, da un lato un aumento della produttività del lavoro; dall’altro lato, ha visto aumentare lo sfruttamento cui sono sottoposti i lavoratori, ovvero, ha visto inasprirsi il processo di estrazione del plusvalore relativo. [F. Pollock Automazione, Einaudi. H. Braverman lavoro e capitale monopolistico, Einaudi]
Nè il fordismo né il toyotismo sarebbero stati possibili, senza Frederik Taylor. Fu infatti Taylor a razionalizzare il processo di estrazione del plusvalore attraverso l’introduzione di un genere di organizzazione del lavoro basata su una rigida fissazione dei tempi e dei metodi effettuata con precisione cronometrica. [B. Coirat La fabbrica e l'orologio, Feltrinelli].
These new duties are grouped under four heads, scrisse Taylor. First. They develop a science for each element of a man’s work, which replaces the old rule-of” thumb method.Second. They scientifically select and then train, teach, and develop the workman, whereas in the past he chose his own work and trained himself as best he could.Third. They heartily cooperate with the men so as to insure all of the work being done in accordance with the principles of the science which has been developed. Fourth. There is an almost equal division of the work and the responsibility between the management and the workmen. The management take over all work for which they are better fitted than the workmen, while in the past almost all of the work and the greater part of the responsibility were thrown upon the men.
It is this combination of the initiative of the workmen, coupled with the new types of work done by the management, that makes scientific management so much more efficient than the old plan.
Three of these elements exist in many cases, under the management of “initiative and incentive,” in a small and rudimentary way, but they are, under this management, of minor importance, whereas under scientific management they form the very essence of the whole system.
The fourth of these elements, “an almost equal division of the responsibility between the management and the workmen,” requires further explanation. The philosophy of the management of “initiative and incentive” makes it necessary for each workman to bear almost the entire responsibility for the general plan as well as for each detail of his work, and in many cases for his implements as well. In addition to this he must do all of the actual physical labor. The development of a science, on the other hand, involves the establishment of many rules, laws, and formulae which replace the judgment of the individual workman and which can be effectively used only after having been systematically recorded, indexed, etc. The practical use of scientific data also calls for a room in which to keep the books, records, and a desk for the planner to work at. Thus all of the planning which under the old system was done by the workman, as a result of his personal experience, must of necessity under the new system be done by the management in accordance with the laws of the science; because even if the workman was well suited to the development and use of scientific data, it would be physically impossible for him to work at his machine and at a desk at the same time. It is also clear that in most cases one type of man is needed to plan ahead and an entirely different type to execute the work.
The man in the planning room, whose specialty under scientific management is planning ahead, invariably finds that the work can be done better and more economically by a subdivision of the labor; each act of each mechanic, for example, should be preceded by various preparatory acts done by other men. And all of this involves, as we have said, “an almost equal division of the responsibility and the work between the management and the workman.”
To summarize: Under the management of “initiative and incentive” practically the whole problem is “up to the workman,” while under scientific management fully one-half of the problem is “up to the management.”
Perhaps the most prominent single element in modern scientific management is the task idea. The work of every workman is fully planned out by the management at least one day in advance, and each man receives in most cases complete written instructions, describing in detail the task which he is to accomplish, as well as the means to be used in doing the work. And the work planned in advance in this way constitutes a task which is to be solved, as explained above, not by the workman alone, but in almost all cases by the joint effort of the workman and the management. This task specifies not only what is to be done but how it is to be done and the exact time allowed for doing it. And whenever the workman succeeds in doing his task right, and within the time limit specified, he receives an addition of from 30 per cent. to 100 per cent. to his ordinary wages. These tasks are carefully planned, so that both good and careful work are called for in their performance, but it should be distinctly understood that in no case is the workman called upon to work at a pace which would be injurious to his health. The task is always so regulated that the man who is well suited to his job will thrive while working at this rate during a long term of years and grow happier and more prosperous, instead of being overworked. Scientific management consists very largely in preparing for and carrying out these tasks.
The writer is fully aware that to perhaps most of the readers of this paper the four elements which differentiate the new management from the old will at first appear to be merely high-sounding phrases; and he would again repeat that he has no idea of convincing the reader of their value merely through announcing their existence. His hope of carrying conviction rests upon demonstrating the tremendous force and effect of these four elements through a series of practical illustrations. It will be shown, first, that they can be applied absolutely to all classes of work, from the most elementary to the most intricate; and second, that when they are applied, the results must of necessity be overwhelmingly greater than those which it is possible to attain under the management of initiative and incentive.
The first illustration is that of handling pig iron, and this work is chosen because it is typical of perhaps the crudest and most elementary form of labor which is performed by man. This work is done by men with no other implements than their hands. The pig-iron handler stoops down, picks up a pig weighing about 92 pounds, walks for a few feet or yards and then drops it on to the ground or upon a pile. This work is so crude and elementary in its nature that the writer firmly believes that it would be possible to train an intelligent-gorilla so as to become a more efficient pig-iron handler than any man can be. Yet it will be shown that the science of handling pig iron is so great and amounts to so much that it is impossible for the man who is best suited to this type of work to understand the principles of this science, or even to work in accordance with these principles without the aid of a man better educated than he is. And the further illustrations to be given will make it clear that in almost all of the mechanic arts the science which underlies each workman’s act is so great and amounts to so much that the workman who is best suited actually to do the work is incapable (either through lack of education or through insufficient mental capacity) of understanding this science. This is announced as a general principle, the truth of which will become apparent as one illustration after another is given. After showing these four elements in the handling of pig iron, several illustrations will be given of their application to different kinds of work in the field of the mechanic arts, at intervals in a rising scale, beginning with the simplest and ending with the more intricate forms of labor.
One of the first pieces of work undertaken by us, when the writer started to introduce scientific management into the Bethlehem Steel Company, was to handle pig iron on task work. The opening of the Spanish War found some 80,000 tons of pig iron placed in small piles in an open field adjoining the works. Prices for pig iron had been so low that it could not be sold at a profit, and it therefore had been stored. With the opening of the Spanish War the price of pig iron rose, and this large accumulation of iron was sold. This gave us a good opportunity to show the workmen, as well as the owners and managers of the works, on a fairly large scale the advantages of task work over the old-fashioned day work and piece work, in doing a very elementary class of work.
The Bethlehem Steel Company had five blast furnaces, the product of which had been handled by a pig-iron gang for many years. This gang, at this time, consisted of about 75 men. They were good, average pig-iron handlers, were under an excellent foreman who himself had been a pig-iron handler, and the work was done, on the whole, about as fast and as cheaply as it was anywhere else at that time.
L’ottimo paretiano. Vilfredo Pareto introdusse il concetto di ofelimità, l’uso delle curve di indifferenza, l’introduzione del concetto di ottimo che porta ancora il suo nome; cosicché, a ragion veduta si può parlare di sistema walrasiano-paretiano. Sempre per quello che riguarda l’impianto generale del sistema walrasiano-paretiano, è da ricordare che, anche accettando l’affermazione paretiana sull’unicità del punto di ottimo – definito come quel punto dal quale non ci si può allontanare senza favorire alcuni e sfavorire altri – rimane il fatto che esisterebbe pur sempre la possibilità della creazione d’una divergenza fra efficienza economica privata ed efficienza economica sociale; tra benessere economico e benessere complesivo [C. Pigou Economia del benessere, Utet] Ovvero, come scrisse Tjalling Koopmans in Tre saggi sullo stato della scienza economica
Un equilibrio concorrenziale, anche se costituisce un ottimo paretiano, può comportare una distribuzione del reddito più diseguale di quanto è ritenuto desiderabile socialmente. Il concetto di ottimo paretiano è insensibile a questa considerazione ed a questo proposito il termine ottimo è infelice.
Sulla medesima falsariga, si muoveva l’obiezione di Samuelson in Fondamenti di analisi economica:
La più importante critica all’esposizione di Pareto consiste nel fatto che un punto di ottimo non è un punto unico
e l’obiezione di Dobb in Economia del benessere, economia socialista
Il massimo che [la formulazione di Pareto] definisce è un massimo condizionale e non definisce una posizione univoca
L’economia del benessere, nata per ovviare questo problema, non ebbe fortuna. Il motivo è che alla radice del problema della distribuzione ci sono i rapporti capitalistici di produzione di cui le leggi della distribuzione sono l’altra faccia.
