domenica 26 febbraio 2017

Alle origini della crisi attuale 2

RISORGIMENTO COME RIVOLUZIONE MANCATA Piero Gobetti aveva venticinque anni quando nel 1926 morì a Parigi vittima di una aggressione fascista. Lasciò la giovane moglie, Ada; un figlio piccolo Paolo e un libro, “La rivoluzione liberale” che era stato pubblicata da Gobetti nell’aprile del 1924. (Spriano) Il fascismo era al potere da un anno e mezzo. Il libro di Gobetti è un capolavoro di polemica politica. Le sue definizioni sono folgoranti. “Il fascismo è l’autobiografia della nazione… Il nostro antifascismo prima che un’ideologia è un istinto…”I suoi giudizi sono senza appello: “Gli scrittori del liberalismo”, scrive,“non hanno saputo fare i loro conti con il movimeno operaio…Lo schema dominante anche dei sedicenti liberali si appagò di uno sterile sogno di unità sociale e non volle riconoscere altri valori… Il Croce ubbidiva a unalogica conservatrice e prescindeva da ogni esperienza pratica”.E, a proposito dei socialisti, scrive: “Il marxismo, dottrina della iniziativa popolare diretta, preparazione di un’aristocrazia operaia capace, nell’esperimento della lotta quotidiana, di promuovere l’ascensione delle classi lavoratrici è stato ripensato in Italia con qualche originalità soltanto da pochi solitari come Antonio Labriola e Rodolfo Mondolfo L’esperimento torinese dell’Ordine nuovo fu la sola iniziativa di popolo alimentata dal marxismo”. Le sue analisi sono taglienti: “Il suffragio universale e la rappresentazione roporzionale [da realizzarsi con un ariforma del sistema elettorale] avrebbero potuto, esperiementati spregiudicatamente, preparare un’atmosfera di serenità per l’affermarsi di queste discussioni di queste esigenze [Gobetti si riferisce alla riforma di cui sopra]. Invece, il liberalismo non seppe dare la parola d’ordine alle forze nuove: gli industriali parvero costituire una banda misteriosa con nascoste funzioni sacerdotali…”. La sua narrazion è fluida: “Dopo il 1870 il partito liberale, risultante delle debolezze teoriche ed obbiettive sin qui descritte, è svuotato della sua funzione innovatrice perché privo di una dominante passione libertaria e si riduce a partito di governo… La pratica giolittiana fu liberale solo in questo senso conservatore, e la politica collaborazionista non salvava il liberalismo ma le istituzioni, tenendo conto non del movimento operaio ma dello spirito piccolo-borghese del partito socialista”. I suoi ritratti sono magistrali. Ecco come Gobetti descrive Gramsci: “La preparazione e la fisionomia di Antonio Gramsci apparivano profondamente diverse da queste tradizioni [Gobetti si riferisce al socialismo torinese dell'inizo del Novecento] già negli anni in cui egli compiva i suoi studi letterari all’università di Torino e si era iscritto al partito socialista, probabilmente per ragioni umanitarie maturate nel pessimismo della sua solitudine di sardo immigrato. Pare venuto dalla campagna per dimenticare le sue tradizioni, per sostituire l’eredità malata dell’anacronismo sardo con uno sforzo chiuso e inesorabile verso la modernità del cittadino. Porta nella persona fisica il segno di questa rinuncia alla vita dei campi e la sovrapposizione quasi violenta d’un programma costruito e ravvivato dalla forza della disperazione, dalla necessità spirituale di chi ha respinto e rinnegato l’innocenza nativa. La sua ricostruzione storica del Risorgimento è effettuata attraverso penetranti insights: “Il motivo vitale del federalismo si ebbe nella critica di Cattaneo, il solo realista tra tanti romanntici e teorici. La fisionomia speculativa di Cattaneo si rivela tutta in una professione di cultura… L’impopolarità del Cattaneo derivava necessariamente dallo spirito della sua polemica e constatava il tramomto del nazionalismo…La sua filosofia è la prova che la originalità speculativa italiana si suol eaffermare dopo le