Il marginalismo sovietico. In tempi recenti sulla scorta della crisi della pianificazione sovietica, si formò in Urss una scuola che ispirò la propria ricerca ai principi della scuola di Losanna. Il capo riconosciuto di questa scuola fu Kantorovic, il quale, fin dagli anni 1930, sviluppò a Leningrado una nuova teoria matematica che rielaborava i concetti cardine della scuola di Losanna, a dire, del modello walrasiano-paretiano. Il più famoso dei suoi allievi fu Valentin Novozilov, autore prolifico, molto noto anche in Italia per via dei suoi contatti con gli economisti del Pci. Le sue opere vennero pubblicate dagli Editori Riuniti. [C. Boffito Efficienza economica e rapporti sociali di produzione, Einaudi].
L’applicazione al socialismo del modello walrasiano-paretiano non funzionò. Come scrisse Little in Una critica della economia del benessere,
Il modello socialista dei marginalisti costituisce un sistema formale di deduzioni la cui applicabilità è altamente dubbia anche in uno stato assolutista
Per il resto vale quello che è stato scritto da Michael Ellman, e cioè che l’adesione degli economisti sovietici ai principi della scuola di Losanna, più che un ammodernamento della teoria rappresentava una sconfitta delle speranze di rinnovamento dello stesso sistema sovietico. [M. Ellman Soviet Planning Today, Cambrdge University Press]
La critica di Schumpeter. Malgrado il suo atteggiamento critico nei confronti di Marx, Schumpeter è molto più marxista di quello che egli stesso pensasse. Schumpeter non accetta, infattti, la rappresentazione dell’economia reale che offerta dall’economia ortodossa, l’economia, come egli la chiamò, del flusso circolare. Tale economia non spiega infatti il fenomeno dello sviluppo. Per Schumpeter occorreva abandonare il modello del flusso circolare e occorreva focalizzare invece l’attenzione sul fenomeno dello sviluppo economico. Tale fenomeno era da considerarsi come un processso che aveva come elemento fondamentale l’innovazione, introdotta dall’imprenditore innovatore. L’innovazione poteva essere di di prodotto, di processo e con il suo ciclo determinava il ciclo economico. [J. Schumpeter La teoria dello sviluppo economico, Sansoni]
Altro elemento fondamentale della teoria di Schumpeter è il credito creato dalle banche, senza le quali il processo di sviluppo si bloccherebbe. Infine, va sottolineao che l’innovazione comporta l’introduzione di una nuova curva di produzione; non di un movimento lungo la curva, perciò si tratta. Schumpeter sviluppò quest teoria in Cicli economici, un’opera monumentale pubblicata nel 1939. in essa, Schumpeteer notava che
Il nostro sistema economico non è un sistema puro ma in piena trsformazione verso qualcos’altro, cosicché non è sempre possibile descriverlo con un modello analitico coerente sotto il punto di vista logico.
Come Schumpeter scrisse nel 1935 su The Review of Economic Studies in un aritcolo intitolato L’analisi del mutamento economico,
Con il termine sviluppo indichiamo i cambiamenti nei dati economici che avvenggono continuamente nel senso di un aumeento o di una diminuzione per unità di tempo. Questi cambiamenti sono irreversibili e sono il prodotto delle innovazioni, le quai sono cambniamenti della funzione di produzione di produzione che non posono essere scomposti in cambiamenti infinitesimi lungo la curva che rappresenta la funzione di produzione.
Tale concetto venne sviluppato da Schumpeter in Cicli economici del 1939. Nel libro, Schumpeter notava che il progresso tecnico è l’essenza dell’impresa capitalistica e non può essere separato da essa. Esso può essere rallentato dalla monopolizzazione dell’economia e dalla sua conseguente burocratizzazione che svigorisce l’impulso ad innovare tipico dell’imprenditore individuale. [J. Schumpeter Capitalismo, socialismo, democrazia, Etas Kompas] Tale figura, che fu al centro del pensiero di Schumpeter, entrò in scena con Richard Cantillon il quale nel suo Saggio sulla natura del commercio in generale del 1754 dedicò alla figura dell’imprenditore alcune famose pagine.
La critica di Paul Mattik. Recently the editors of Common Sense have once more dealt with the “unscientific character” of Marxism by pointing out that:
“Ricardo’s labor theory of value, taken over by Marx and embellished with the theory of surplus value, was abandoned long ago by all but Marxist economists, and a whole branch of ‘marginal utility’ economics developed, of which Marx could know nothing … that even in the Soviet Union (so far as Five Year Plans go, if not at the Marx-Engels Institute) marginal utility economics have displaced the useless and misleading Marxian economics.”
However, what is brought forward here as an argument against Marxism is in reality only another confirmation of it. Certainly, the Russian state-capitalism, in which class relations are continued, cannot employ the Marxian science, for this science consists of nothing but the critique of those selfsame capitalistic conditions, which characterize Russia and every other capitalistic country. For the purpose of justifying the exploitation of the workers, the inequalities of income, and the accumulation of capital that exists there, the Marxian economic theories are certainly useless. What Marx had said [2] of the science of bourgeois economy — namely, that it reached its limits with Ricardo because,
“He consciously made the antagonism of class interests, of wages and profits, of profits and rents, the starting point of his investigation,”
holds equally true for Russian economic “science.” The continued class society forces Russian economic theory to embrace those ideological weapons of bourgeois society which appears as economic theory, and to attempt to destroy even that kernel of truth contained in Classical economy, which served with Marxists as a basis of attack upon the whole capitalistic society.
The development of marginal utility economics is closely connected with the difficulty of the proponents of the classical theory to confute Marxist theories, as both the Classicists and the Marxists based their argument on the same objective value concept. The marginal utility school arose in defense of capitalism, and its apology consisted in the construction of a value concept which justified the prevailing class and income differentiations. The existing inequalities based on the exploitation of labor were explained as an undefeatable natural law of diminishing utility. This theory, as was so well stated by C. E. Ayres,
“Only undertakes to demonstrate under any given conditions of income distribution the automatic achievement of the maximum total of human satisfaction: the greatest good of all. Even so, this poor-little-rich-girl notion which proposes to balance the surfeit of the rich against the precarious existence of the poor is so extravagantly complacent that most economists have hesitated to give it clear and unequivocal expression.”
Though single concepts of this theory were adopted by economists of other schools, nevertheless, as a general theory, it was slowly abandoned. The Neo-Classicists, for instance, did not bother themselves any longer with questions as to the desirability or the justification of the prevailing economic system: they simply took for granted that it was the best possible one, and merely tried to find means of making it more efficient, a condition which forced them to restrict themselves, as far as market phenomena were concerned, to mere price considerations. The value concept was displaced by a cost-of-production theory, which the Neo-Classicists thought sufficient to explain the existing division of wealth.
However, the question of utility was raised anew in relation to the problem of the allocation of resources in a socialist economy and it was pointed out that even with an acceptance of the labour theory of value, the question of demand must be dealt with. It is clear that no society can prevail which entirely disregards the real needs of its people; that production is impossible unless men are able to eat and work.
“Every child knows, too, that the mass of products corresponding to the different needs require different and quantitatively determined masses of the total labor of society. That this necessity of distributing social labor in definite proportions cannot be done away with by the particular form of social production, but can only change the form it assumes, is self-evident.”
However, the question of the allocation of resources to meet demand and in the interest of economy as it is raised in modern economic theory has no connection with the simple and direct statement of Marx just quoted, but is determined by class considerations based on a particular form in which the union of labor and the means of production is accomplished.
In Russia, as elsewhere, the means of production are not controlled by the workers but are the monopoly of a special group in society. In the relations of the workers to the means of production, no difference exists between a private property society and a state-capitalist system. The position of the Russian bureaucracy to its workers is exactly the same as that of the individual entrepreneur to his. The first need of that bureaucracy is to safeguard its own position in order to develop industry and agriculture. Whatever else this bureaucracy may do, it has first of all to “plan” its own security, and then to proceed to “plan” life for the rest of the population. This is recognized not only by the present and supposedly “degenerated” Russian bureaucracy, but was clear also to the “founders” of the Russian state-capitalist system.
“As a general rule,” Trotsky has said, “man strives to avoid labor. The problem before the social organization is just to bring ‘laziness’ within a definite framework, to discipline it, and to pull mankind together … The only way to attract the labor power necessary for our economic problems is to introduce compulsory labor service … We can have no way to Socialism except by the authoritative regulation of the economic forces and resources of the country, and the centralized distribution of labor power in harmony with the general State plan. The Labor State considers itself empowered to send every worker to the place where his work is necessary. And not one serious Socialist will begin to deny to the Labor State the right to lay its hand upon the worker who refuses to execute his labor duty.”
After the question of production is thus settled, the question of distribution is easily solved. “We still retain, and for a long time will retain, the system of wages,” Trotsky pointed out. However, “Wages, in the form both of money and of goods, must be brought into the closest possible touch with the productivity of individual labor … Those workers who do more for the general interest than others receive the right to a greater quantity of the social product than the lazy, the careless, and the disorganizers. Finally, when it rewards some, the Labor State cannot but punish others — those who are clearly infringing labor solidarity, undermining the common work, and seriously impairing the Socialist renaissance of the country. Repression for the attainment of economic ends is a necessary weapon of the Socialist dictatorship.”
The control of production by a particular group in society carries with it their control of distribution. The division of society into rulers and ruled as deemed necessary by Trotsky and as exists in Russia requires, besides a sufficient number of bayonets, an ideology which convinces those who are ruled that their status is natural, unavoidable, and beneficial. Income differentiations and, with this, the formation of additional group interests, becomes an increasing necessity, and is accentuated still more by the political need to preclude a unity of misery against the privileged in society. Because Marxism could be employed only in opposition to such a state of affairs, it had to be ignored, or emasculated in favor of evaluations supposedly based on scarcity, utility, or demands; for behind such terms, not only real but also assumed utility, scarcity, and demand can be hidden and justified. The “utility” of the one or other social function or labor is first of all the “utility” it has for the safeguarding of existing class relations and its corresponding mode of production. Not social needs will determine “utility,” but groups interests. The class structure of society comes to light precisely in its need for such evaluations. Just as little as the privileges of the capitalists results from their “utility” but from the fact that they control the means of production and are thus able to exploit the workers, so little does “utility” explain the privileges of the Russian bureaucracy. Those privileges are also based on the conditions of the control of the means of production by the bureaucracy. A theory justifying class rule and exploitation is necessary in Russia, and its acceptance of the defense theories of capitalism does not, as the editors of Common Sense believe, indicate the faulty character of Marxism, but its continued usefulness in the class struggle of the Russian workers against their present masters.
La critica marxiana dell’economia politica. A un primo sguardo la ricchezza borghese appare come una enorme raccolta di merci e la singola merce come sua esistenza elementare. Ma ogni merce si presenta sotto il duplice punto di vista di valore d’uso e di valore di scambio, scrisse Marx in Per la critica.
La merce è in primo luogo, nel linguaggio degli economisti inglesi, “qualsiasi cosa necessaria, utile o gradevole alla vita”, oggetto di bisogni umani, mezzo di sussistenza nel senso più ampio della parola. Questo esistere della merce come valore d’uso e la sua esistenza naturale tangibile coincidono. Il grano ad esempio è un valore d’uso particolare, differente dai valori d’uso cotone, vetro, carta, ecc. Il valore d’uso ha valore solo per l’uso e si attua soltanto nel processo del consumo. Un medesimo valore d’uso può essere sfruttato in modo diverso. La somma delle sue possibili utilizzazioni si trova però racchiusa nel suo esistere quale oggetto dotato di determinate qualità. Questo valore d’uso, inoltre, è determinato non solo qualitativamente, bensì anche quantitativamente. Valori d’uso differenti hanno misure differenti secondo le loro naturali peculiarità, ad esempio un moggio di grano, una libbra di carta, un braccio di tela, ecc.
Qualunque sia la forma della ricchezza, i valori d’uso costituiscono sempre il suo contenuto, che in un primo tempo è indifferente nei confronti di questa forma. Gustando del grano, non si sente chi l’ha coltivato, se un servo della gleba russo, un contadino particellare francese o un capitalista inglese. Sebbene sia oggetto di bisogni sociali e quindi si trovi in un nesso sociale, il valore d’uso non esprime tuttavia un rapporto di produzione sociale. Questa merce come valore d’uso sia ad esempio un diamante. Guardando il diamante, non si avverte che è merce. Là dove serve come valore d’uso, esteticamente o meccanicamente, al seno di una ragazza allegra o in mano a chi mola i vetri, è diamante e non merce. L’essere valore d’uso sembra presupposto necessario per la merce, ma l’essere merce sembra pel valore d’uso una definizione indifferente. Il valore d’uso in questa sua indifferenza verso la definizione della forma economica, ossia il valore d’uso quale valore d’uso, esula dal campo d’osservazione dell’economia politica. Vi rientra solo là dove è esso medesimo definizione formale. In modo immediato, il valore d’uso è la base materiale in cui si presenta un determinato rapporto economico, il valore di scambio.
Il valore di scambio appare in primo luogo come un rapporto quantitativo, entro il quale valori d’uso sono intercambiabili. Entro questo rapporto essi costituiscono la medesima grandezza di scambio. Così, un volume di Properzio e 8 once di tabacco da fiuto possono essere un medesimo valore di scambio, nonostante la disparità dei valori d’uso tabacco ed elegia. Come valore di scambio, un valore d’uso vale esattamente quanto l’altro, purchè sia presente nella dovuta proporzione. Il valore di scambio di un palazzo può essere espresso in un determinato numero di scatole di lucido da scarpe. Viceversa, i fabbricanti di lucido londinesi hanno espresso in palazzi il valore di scambio delle scatole sempre più numerose del loro prodotto. Astraendo quindi del tutto dal loro modo d’esistenza naturale e senza tener conto della natura specifica del bisogno per il quale sono valori d’uso, le merci si equivalgono in determinate quantità, si sostituiscono le une alle altre nello scambio, sono considerate equivalenti e in tal modo rappresentano la medesima unità malgrado la loro variopinta apparenza.
I valori d’uso sono direttamente mezzi di sussistenza. Ma viceversa questi mezzi di sussistenza sono essi stessi prodotti della vita sociale, sono risultato di forza umana spesa, sono lavoro oggettivato. In quanto materializzazione del lavoro sociale, tutte le merci sono cristallizzazioni di una medesima unità. Quello che ora dobbiamo considerare è il carattere determinato di questa unità, ossia del lavoro che si esprime nel valore di scambio.
Un’oncia d’oro, una tonnellata di ferro, un quarter di grano e venti braccia di seta siano, poniamo, valori di scambio uguali. In quanto sono tali equivalenti, in cui è cancellata la differenza qualitativa dei loro valori d’uso, essi rappresentano un volume uguale di uno stesso lavoro. Il lavoro che in essi uniformemente si oggettiva dev’essere esso stesso lavoro semplice, uniforme, indifferenziato, per il quale sia indifferente apparire nell’oro, nel ferro, nel grano, nella seta, allo stesso modo che è indifferente per l’ossigeno trovarsi nella ruggine del ferro, nell’atmosfera, nel succo dell’uva o nel sangue dell’uomo. Ma scavare oro, portar alla luce ferro, coltivare grano e tessere seta, sono tipi di lavoro che differiscono qualitativamente l’uno dall’altro. Infatti, ciò che oggettivamente appare come diversità dei valori d’uso, appare nel corso del processo come diversità dell’attività che produce i valori d’uso. Perciò, il lavoro che crea valore di scambio, in quanto è indifferente nei riguardi della particolare materia dei valori d’uso, lo è anche nei confronti della forma particolare del lavoro stesso. I differenti valori d’uso sono inoltre prodotti dell’attività di individui differenti, sono dunque il risultato di lavori individualmente differenti. Ma come valori di scambio rappresentano un lavoro uguale, indifferenziato, ossia lavoro in cui è cancellata l’individualità di chi lavora. Il lavoro che crea valore di scambio è quindi lavoro astrattamente generale.
Se un’oncia d’oro, una tonnellata di ferro, un quarter di grano e venti braccia di seta sono valori di scambio di uguale grandezza, ossia equivalenti, un’oncia d’oro, mezza tonnellata di ferro, tre bushel di grano e cinque braccia di seta saranno valori di scambio di grandezza del tutto differente, e questa differenza quantitativa è l’unica differenza di cui siano in genere suscettibili in quanto valori di scambio. Come valori di scambio di grandezza differente rappresentano un più o un meno, un quantitativo maggiore o minore di quel lavoro semplice, uniforme, astrattamente generale, il quale costituisce la sostanza del valore di scambio. Si tratta di vedere come misurare questi quantitativi. O piuttosto si tratta di vedere quale sia la esistenza quantitativa di quel lavoro stesso, poichè le differenze di grandezza delle merci come valori di scambio non sono che differenze di grandezza del lavoro in esse oggettivato. Allo stesso modo che il tempo è l’esistenza quantitativa del movimento, iltempo di lavoro è l’esistenza quantitativa del lavoro. La diversità della propria durata è l’unica differenza di cui sia suscettibile il lavoro, presupposta come data la sua qualità. Come tempo di lavoro esso ottiene la propria scala di misura nelle naturali misure del tempo, ora, giornata, settimana, ecc. Il tempo di lavoro è l’esistenza vivente del lavoro, indipendentemente dalla sua forma, dal suo contenuto, dalla sua individualità; ne è l’esistenza vivente come esistenza quantitativa, e insieme è la misura immanente di questa esistenza. Il tempo di lavoro oggettivato nei valori d’uso delle merci è la sostanza che fa dei valori d’uso valori di scambio e quindi merci, allo stesso modo che ne misura la determinata grandezza di valore. I quantitativi correlativi di valori d’uso differenti nei quali si oggettiva un medesimo tempo di lavoro, sono degli equivalenti, ossia tutti i valori d’uso sono degli equivalenti nelle proporzioni in cui contengono il medesimo tempo di lavoro consumato oggettivato. Come valori di scambio tutte le merci non sono che misure di tempo di lavoro coagulato.