parentesi di misticismo, nel riconoscere i valori più gelosi della personalità. La sua finezza è attestata dal suo atteggiamento antiromantico, libero da ogni peccato di sensismo. Il suo rigorismo morale, dall’opposizione inesorabile contro i demagogismi unitari e le illusioni patriottiche”. E, a proposito di Cavour, scrive: “Fu gran ventura per un popolo che non sapeva distinguere fra Cattaneo e il giobertismo, che si trovasse a uidarlo Cavour, il Cattaneo della diplomazia, che seppe evitare l’isterilirsi della rivoluzione in una tirannide… Il ministro piemontese sovrasta i suoi contemporanei perchè guarda gli stessi problemi con gli occhi dell’uomo di stato”. Genio della diplomazia, la cui “singolare virtù”era “la franchezza della sua astuzia”, Cavour seppe “incominciare il ocesso moderno di una rivoluzione liberale, pur disponendo soltanto di un esercito e di una dinastia… La libertà economica fu il perno educativo su cui egli impostò la sua azione popolare…Il liberismo di Cavour mirava a far entrare nella vita nazionale nuove forze operose”.. L’opera riformatrice di Cavour era, però, destinta a infrangersi contro lo scoglio della cultura politica italiana che non era liberale, ma individualistica e che si oppose alla vitalità della libera iniziativa. In questo quadro, ì scrive Gobetti, “il trasformismo di Depretis fu l’espressione più evidente di un’Italia che si pasceva di conciliazioni e di unanimità e non riusciva ad affrontare i terribili doveri della fondazione dello stato…Solo una pronta soluzione del problema elettorale e del problema burocratico avrebbe potuto porre rimedio a questa situazione parassitaria; ma non si osava discorrere di autonomie regionali per non compromettere l’unità e si voleva mantenere il diritto elettorale a una ristretta oligarchia. Quando gli italiani furono stanchi delle astu zie e delle lusinghe di Depretis si abbandonarono alle facili seduzioni della megalomania di Crispi, e nel fallimento africano tutta la nazione fu compromessa”. A quel punto, entrò in scena Giolitti. “Con Giolitti, la ripresa dei metodi di governo di Depretis ha una serietà nuova”, scrive Gobetti. Malgrado ciò, Giolitti era un uomo di stato e “l’uomo di stato riconosce il suocompito nel creare un’atmosfera di tolleranza nei confronti dei conflitti sociali” che permise all’Italia dieci anni di “pace sociale di onestaamministrazione” che finirono con la guerra mondiale. “La guerra mondiale”, nota Gobetti, “ci coglie im piena crisi unitaria e interrompe ascesi di ordinaria amministrazione e di serietà economica a cui il giolittismo ci aveva iniziati”. La sua individuazione delle cause del fallimento dell’Italia liberale è impeccabile: “Il liberalismo perdette la sua efficacia perché si dimostrò incapace di intendere il problema dell’unità… Il socialismo rivelò la povertà delle sue attitudini nel momento della realizzazione, ed espresse in Turati la sua impotenza di partito di governo. Accettò l’eredità della corrotta democrazia invece di mantenersi coerente a una logica rivoluzionaria. Rivoluzionari furono in Italia solo i coministi che agitando il mito di Lenin videro nella rivoluzione il cimento della capacità politica delle classi lavoratrici”. Per Gobetti, “c’era implicita nel movimento socialista, fuori degli astratti programmi di socializzazione, la possibilità di una nuova economia che risolvesse finalmente l’antinomia insolubile della politica economica italiana: protezionismo-libero scambio. Il consiglio di fabbrica poteva ssere il punto di partenza di un’economia nuova”. 