Per comprendere la determinazione del valore di scambio in base al tempo di lavoro occorrerà tener fermi i seguenti punti di partenza principali: la riduzione del lavoro a lavoro semplice, per così dire privo di qualità; il modo specifico in cui il lavoro, che crea valore di scambio e quindi produce merci, è lavoro sociale; infine, la differenza che si ha fra il lavoro che ha per risultato valori d’uso e il lavoro che ha per risultato valori di scambio.
Per misurare i valori di scambio delle merci in base al tempo di lavoro in esse contenuto, i differenti lavori dovranno essi stessi essere ridotti a lavoro semplice, indifferenziato e uniforme, in breve al lavoro che qualitativamente è sempre uguale e si differenzia solo quantitativamente.
Questa riduzione sembra un’astrazione, ma è un’astrazione che nel processo sociale della produzione si compie ogni giorno. La riduzione di tutte le merci a tempo di lavoro è un’astrazione non maggiore, ma allo stesso tempo non meno reale, della riduzione di tutti i corpi organici in aria. Il lavoro, così misurato mediante il tempo, non appare infatti come lavoro di soggetti differenti, bensì i differenti individui che lavorano appaiono invece come semplici organi del lavoro. Ossia il lavoro, come si rappresenta in valori di scambio, potrebbe essere espresso come lavoro generalmente umano. Questa astrazione del lavoro generalmente umano esiste nel lavoro medio che ogni individuo medio può compiere in una data società, è un determinato dispendio produttivo di muscoli, nervi, cervello, ecc. umani. E’ lavoro semplice [3] al quale ogni individuo medio può essere addestrato e che esso deve compiere in una forma o nell’altra. Il carattere di questo lavoro medio varia esso stesso in paesi differenti e in epoche di civiltà differenti, ma si presenta come dato in una società esistente. Il lavoro semplice costituisce la massa di gran lunga maggiore di tutto il lavoro delle società borghesi, come ci si potrà convincere da tutte le statistiche. Che A durante 6 ore produca ferro e durante 6 ore tela, e che B allo stesso modo produca durante 6 ore ferro e durante 6 ore tela, o che A produca durante 12 ore ferro e B durante 12 ore tela, è evidente che si tratta semplicemente di un uso differente di un medesimo tempo di lavoro. Ma come si fa per il lavoro complesso che si eleva al di sopra del livello medio in quanto lavoro di più alta intensità, di maggiore peso specifico? Questo tipo di lavoro si riduce a lavoro semplice messo insieme, a lavoro semplice a potenza più elevata, cosicchè ad esempio una giornata di lavoro complesso sarà uguale a tre giornate di lavoro semplice. Non è questo ancora il luogo di trattare delle leggi che regolano questa riduzione. Ma è chiaro che questa riduzione ha luogo: infatti, come valore di scambio, il prodotto del lavoro più complesso è in una determinata proporzione equivalente del prodotto del lavoro medio semplice, e quindi pari a un determinato quantitativo di questo lavoro semplice.
La determinazione del valore di scambio mediante il tempo di lavoro presuppone inoltre che in una determinata merce, ad esempio in una tonnellata di ferro, sia oggettivato lo stesso quantitativo di lavoro, non importa che sia il lavoro di A o di B o che individui differenti impieghino, per la produzione di uno stesso valore d’uso determinato qualitativamente e quantitativamente, un tempo di lavoro di uguale durata. In altre parole, si presuppone che il tempo di lavoro contenuto in una merce sia il tempo di lavoro necessario per la sua produzione, vale a dire il tempo di lavoro richiesto per produrre in date condizioni generali di produzione un nuovo esemplare di quella stessa merce.
Le condizioni del lavoro che crea valore di scambio, come risultano dall’analisi del valore di scambio, sono determinazioni sociali del lavoro oppure determinazioni del lavoro sociale, ma non sono sociali senz’altro, lo sono in un modo particolare. Si tratta di un modo particolare di socialità. In primo luogo la semplicità indifferenziata del lavoro è uguaglianza dei lavori di individui differenti, un reciproco riferirsi dei loro lavori l’uno all’altro come a lavoro uguale, e ciò mediante una reale riduzione di tutti i lavori a un lavoro di uguale specie. Il lavoro di ogni individuo, in quanto si presenta in valori di scambio, ha questo carattere sociale di uguaglianza, e si presenta nel valore di scambio solo in quanto è riferito al lavoro di tutti gli altri individui come a lavoro uguale.
Inoltre, nel valore di scambio, il tempo di lavoro del singolo individuo si presenta immediatamente come tempo di lavoro generale, e questo carattere generaledel lavoro individuale si presenta come carattere sociale di quest’ultimo. Il tempo di lavoro rappresentato nel valore di scambio è tempo di lavoro del singolo, ma del singolo indifferenziato dall’altro singolo, da tutti i singoli in quanto compiono un lavoro uguale, e quindi il tempo di lavoro richiesto per la produzione di una determinata merce è il tempo di lavoro necessario, che ogni altro impiegherebbe per la produzione di quella stessa merce. E’ il tempo di lavoro del singolo, il suotempo di lavoro, ma solo come tempo di lavoro comune a tutti, per il quale è indifferente di quale singolo individuo esso sia il tempo di lavoro. Come tempo di lavoro generale, esso si esprime in un prodotto generale, in un equivalente generale, in un determinato quantitativo di tempo di lavoro oggettivato; e quest’ultimo, astraendo dalla forma determinata del valore d’uso in cui appare immediatamente come prodotto dell’uno, è traducibile a piacere in qualsiasi altra forma di valore d’uso in cui si esprima come prodotto di qualsiasi altro. E’ grandezza sociale soltanto in quanto è una tale grandezza generale. Per risultare valore di scambio, il lavoro del singolo deve risultare equivalente generale, ossia rappresentazione del tempo di lavoro del singolo come tempo di lavoro generale o, ancora, rappresentazione del tempo di lavoro generale come tempo di lavoro del singolo. E’ come se i diversi individui avessero messo insieme i loro tempi di lavoro e avessero espresso in valori d’uso diversi quantitativi diversi del tempo di lavoro a loro comune disposizione. Infatti, il tempo di lavoro del singolo è in tal modo il tempo di lavoro di cui la società ha bisogno per la espressione di un determinato valore d’uso, ossia per il soddisfacimento di un determinato bisogno. Ma qui si tratta soltanto della forma specifica in cui il lavoro acquisisce carattere sociale. Poniamo che un determinato tempo di lavoro del filatore si oggettivizzi per esempio in cento libbre di filato di lino; e che cento braccia di tela di lino, prodotte dal tessitore, rappresentino un quan- titativo uguale di tempo di lavoro. In quanto questi due prodotti rappresentano un quantitativo uguale di tempo di lavoro generale e sono quindi equivalenti per ogni valore d’uso che contenga un tempo di lavoro di uguale durata, essi sono equivalenti l’uno dell’altro. Solo per il fatto che il tempo di lavoro del filatore e il tempo di lavoro del tessitore si presentano come tempo di lavoro generale e i loro prodotti si presentano quindi come equivalenti generali, il lavoro del tessitore diventa qui per il filatore e il lavoro del filatore per il tessitore il lavoro dell’uno per il lavoro dell’altro, vale a dire per entrambi l’esistenza sociale dei loro lavori. Nell’industria contadina patriarcale invece, in cui filatore e tessitore abitavano sotto lo stesso tetto, in cui la parte femminile della famiglia filava e quella maschile tesseva, diciamo per il solo fabbisogno della famiglia, filato e tela erano prodotti sociali, filatura e tessitura erano lavori sociali entro i limiti della famiglia. Ma il loro carattere sociale non consisteva nel fatto che il filato si scambiava come equivalente generale con la tela come equivalente generale o entrambi reciprocamente come espressioni indifferenti ed equivalenti di uno stesso tempo di lavoro generale. Il nesso familiare, anzi, con la sua naturale e spontanea divisione del lavoro, imprimeva al prodotto del lavoro il suo peculiare timbro speciale. Oppure, prendiamo i servizi in natura e le prestazioni in natura del Medioevo. I determinati lavori dei singoli nella loro forma naturale, la particolarità, non la generalità del lavoro costituiscono qui il legame sociale. Oppure prendiamo infine il lavoro in comune nella sua forma naturale spontanea, come lo troviamo alle soglie della storia di tutti i popoli civili [4] . Qui il carattere sociale del lavoro evidentemente non è dato dal fatto che il lavoro del singolo assume la forma astratta della generalità o che il suo prodotto assume la forma di equivalente generale. E’ la comunità, il presupposto della produzione, ad impedire che il lavoro del singolo individuo sia il lavoro privato e il suo prodotto privato a far apparire invece il lavoro singolo direttamente come funzione di un membro dell’organismo sociale. Il lavoro che si esprime nel valore di scambio è presupposto come lavoro del singolo preso singolarmente: diventa sociale assumendo la forma del suo diretto opposto, la forma dell’astratta generalità.
Caratteristico del lavoro che crea valore di scambio è infine che il rapporto sociale delle persone si rappresenta per così dire rovesciato, cioè come rapporto sociale delle cose. Soltanto in quanto un valore d’uso si riferisce all’altro quale valore di scambio, il lavoro di persone diverse è riferito l’uno all’altro come a lavoro uguale e generale. Quindi, se è esatto dire che il valore di scambio è un rapporto fra persone, bisogna tuttavia aggiungere: un rapporto celato sotto il velo delle cose. Allo stesso modo che una libbra di ferro e una libbra d’oro rappresentano lo stesso quantitativo di peso malgrado le loro qualità fisiche e chimiche diverse, due valori d’uso di merci, in cui sia contenuto lo stesso tempo di lavoro, rappresentano lo stesso valore di scambio. Il valore di scambio appare in tal modo come determinazione naturale sociale dei valori d’uso, come determinazione che spetta a questo in quanto cose, e a causa della quale nel processo di scambio essi si sostituiscono a vicenda secondo determinati rapporti quantitativi, costituiscono equivalenti, allo stesso modo che le sostanze chimiche semplici si combinano secondo determinati rapporti quantitativi, costituendo equivalenti chimici. E’ soltanto l’abitudine della vita quotidiana che fa apparire come cosa banale, come cosa ovvia che un rapporto di produzione sociale assuma la forma di un oggetto, cosicchè il rapporto fra le persone nel loro lavoro si presenti piuttosto come un rapporto reciproco fra cose e fra cose e persone. Nella merce questa mistificazione è ancor molto semplice. Tutti più o meno capiscono vagamente che il rapporto delle merci quali valori di scambio è piuttosto un rapporto fra le persone e la loro reciproca attività produttiva. Nei rapporti di produzione di più alto livello questa parvenza di semplicità si dilegua. Tutte le illusioni del sistema monetario derivano dal fatto che dall’aspetto del denaro non si capisce che esso rappresenta un rapporto di produzione sociale, se pure nella forma di una cosa naturale di determinate qualità. Presso gli economisti moderni i quali sdegnano sghignazzando le illusioni del sistema monetario, fa capolino questa medesima illusione, non appena essi maneggino categorie economiche superiori, ad esempio il capitale. Essa irrompe nella confessione di ingenuo stupore quando ora appare come rapporto sociale ciò che essi goffamente ritenevano di fissare come cosa, e ora li stuzzica di nuovo come cosa ciò che avevano appena finito di fissare come rapporto sociale.
Il valore di scambio delle merci, essendo infatti null’altro che il rapporto reciproco fra i lavori dei singoli individui come lavori uguali e generali, null’altro che l’espressione oggettuale di una forma specificamente sociale del lavoro, è una tautologia dire che il lavoro è l’unica fonte del valore di scambio e quindi della ricchezza in quanto consiste di valori di scambio. E la stessa tautologia è dire che la materia naturale come tale non contiene valore di scambio [6] perchè non contiene lavoro e che il valore di scambio come tale non contiene materia naturale. Ma quando William Petty chiama “il lavoro il padre e la terra la madre della ricchezza”, oppure quando il vescovo Berkeley domanda “se i quattro elementi e il lavoro dell’uomo applicato ad essi non siano la vera fonte della ricchezza”, o quando l’americano Th. Cooper spiega volgarizzando: “Togli da una pagnotta il lavoro applicatovi, il lavoro del fornaio, mugnaio, affittuario, ecc., e che cosa rimane? Alcuni granelli di erbe che crescono allo stato selvatico, inservibili ad ogni uso umano”, allora, in tutte queste vedute, non si tratta del lavoro astratto come fonte del valore di scambio, bensì del lavoro concreto come fonte di ricchezza materiale, in breve del lavoro in quanto produce valori d’uso. Pel fatto che il valore d’uso della merce sia presupposto, è presupposta la particolare utilità, la determinata finalità del lavoro consumato in essa, ma con ciò, dal punto di vista della merce, è allo stesso tempo esaurita ogni considerazione del lavoro come lavoro utile. Nel pane, come valore d’uso, ci interessano le sue qualità come mezzo alimentare, non ci interessano affatto i lavori dell’affittuario, del mugnaio, del fornaio. Qualora per mezzo di qualche invenzione i 19/20 di questi lavori venissero meno, la pagnotta farebbe lo stesso servizio di prima. Qualora cadesse bell’e pronta dal cielo, non perderebbe un atomo del suo valore d’uso. Mentre il lavoro che crea valore di scambio si attua nell’uguaglianza delle merci come equivalenti generali, il lavoro, come attività produttiva conforme al fine, si attua nell’infinita varietà dei suoi valori d’uso. Mentre il lavoro che crea valore di scambio è lavoro astrattamente generale e uguale, il lavoro che crea valore d’uso è lavoro concreto e particolare che si scinde in modi di lavoro infinitamente vari a seconda della forma e della materia.
E’ sbagliato dire che il lavoro, in quanto produce valori d’uso, sia l’unica fonte della ricchezza da esso prodotta, ossia della ricchezza materiale. Siccome il lavoro è l’attività svolta per adattare il materiale a questo o a quello scopo, il lavoro ha bisogno della materia come presupposto. In valori d’uso differenti la proporzione fra lavoro e materia naturale è molto differente, pure il valore d’uso contiene un sostrato naturale. Come attività conforme allo scopo di adattare l’elemento naturale in una forma o nell’altra, il lavoro è condizione naturale dell’esistenza umana, è una condizione del ricambio organico fra uomo e natura. Il lavoro che crea valore di scambio è per contro una forma specificamente sociale del lavoro. Il lavoro del sarto ad esempio, nella sua proprietà materiale di particolare attività produttiva, produce l’abito, ma non il valore di scambio dell’abito. Quest’ultimo lo produce non in quanto lavoro di sarto, bensì in quanto lavoro astrattamente umano, e questo rientra in un nesso sociale che non è stato infilato dal sarto. In questo modo, nell’antica industria domestica le donne producevano l’abito, senza produrre il valore di scambio dell’abito. Il lavoro come fonte di ricchezza materiale era noto tanto a Mosè legislatore quanto all’impiegato di dogana Adam Smith.
La grandezza di valore di una merce non risente del fatto che all’infuori di essa esistano poche o molte merci di altra specie. Ma che la serie delle equazioni in cui il suo valore di scambio si attua, sia maggiore o minore, dipende dalla maggiore o minore varietà di altre merci. La serie delle equazioni in cui si esprime per esempio il valore del caffè esprime la sfera della sua scambiabilità, i limiti entro i quali funziona da valore di scambio. Al valore di scambio di una merce in quanto oggettivazione del tempo di lavoro generale sociale corrisponde l’espressione dell’equivalenza della merce in valori d’uso infinitamente differenti.