7 Non fu così. L’esperienza dei consigli di fabbrica fallì. Gobetti non escludeva, tuttavia, che “un movimento operaio intransigente contro tutti i riformismi potrebbe segnare l’inizio della revisione e offrire i quadri per la lotta inevitabile… Ora”, conclude,”è nostra ferma convinzione che l’ardore e lo spirito di iniziativa che portarono gli operai all’occupazione delle fabbriche non possano considerarsi spenti persempre”.Occorsero vent’anni di fascismo, una guerra mondiale e un numero incalcolato di caduti nella lotta contro il fascismo per creare le condizioni che rendesseor possibile la rinascita di quello spirito d’iniziativa. LA GUERRA CIVILE EUROPEA Nel 1917 il comunismo va al potere in Russia. L'Occidente reagisce. Arma Denikin, Kolciack e gli altri egenerali bianchi Scoppia la guerra civile europea (Nolte) che poi proseguirà nella guerra frùùedda [Lewis Gaddis, Fontaine, Bongiovanni, a, b. Benvenuti, Traverso]. Tre furono le sue caratteristiche principali: oscurò qualunque rivalità che non fosse quella esitente fra capitalismo e comunismo; congelò la situazione politica internazionale; riempì il mondo d’armi atomiche in nome della teoria della deterrenza che trovò la sua formulazione più compiuta nella teoria della Mutually Assured Destruction La teoria della MAD eliminò la possibilità dello scoppio d’una guerra fra le due superpotenze, ma alimentò, nello stesso tempo, una nutrita serie di “guerre per procura” che insanguinarono il Terzo mondo. Inoltre possibiliyl A queste “guerre per procura”, vanno aggiunte: la guerra di Corea, la guerra di Indocina, la guerra d’Algeria, la guerra del Vietnam. (Black, Di Nolfo, Bobbio). Gli anni del secondo dopoguerrra conobbero elevati tassi di occupazione, moderati tassi di inflazione, alti tassi di crescita acompagnati da un notevole miglioramento del tenore di vita delle loro popolazioni [Kidron, Postan, Aldcroft, Glyn]. Questo fatto creò un clima di generalizzato ottimismo che favorì la creazione del mito economico della “crescita senza fine” [Vedi Appendice]. Gli anni della Guerra fredda furono, inoltre, gli anni nei quali vennero gettate le fondamenta sulle quali venne costruita l’Unione Europea (UE): settembre del 1950, istituzione della Unione europea dei pagamenti (UEP); aprile del 1951, costituzione della Comunità del carbone e dell’acciaio (CECA); maggio del 1952, firma del trattato istitutivo della Comunità europea di difesa (CED) che costituì, come scrisse Martin Gilbert, “la più ampia cessione di sovranità fatta dai paesi dell’Europa occidentale fino al trattato di Maastricht nel 1992″; marzo del 1957 firma del trattato di Roma che istituì la Comunità economica europea [Gilbert]. Il mito della crescita senza fine crollò quando scoppiò la "crisi fiscale dello stato (O'Connor). Juergen Habermas parlò di ricostruzione del materrislismo storicio In questo quadro, va inserita la vicenda italiana. MIRACOLO E CRISI Come scrisse lo storico inglese, Paul Ginsborg, “Italy in the mid 1950s was still in many respects an underveloped country. Its industrial sectors could boast of some advanced elements in the production of steel, cars, electrical energy and artificial fibres, but these were limited both geographically and in their weight in national economy as a whole”, [Ginsborg]. Dieci anni dopo, l’Italia era “in many respects” un paese sviluppato (Salvati). Che cos’era accaduto? Era accaduto che gli italiani avevano imparato a sfruttare le proprie risorse, le quali erano le proprie braccia e la propria inventiva. Il segreto del “miracolo economico” è riconducibile ad una combinazione fortuita di bassi salari, di esportazioni basate su prodotti a tecnologia matura e di inventiva [Graziani]. LA RICOSTRUZIONE Il conpito del momento era ricostruire, come? Le classi dirigenti non avevano dubbi Occorreva ritornaretorno allo status aquo imponrva una rigida politica di deflzione imposta al fatto cje l0inflazuie aveva raggiunto il pnto critico (De Cecco). La manovra deflazionistica di Einaudi, allora ministro, suscitò, come notò Hirschman nell’articolo citato, le critiche sia degli industriali che dei sindacati. La teoria del “momento critico” si basava, infatti, come dimostrò