Abbiamo visto che il valore di scambio di una merce varia con il variare della quantità del tempo di lavoro contenuto in essa. Il suo valore realizzato, ossia espresso nei valori d’uso di altre merci, deve a sua volta dipendere dalla proporzione in cui varia il tempo di lavoro impiegato nella produzione di tutte le altre merci. Se ad esempio rimanesse uguale il tempo di lavoro necessario alla produzione di un moggio di grano, mentre il tempo di lavoro necessario alla produzione di tutte le altre merci raddoppiasse, il valore di scambio del moggio di grano, espresso nei suoi equivalenti, sarebbe diminuito della metà. Praticamente il risultato sarebbe uguale a quello che si avrebbe se il tempo di lavoro necessario alla produzione del moggio di grano fosse diminuito della metà e il tempo di lavoro necessario alla produzione di tutte le altre merci fosse rimasto invariato. Il valore delle merci è determinato dalla proporzione in cui possono essere prodotte entro il medesimo tempo di lavoro. Per vedere a quali possibili variazioni sia esposta questa proporzione, poniamo il caso di due merci, A e B. Primo: supponiamo che il tempo di lavoro richiesto per la produzione di B rimanga invariato. In questo caso il valore di scambio di A, espresso in B, diminuisce o aumenta nella stessa proporzione in cui diminuisce o aumenta il tempo di lavoro necessario per la produzione di A. Secondo: Il tempo di lavoro richiesto per la produzione di A rimanga invariato. Il valore di scambio di A, espresso in B, diminuisce o aumenta nella proporzione inversa della diminuzione o dell’aumento del tempo di lavoro richiesto per la produzione di B.Terzo: Il tempo di lavoro richiesto per la produzione di A e B diminuisca o aumenti nella medesima proporzione. In tal caso l’espressione di equivalenza di A in B rimarrà invariata. Se a causa di una circostanza qualsiasi la forza produttiva di tutti i lavori diminuisse nella stessa misura, di modo che tutte le merci richiedessero in ugual proporzione un aumento del tempo di lavoro necessario alla loro produzione, sarebbe salito il valore di tutte le merci, l’espressione reale del loro valore di scambio sarebbe rimasta invariata, e la ricchezza reale della società sarebbe diminuita, poichè quest’ultima avrebbe bisogno di un tempo di lavoro maggiore per creare la medesima massa di valori d’uso. Quarto: Il tempo di lavoro richiesto per la produzione di A e B aumenti o diminuisca per entrambi, ma in grado disuguale, oppure aumenti il tempo di lavoro necessario per A mentre diminuisca quello per B, o viceversa. Tutti questi casi possono essere ridotti semplicemente al fatto che il tempo di lavoro richiesto per la produzione di una merce rimane invariato, mentre quello delle altre aumenta o diminuisce.
Il valore di scambio di ogni merce si esprime nel valore d’uso di ogni altra merce, sia in unità di questo valore o in sue frazioni. In quanto valore di scambio, ogni merce è altrettanto divisibile quanto lo stesso tempo di lavoro che in essa è oggettivato. L’equivalenza delle merci è indipendente dalla loro divisibilità come valori d’uso, allo stesso modo che per l’addizione dei valori di scambio delle merci non ha importanza quale reale mutamento di forma subiscano i valori d’uso di queste merci nella loro rifusione in una sola merce nuova.
Finora la merce è stata considerata da un duplice punto di vista, come valore d’uso e come valore di scambio, entrambe le volte unilateralmente. Ma come merce essa è immediatamente unità di valore d’uso e di valore di scambio; allo stesso tempo è merce soltanto in relazione alle altre merci. L’effettiva relazione reciproca delle merci è il loro processo di scambio. E’ questo un processo sociale che gli individui stabiliscono indipendentemente l’uno dall’altro, ma lo stabiliscono soltanto come possessori di merci; la loro vicendevole esistenza dell’uno per l’altro è l’esistenza delle loro merci, e perciò in realtà non si presentano che come titolari consapevoli del processo di scambio.
La merce è valore d’uso, grano, tela, diamante, macchina, ecc., ma come merce allo stesso tempo non è valore d’uso. Se pel suo possessore fosse valore d’uso, ossia mezzo immediato per il soddisfacimento dei suoi bisogni, non sarebbe merce. Per lui la merce è invece non valore d’uso, cioè semplicemente depositario materiale del valore di scambio ossia semplice mezzo di scambio; come depositario attivo del valore di scambio, il valore d’uso diventa mezzo di scambio. Per il possessore la merce, è ormai valore d’uso soltanto in quanto valore di scambio [12] . Valore d’uso essa deve quindi cominciar a divenire, in primo luogo per altri. Siccome non è valore per il suo possessore, è valore d’uso per i possessori di altre merci. Se non lo è, il lavoro del possessore è stato inutile, il suo risultato quindi non è merce. D’altra parte, deve diventare valore d’uso per lui stesso, poichè al di fuori di essa, nei valori d’uso di merci altrui, esistono i suoi mezzi di sussistenza. Per diventare valore d’uso la merce deve trovarsi di fronte quel particolare bisogno pel quale essa è oggetto di soddisfacimento. I valori d’uso delle merci diventano quindi valori d’uso cambiando posto in tutte le direzioni, passando dalla mano in cui sono mezzi di scambio alla mano in cui sono oggetti d’uso. Solo mediante questa generale alienazione delle merci, il lavoro in esse contenuto diventa lavoro utile. In questo progressivo riferirsi delle merci l’una all’altra in quanto valori d’uso, esse non acquisiscono alcuna nuova determinazione di forma economica. Scompare, anzi, la determinazione formale che le caratterizzava come merci. Il pane, ad esempio, passando dalla mano del fornaio in quella del consumatore, non muta la propria esistenza come pane. Viceversa, il consumatore è il primo che vi si riferisca come a valore d’uso, come a quel determinato mezzo alimentare, mentre nella mano del fornaio il pane era l’espressione di un rapporto economico, una cosa sensibilmente extrasensibile. L’unico mutamento formale, che le merci subiscono nel loro divenire come valori d’uso, è dunque l’abolizione della loro esistenza formale, in cui erano non valore d’uso per il loro possessore, valore d’uso per il loro non-possessore. Il divenire delle merci come valori d’uso presuppone la loro generale alienazione, il loro entrare nel processo di scambio, ma la loro esistenza per lo scambio è la loro esistenza come valori di scambio. Per attuarsi quindi come valori d’uso, devono attuarsi come valori di scambio.
Se, dal punto di vista del valore d’uso, la singola merce in origine ci appariva come cosa autonoma, come valore di scambio era invece considerata fin da principio in relazione a tutte le altre merci. Questa relazione era però solo una relazione teorica, ideale. Solo nel processo di scambio essa si attua. D’altra parte, la merce è bensì valore di scambio in quanto in essa è consumata una determinata quantità di tempo di lavoro ed in quanto essa è quindi tempo di lavoro oggettivato. Ma, in modo immediato, è soltanto tempo di lavoro oggettivato individuale, di contenuto particolare, non è tempo di lavoro generale. Perciò non è valore di scambio in modo immediato, bensì deve divenire tale. In un primo tempo non può essere che oggettivazione del tempo di lavoro generale, alla maniera in cui esprime il tempo di lavoro in una determinata applicazione utile, dunque in un valore d’uso. Era questa la condizione materiale alla quale soltanto il tempo di lavoro contenuto nelle merci era presupposto come tempo di lavoro generale, sociale. Se dunque la merce può divenire, come valore d’uso, soltanto attuandosi come valore di scambio, d’altra parte può attuarsi come valore di scambio soltanto affermandosi come valore d’uso al momento della sua alienazione. Una merce può essere ceduta come valore d’uso solo a colui pel quale essa è valore d’uso, ossia oggetto di un particolare bisogno. D’altra parte la merce viene ceduta solo in cambio di un’altra merce, ossia, ponendoci dalla parte del possessore dell’altra merce, anche costui può alienare la sua merce, realizzata, soltanto mettendola in contatto con il particolare bisogno di cui essa sia l’oggetto. Nell’alienazione generale delle merci come valori d’uso, esse vengono riferite l’una all’altra a seconda della loro disparità materiale, in quanto cose particolari, le quali in virtù delle loro qualità specifiche soddisfano particolari bisogni. Ma in quanto tali semplici valori d’uso, le merci sono esistenze indifferenti l’una per l’altra, sono anzi prive di reciproche relazioni. In quanto valori d’uso possono essere scambiate soltanto in relazione a particolari bisogni. Ma sono scambiabili solo come equivalenti, e sono equivalenti solo come uguali quantitativi di tempo di lavoro oggettivato, cosicchè ogni considerazione delle loro qualità naturali come valori d’uso, e quindi del rapporto delle merci con particolari bisogni, è cancellata. Come valore di scambio una merce funziona invece sostituendo come equivalente una quantità comunque determinata di qualsiasi altra merce, non importa se pel possessore dell’altra merce essa sia valore d’uso o no. Ma per il possessore dell’altra merce essa diventa merce solo in quanto per lui è valore d’uso, e per il proprio possessore diventa valore di scambio solo in quanto è merce per l’altro. Questa relazione sarà quindi relazione delle merci in quanto grandezze essenzialmente uguali, differenti solo quantitativamente, sarà la loro equiparazione come materializzazione del tempo di lavoro generale e sarà allo stesso tempo la loro relazione come cose differenti qualitativamente, come valori d’uso particolari per bisogni particolari, in breve sarà la relazione che le differenzia come reali valori d’uso. Ma questa equiparazione e differenziazione si escludono a vicenda. Così appare non soltanto un circolo vizioso di problemi, presupponendo la soluzione dell’uno la soluzione dell’altro, bensì una somma di esigenze contraddittorie, essendo l’adempimento di una condizione vincolato immediatamente all’adempimento della condizione opposta.
Il processo di scambio delle merci deve essere sia lo svolgimento sia la soluzione di queste contraddizioni che in esso non possono tuttavia essere espresse in questo modo semplice. Abbiamo solo osservato come le merci stesse sono riferite reciprocamente l’una all’altra come valori d’uso, cioè come le merci entro il processo di scambio si presentano come valori d’uso. Il valore di scambio invece, come lo abbiamo considerato sin qui, era presente nella nostra astrazione soltanto, o, se si vuole, nell’astrazione del singolo possessore di merce che ha in magazzino la merce come valore d’uso e l’ha sulla coscienza come valore di scambio. Ma le merci stesse entro il processo di scambio devono esistere l’una per l’altra non soltanto come valori d’uso, bensì come valori di scambio, e questa loro esistenza apparirà come la loro propria relazione reciproca. La difficoltà in cui subito abbiamo inciampato era questa: per potersi esprimere come valore d’uso, come lavoro oggettivato, la merce deve prima essere alienata come valore d’uso, dev’essere spacciata a qualcuno, mentre la sua alienazione come valore d’uso presuppone viceversa la sua esistenza come valore di scambio. Ma poniamo che questa difficoltà sia risolta. Poniamo che la merce si sia disfatta del proprio particolare valore d’uso e alienandolo abbia adempiuto la condizione materiale di essere lavoro socialmente utile invece che lavoro particolare di un uomo singolo per se stesso. Così dovrà poi, nel processo di scambio, come valore di scambio diventare equivalente generale, tempo di lavoro generale oggettivato, per le altre merci ed in tal modo acquisire non più soltanto l’effetto limitato di un particolare valore d’uso, bensì l’immediata capacità di essere espressa in tutti i valori d’uso quali suoi equivalenti. Ma ogni merce è la merce che in questo modo, mediante l’alienazione del proprio particolare valore d’uso, deve presentarsi come materializzazione diretta del tempo di lavoro generale. Ma d’altra parte nel processo di scambio si trovano di fronte soltanto merci particolari, lavori di individui privati, incarnati in particolari valori d’uso. Lo stesso tempo di lavoro generale è un’astrazione che come tale non esiste per le merci.
Le qualità fisiche necessarie della merce particolare, nella quale deve cristallizzarsi l’essere denaro di tutte le merci, per quanto derivino direttamente dalla natura del valore di scambio, sono la divisibilità a piacere, l’uniformità delle parti e la identicità in tutti gli esemplari di questa merce. Come materializzazione del tempo di lavoro generale, questa merce deve essere materializzazione uniforme e capace di esprimere differenze puramente quantitative. L’altra qualità necessaria è la durevolezza del suo valore d’uso poichè la merce deve durare entro il processo di scambio. I metalli nobili posseggono queste qualità in misura eminente. Siccome il denaro non è un prodotto di una riflessione o di un accordo, ma è formato quasi istintivamente nel processo di scambio, merci differenti più o meno inadatte, si sono alternate nella funzione di denaro. La necessità subentrante a un determinato grado dello sviluppo del processo di scambio, di distribuire polarmente sulle merci le determinazioni di valore di scambio e di valore d’uso in modo che una merce ad esempio figuri come mezzo di scambio, mentre l’altra è alienata come valore d’uso, comporta che dappertutto la merce o anche più merci del più generale valore d’uso abbiano in un primo momento per caso la funzione di denaro. Qualora non siano oggetto di un bisogno esistente direttamente, la loro esistenza come componente più importante della ricchezza dal punto di vista materiale, assicura ad esse un carattere più generale di quel che abbiano gli altri valori d’uso.
Il commercio di scambio immediato, forma spontanea del processo di scambio, rappresenta piuttosto l’iniziale trasformazione dei valori d’uso in merci che non quella delle merci in denaro. Il valore di scambio non acquisisce forma libera, è bensì ancora vincolato direttamente al valore d’uso. Questo risulta in due modi. La produzione stessa in tutta la sua costruzione è diretta al valore d’uso, non al valore di scambio, ed è quindi soltanto per l’eccedenza sulla misura in cui i valori d’uso sono richiesti per il consumo, che essi cessano qui di essere valori d’uso e diventano mezzi di scambio, merce. D’altra parte, diventano propriamente merci solo entro i limiti del valore d’uso diretto, sia pure distribuito polarmente, cosicchè le merci da scambiarsi dai possessori devono essere per entrambi valori d’uso, ma ognuna di esse dovrà essere valore d’uso per il suo non-possessore. In realtà, il processo di scambio delle merci in origine non si presenta in seno alle comunità naturali e spontanee, bensì là dove queste finiscono, ai loro confini, nei pochi punti in cui entrano in contatto con altre comunità. Qui ha inizio il commercio di scambio e da qui si ripercuote sull’interno della comunità, con un’azione disgregatrice. I particolari valori d’uso che nel commercio di scambio fra le diverse comunità diventano merci, come lo schiavo, il bestiame, i metalli, costituiscono quindi per lo più il primo denaro in seno alle comunità stesse. Abbiamo visto come il valore di scambio di una merce si esprima come valore di scambio in un grado tanto più elevato quanto più lunga è la serie dei suoi equivalenti o quanto maggiore è la sfera dello scambio per quella merce. La graduale estensione del commercio di scambio, l’aumento degli scambi e la moltiplicazione delle merci entranti nel commercio di scambio, evolvono quindi la merce in quanto valore di scambio, sollecitano la formazione del denaro e esplicano con ciò un’azione dissolvitrice sul commercio di scambio diretto. Gli economisti sono soliti derivare il denaro dalle difficoltà esterne in cui si imbatte il commercio di scambio ampliatosi, ma così facendo dimenticano che queste difficoltà derivano dallo sviluppo del valore di scambio e quindi risalgono al lavoro sociale quale lavoro generale. Per esempio: le merci, in qualità di valori d’uso, non sono divisibili a piacere, come devono esserlo in qualità di valori di scambio. Oppure, la merce di A può essere valore d’uso per B, mentre la merce di B non è valore d’uso per A. Oppure, i possessori delle merci possono aver bisogno delle loro merci indivisibili, da scambiarsi a vicenda, in proporzioni di valore ineguali. In altre parole, con il pretesto di considerare il commercio di scambio semplice, gli economisti si rendono conto di certi lati della contraddizione avvolta nell’esistenza della merce come unità immediata di valore d’uso e valore di scambio. D’altra parte tengono fermo, coerentemente, al commercio di scambio come forma adeguata del processo di scambio delle merci, il quale sarebbe semplicemente legato a certi disagi tecnici pei quali il denaro sarebbe una via d’uscita intelligentemente escogitata. Da questo punto di vista, del tutto superficiale, un intelligente economista inglese ha quindi sostenuto giustamente che il denaro è uno strumento puramente materiale, come una nave o una macchina a vapore, ma non è l’espressione di un rapporto di produzione sociale e quindi non è una categoria economica. Soltanto abusivamente è trattato quindi nella economia politica, la quale infatti non ha nulla in comune con la tecnologia.
Nel mondo delle merci è presupposta una sviluppata divisione del lavoro, ossia quest’ultima si esprime, piuttosto, direttamente nella molteplicità dei valori d’uso che si stanno dinanzi come merci particolari e nei quali sono incorporati modi di lavoro altrettanto molteplici. La divisione del lavoro, in quanto totalità di tutti i modi particolari dell’occupazione produttiva, è la figura complessiva del lavoro solidale considerato nel suo lato materiale, considerato come lavoro che produce valori d’uso. Ma come tale la divisione del lavoro esiste, dal punto di vista delle merci e entro il processo di scambio, soltanto nel suo risultato, nella particolarizzazione delle merci stesse.
Lo scambio delle merci è il processo entro il quale il ricambio sociale, ossia lo scambio dei particolari prodotti di individui privati, è allo stesso tempo creazione di determinati rapporti della produzione sociale, nei quali gli individui entrano in questo ricambio. Le relazioni progressive fra le merci nei confronti dell’una con l’altra si cristallizzano come determinazioni differenziate dell’equivalente generale, e in tal modo il processo di scambio è allo stesso tempo processo di formazione del denaro. L’insieme di questo processo, che appare come il decorso di processi differenti, è la circolazione.