Giorgio Fuà, in un articolo pubblicato su “Critica economica”, su un puro e semplice sofisma, ovvero, sull’uso improprio d’una formula aritmetica, che Fuà smontò in punta di logica economica [Fuà, a]. Luigi Einaudi, rispose ai suoi critici, con un articolo sul “Corriere della sera” del 19 ottobre 1947 intitolato “Il sofisma”. Nell’articolo, dopo aver ricordato il “baccano sorto attorno alla cosiddetta restrizione del credito”, Einaudi sottolineava che la manovra era stata annunciata con largo anticipo e che le banche avevano avuto modo di adeguarsi anticipatamente ad essa. [Einaudi b]. La verità è, come Pasquale Saraceno affermò in una intervista rilasciata nel 1977, che, considerata la gravità della situazione economica, un’azione monetaria fu certamente necessaria, ma è anche vero che la politica economica del governo fu caratterizzata dalla assenza di qualsiasi obiettivo che non fosse “il ripristino delle strutture preesistenti con le sole modifiche che la guerra aveva imposto” [Saraceno]. In ogni caso, non va dimenticato che la “deflazione einaudiana” fu favorita dall’esclusuousione delle sinistre dal governo, la quale, desiderata dagli Stati Uniti, venne messa puntualmente in atto dal presidente del consiglio, il democristiano Alcide De Gasperi, dopo il suo ritorno da un viaggio compiuto negli Stati Uniti nel mese di gennaio del 1947, a dimostrazione, come scrisse Valerio Castronovo, dello stretto legame esistente fra le opzioni politiche e quelle economiche [Castronovo, a]. IL PIANO DEL LAVORO La Cgil reagì alla politica deflazionistica del governo con il cosiddetto “Piano del lavoro”. Presentato nel corso della Conferenza economica sul Piano del lavoro del 19-20 febbraio 1950, il piano prevedeva, oltre la nazionalizzazione delle industrie elettriche, la creazione di un ente per le bonifiche e altre iniziative dello stesso genere, un nutrito programma di opere pubbliche volte al miglioramento delle attrezzature economiche del paese e alla realizzazione d’un immediato incremento occupazionale. Per quello che riguardava il finanziamento, il piano prevedeva l’utilizzazione di parte delle risorse valutarie esistenti e di parte del fondo costituito come contropartita della vendita di merci del Piano Marshall [Vianello]. Alberto Breglia, nella relazione letta alla conferenza di presentazione del Piano del lavoro, difese le ragioni del piano affermando che “la produzione nel suo svolgimento, se è produzione, trova il suo finanziamento in se stessa”; perciò, volendo, si sarebbe potuto dire che il piano finanziava il piano. Come spiegò, Breglia, “ciascuna attività economica, se è produttiva socialmente genera in seguito una nuova attività economica e questa crea i suoi mezzi di finanziamento attraverso le normali, conosciutissime vie del credito bancario” [Breglia]. Le argomentazioni di Breglia vennero riprese da Antonio Pesenti in un articolo apparso su “Critica economica” nel quale ironizzò nei confronti della “teoria della coperta” evocata dal professor Piero Battara. Come Pesenti spiegò nel suo articolo, il rendito non andava considerato in “senso statico”, ma in “senso dinamico”. Inoltre, aggiunse Pesenti, il problema del finanziamento del piano poteva essere risolto attingendo alle riserve riserve esistenti [Pesenti]. Una dura critica nei confronti della “teoria della coperta” provenne anche da Sergio Steve, il quale spiegò che tale teoria sarebbe stata vera se tutti i fattori della produzione fossero stati occupati, ma questo, aggiunse Steve, non era il caso dell’Italia. Inoltre, affermò Steve, era ora mandare al macero il “feticcio del bilancio in pareggio”. Come spiegò, infatti, Steve, il criterio del pareggio di bilancio non poteva soddisfare le esigenze della economia italiana [Steve]. In termini keynesiani, il Piano del lavoro della Cgil proponeva era di attivare il “moltiplicatore