Tale analisi venne ripresa da Marx nel Capitale. A prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia, scrisse nel Capitale. Dalla sua analisi, risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. Finché è valore d’uso, non c’è nulla di misterioso in essa, sia che la si consideri dal punto di vista che soddisfa, con le sue qualità, bisogni umani, sia che riceva tali qualità soltanto come prodotto di lavoro umano. E’ chiaro come la luce del sole che l’uomo con la sua attività cambia in maniera utile a se stesso le forme dei materiali naturali. P. es. quando se ne fa un tavolo, la forma del legno viene trasformata. Ciò non di meno, il tavolo rimane legno, cosa sensibile e ordinaria. Ma appena si presenta come merce, il tavolo si trasforma in una cosa sensibilmente sovrasensibile. Non solo sta coi piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, si mette a testa in giù, e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare.
Dunque, il carattere mistico della merce non sorge dal suo valore d’uso. E nemmeno sorge dal contenuto delle determinazioni di valore. Poiché: in primo luogo, per quanto differenti possano essere i lavori utili o le operosità produttive, è verità fisiologica ch’essi sono funzioni dell’organismo umano, e che tutte tali funzioni, quale si sia il loro contenuto e la loro forma, sono essenzialmente dispendio di cervello, nervi, muscoli, organi sensoriali, ecc. umani. In secondo luogo, per quel che sta alla base della determinazione della grandezza di valore, cioè la durata temporale di quel dispendio, ossia la quantità del lavoro: la quantità del lavoro è distinguibile dalla qualità in maniera addirittura tangibile. In nessuna situazione il tempo di lavoro che costa la produzione dei mezzi di sussistenza ha potuto non gli uomini, benché tale interessamento non sia uniforme nei vari gradi di sviluppo. Infine, appena gli uomini lavorano in una qualsiasi maniera l’uno per l’altro, il loro lavoro riceve anche una forma sociale. Di dove sorge dunque il carattere enigmatico del prodotto di lavoro appena assume forma di merce? Evidentemente, proprio da tale forma. L’eguaglianza dei lavori umani riceve la forma reale di eguale oggettività di valore dei prodotti del lavoro, la misura del dispendio di forza-lavoro umana mediante la sua durata temporale riceve la forma di grandezza di valore dei prodotti del lavoro, ed infine i rapporti fra i produttori, nei quali si attuano quelle determinazioni sociali dei loro lavori, ricevono la forma d’un rapporto sociale dei prodotti del lavoro. L’arcano della forma di merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma rimanda agli uomini come uno specchio i caratteri sociali del loro proprio lavoro trasformati in caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, in proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi rispecchia anche il rapporto sociale fra . Ci si ricorda che la Cina e i tavolini cominciarono a ballare quando tutto il resto del mondo sembrava fermo – pour encourager les autres. .
Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose sensibilmente sovrasensibili cioè cose sociali. Proprio come l’impressione luminosa di una cosa sul nervo ottico non si presenta come stimolo soggettivo del nervo ottico stesso, ma quale forma oggettiva di una cosa al di fuori dell’occhio. Ma nel fenomeno della vista si ha realmente la proiezione di luce da una cosa, l’oggetto esterno, su un’altra cosa, l’occhio: è un rapporto fisico fra cose fisiche. Invece la forma di merce e il rapporto di valore dei prodotti di lavoro nel quale essa si presenta non ha assolutamente nulla a che fare con la loro natura fisica e con le relazioni fra cosa e cosa che ne derivano.
Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato fra gli uomini stessi. Quindi, per trovare un’analogia, dobbiamo involarci nella regione nebulosa del mondo religioso. Quivi, i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini. Così, nel mondo delle merci, fanno i prodotti della mano umana. Questo io chiamo il feticismo che s’appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci.
Come l’analisi precedente ha già dimostrato, tale carattere feticistico del mondo delle merci sorge dal carattere sociale peculiare del lavoro che produce merci. Gli oggetti d’uso diventano merci, in genere, soltanto perché sono prodotti di lavori privati, eseguiti indipendentemente l’uno dall’altro. Il complesso di tali lavori privati costituisce il lavoro sociale complessivo. Poiché i produttori entrano in contatto sociale soltanto mediante lo scambio dei prodotti del loro lavoro, anche i caratteri specificamente sociali dei loro lavori privati appaiono soltanto all’interno di tale scambio. Ossia, i lavori privati effettuano di fatto la loro qualità di articolazioni del lavoro complessivo sociale mediante le relazioni nelle quali lo scambio pone i prodotti del lavoro e, attraverso i prodotti stessi, i produttori. Quindi a questi ultimi le relazioni sociali dei loro lavori privati appaiono come quel che sono, cioè, non come rapporti immediatamente sociali fra persone nei loro stessi lavori, ma anzi, come rapporti materiali fra persone e rapporti sociali fra le cose.
Solo all’interno dello scambio reciproco i prodotti di lavoro ricevono un’oggettività di valore socialmente eguale, separata dalla loro oggettività d’uso, materialmente differente. Questa scissione del prodotto del lavoro in cosa utile e cosa di valore si effettua praticamente soltanto appena lo scambio ha acquistato estensione e importanza sufficienti affinchè cose utili vengano prodotte per lo scambio, vale a dire affinché nella loro stessa produzione venga tenuto conto del carattere di valore delle cose. Da questo momento in poi i lavori privati dei produttori ricevono di fatto un duplice carattere sociale. Da un lato, come lavori utili determinati, debbono soddisfare un determinato bisogno sociale, e far buona prova di sè come articolazioni del lavoro complessivo, del sistema naturale spontaneo della divisione sociale del lavoro; dall’altro lato, essi soddisfano soltanto i molteplici bisogni dei loro produttori, in quanto ogni lavoro privato, utile e particolare è scambiabile con ogni altro genere utile di lavoro privato, e quindi gli è equiparato. L’eguaglianza di lavori differenti può consistere soltanto in un far astrazione dalla loro reale diseguaglianza, nel ridurli al carattere comune che essi posseggono, di dispendio di forza-lavoro umana, di lavoro astrattamente umano. Il cervello dei produttori privati rispecchia a sua volta questo duplice carattere sociale dei loro lavori privati, nelle forme che appaiono nel commercio pratico, nello scambio dei prodotti, quindi rispecchia il carattere socialmente utile dei loro lavori privati, in questa forma: il prodotto del lavoro deve essere utile, e utile per altri, e rispecchia il carattere sociale dell’eguaglianza dei lavori di genere differente nella forma del carattere comune di valore di quelle cose materialmente differenti che sono i prodotti del lavoro.
Gli uomini dunque riferiscono l’uno all’altro i prodotti del loro lavoro come valori, non certo per il fatto che queste cose contino per loro soltanto come puri involucri materiali di lavoro umano omogeneo. Viceversa. Gli uomini equiparano l’un con l’altro i loro differenti lavori come lavoro umano, equiparando l’uno con l’altro, come valori, nello scambio, i prodotti eterogenei. Non sanno di far ciò, ma lo fanno. Quindi il valore non porta scritto in fronte quel che è. Anzi, il valore trasforma ogni prodotto del lavoro in un geroglifico sociale. In seguito, gli uomini cercano di decifrare il senso del geroglifico, cercano di penetrare l’arcano del loro proprio prodotto sociale, poiché la determinazione degli oggetti d’uso come valori è loro prodotto sociale quanto il linguaggio. La tarda scoperta scientifica che i prodotti di lavoro, in quanto son valori, sono soltanto espressioni materiali del lavoro umano speso nella loro produzione, fa epoca nella storia dello sviluppo dell’umanità, ma non disperde affatto la parvenza oggettiva dei carattere sociale del lavoro. Quel che è valido soltanto per questa particolare forma di produzione, la produzione delle merci, cioè che il carattere specificamente sociale dei lavori privati indipendenti l’uno dall’altro consiste nella loro eguaglianza come lavoro umano e assume la forma del carattere di valore dei prodotti di lavoro, appare cosa definitiva, tanto prima che dopo di quella scoperta, a coloro che rimangono impigliati nei rapporti della produzione di merci: cosa definitiva come il fatto che la scomposizione scientifica dell’aria nei suoi elementi ha lasciato sussistere nella fisica l’atmosfera come forma corporea.”
Implicazioni teoriche e politiche. Come emerge dalle parole di Marx, ciò che distingue in modo radicale il pensiero di Marx da quello dei neoclassici, compreso il nostro attuale presidente del consiglio, è che mentre per gli economisti neoclassici il capitale è un insieme di mezzi di produziome oppure una somma di denaro, per Marx il capitale è prima di tutto un rapporto sociale. Ne deriva che non è possibile alcuna riforma dall’interno del capitalismo finché non sarà abolita la proprietà privata dei mezzi di produzione e scambio.