dell’investimento” [Keynes,a]. John M. Keynes, però, non era di casa in Italia [Mori]. La cultura economica italiana era, infatti, neoclassica e rifiutava non solo la concezione keynesiana della spesa pubblica [Vicarelli], ma rifiutava l’idea stessa di piano [Barucci]. In altre parole, la maggioranza degli economisti italiani pensava come Luigi Einaudi che “il modo migliore di fare il bene dello stato non è di fare, di agire direttamente, ma invece l’azione più efficace per l’avanzamento economico e sociale del paese è quella indiretta” [Einaudi c]. Essi, inoltre, pensavano che la pianificazione non potesse funzionare [Vedi Appendice]. Come affermò, infatti, Giuseppe Di Nardi in un saggio pubblicato nel 1947 sul “Giornale degli economisti”, “la pianificazione impostata sulla determinazione quantitativa a priori delle posizioni di equilibrio risulta legata a ipotesi non verificabili” e ciò induceva a pensare che “qualunque tentativo volesse farsi per renderla operante in concreto sarebbe votato all’insuccesso” [Di Nardi]. Critico nei confronti della pianificazione fu pure Agostino Lanzillo, il quale, su “L’industria”, scrisse che “l’illusione di poter pianificare è generalmente diffusa nel mondo moderno ed è fatale all’assetto della società. Essa è il prodotto della prevalenza del razionalismo e del tecnicismo. Se tutto oggi è diretto dalla ragione, perché dovrebbe essere sottratta ad una rigorosa disciplina l’attività economica?” [Lanzillo]. All’incontro, Fernando Di Fenizio, dopo aver notato in un articolo su “L’industria”, che l’economia possedeva due schemi per l’interpretazione del funzionamento dei sistemi economici concreti: lo schema dell’economia di concorrenza e lo schema dell’economia diretta dal centro, chiedeva provocatoriamente se vi fosse ancora qualcuno disposto “a credere che gli economisti liberali sian ciechi adoratori del laissez-faire” . Però, aggiunse Di Fenizio, occorreva stare attenti, perchè “chi ammette una politica contro le variazioni cicliche è implicito debba ammettere ebba cederne altre, contro, ad esempio, le variazioni stagionali. Accettato, infatti, il principio d’una politica economica attiva, ogni elencazione, come ben si comprende, esemplifica: non tronca l’argomento”. In ogni caso, concluse Di Fenizio, occorreva tener distinti quelli interventi che, come aveva spiegato Ropke, erano “conformi” alla economia di mercato da quelli che non erano “conformi” e che la danneggiano, ne pregiudicano il funzionamento, ne neutralizzano i riflessi” [Di Fenizio]. all’intervento dello stato nell’economia era, invece, Alberto Bertolino, il quale, in un articolo su “Il ponte”, dopo aver affermato che occorreva “combattere il dominio capitalistico come uno dei privilegi più lesivi della dignità umana”, scrisse che “la Costituente dovrà proclamare che compete allo stato la funzione di regolamento dell’economia nazionale” [Bertolino]. La Costituente discusse il problema e quello cheuscì dalla discussone fu l’articolo 41: “L’iniziativa privata e libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali” [Ambrosini] – che è cosa molot diversa da quello che prevedeva il cosiddetto “emendamenPer penana”. Recitava l’emendamento Montagnana: “Allo scopo di garantire il diritto al lavoro di tutti i cittadini, lo stato interverrà per coordinare e orientare l’attività produttiva dei singoli e di tutta la Nazione secondo un piano che assicuri il massimo di utilità sociale”.L’emendamento fu discusso dalla Assemblea costituente il 9 maggio 1946. Intervennero nel dibattito: Luigi Einaudi il quale evidenziò la palese incostituzionalità dell’emendamento; Vittorio Foa che era uno dei firmatari dell’emendamento e Ferruccio Parri. Chiuso il dibattito, l’emendamento venne messo ai voti. I votanti furono 418. I voti a favore furono 174, i contrari furono 244.

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