lunedì 29 febbraio 2016

RICORDANDO CON RABBIA-3

Corrado Bevilacqua
Gli anni della speranza





 
Mussolini arrivò a Roma il mattino del 30 ottobre. La sua prima dichiarazione fu che entro poche ore la nazione non avrebbe avuto soltanto un ministero. Avrebbe avuto un governo. Mezz’ora più tardi, Mussolini venne ricevuto dal re al quale si presentò pronunciando la frase: "Maestà, vi porto l’Italia di Vittotio Veneto". Ricevuto l’incarico di formare un nuovo governo di coalizione, Mussolini si mise al lavoro e la sera del 31 ottobre il governo era già formato. Il 16 novembre Mussolini si presentò alla Camera dove pronunciò un discorso nel quale affermò che avrebbe potuto fare di quell’aula "sorda e grigia" un "bivacco" per i suoi manipoli. Non l’aveva fatto, ma, aggiunse, nulla gli poteva impedire di farlo in futuro.


Ottenuta la fiducia con 306 voti a favore e 116 contro, Mussolini, il 24 novembre del 1922, ottenne dalla Camera, con 275 voti a favore e 90 contro, il conferimento dei pieni poteri.
Ciò non era ancora il regime. La svolta verso il regime avvenne tra il 1925 e il 1926. Il punto di svolta può essere individuato nel discorso pronunciato da Mussolini alla Camera il 3 gennaio del 1925 nel corso del quale egli dichiarò di assumersi la responsabilità "storica, politica e morale" dell’assassinio del leader socialista Giacomo Matteotti e sfidava i suoi avversari a chiedere la sua messa in stato d’accusa. L'anno successivo, toccherà a Piero Gobetti. Il suo nome è legato a un libro dal titolo intrigante: la Rivoluzione liberale  


Il libro di Gobetti è un capolavoro di polemica politica.
Le sue definizioni sono folgoranti. "Il fascismo è l’autobiografia della nazione… Il nostro antifascismo prima che un’ideologia è un istinto…"
I suoi giudizi sono senza appello: "Gli scrittori del liberalismo", scrive, "non hanno saputo fare i loro conti con il movimeno operaio…Lo schema dominante anche dei sedicenti liberali si appagò di uno sterile sogno di unità sociale e non volle riconoscere altri valori… Il Croce ubbidiva a una logica conservatrice e prescindeva da ogni esperienza pratica".
E, a proposito dei socialisti, scrive: "Il marxismo, dottrina della iniziativa popolare diretta, preparazione di un’aristocrazia operaia capace, nell’esperimento della lotta quotidiana, di promuovere l’ascensione delle classi lavoratrici è stato ripensato in Italia con qualche originalità soltanto da pochi solitari come Antonio Labriola e Rodolfo Mondolfo… L’esperimento torinese dell’Ordine nuovo fu la sola iniziativa di popolo alimentata dal marxismo".
Le sue analisi sono taglienti: "Il suffragio universale e la rappresentazione proporzionale [da realizzarsi con un ariforma del sistema elettorale] avrebbero potuto, esperiementati spregiudicatamente, preparare un’atmosfera di serenità per l’affermarsi di queste discussioni di queste esigenze [Gobetti si riferisce alla riforma di cui sopra]. Invece, il liberalismo non seppe dare la parola d’ordine alle forze nuove: gli industriali parvero costituire una banda misteriosa con nascoste funzioni sacerdotali…".
La sua narrazion è fluida: "Dopo il 1870 il partito liberale, risultante delle debolezze teoriche ed obbiettive sin qui descritte, è svuotato della sua funzione innovatrice perché privo di una dominante passione libertaria e si riduce a partito di governo… La pratica giolittiana fu liberale solo in questo senso conservatore, e la politica collaborazionista non salvava il liberalismo ma le istituzioni, tenendo conto non del movimento operaio ma dello spirito piccolo-borghese del partito socialista".
I suoi ritratti sono magistrali. Ecco come Gobetti descrive Gramsci: "La preparazione e la fisionomia di Antonio Gramsci apparivano profondamente diverse da queste tradizioni [Gobetti si riferisce al socialismo torinese dell'inizo del Novecento] già negli anni in cui egli compiva i suoi studi letterari all’università di Torino e si era iscritto al partito socialista, probabilmente per ragioni umanitarie maturate nel pessimismo della sua solitudine di sardo immigrato. Pare venuto dalla campagna per dimenticare le sue tradizioni, per sostituire l’eredità malata dell’anacronismo sardo con uno sforzo chiuso e inesorabile verso la modernità del cittadino. Porta nella persona fisica il segno di questa rinuncia alla vita dei campi e la sovrapposizione quasi violenta d’un programma costruito e ravvivato dalla forza della disperazione, dalla necessità spirituale di chi ha respinto e rinnegato l’innocenza nativa. Antonio Gramsci ha la testa di un rivoluzionario; il suo ritratto sembra costruito dalla sua volontà, tagliato rudemente e fatalmente per una necessità intima che dovette essere accettata senza senza discussione; il cervello ha soverchiato il corpo. Il capo dominante sulle membra malate sembra costruito secondo i rapporti logici necessari per un piano sociale… La voce è tagliente come la critica dissolutrice, l’ironia s’avvelna nel sarcasmo, il dogma vissuto con la tirannia della logica toglie la consolazione dell’umorismo…"
La sua ricostruzione storica del Risorgimento è effettuata attraverso penetranti insights: "Il motivo vitale del federalismo si ebbe nella critica di Cattaneo, il solo realista tra tanti romanntici e teorici. La fisionomia speculativa di Cattaneo si rivela tutta in una professione di cultura… L’impopolarità del Cattaneo derivava necessariamente dallo spirito della sua polemica e constatava il tramomto del nazionalismo…La sua filosofia è la prova che la originalità speculativa italiana si suol eaffermare dopo le parentesi di misticismo, nel riconoscere i valori più gelosi della personalità. La sua finezza è attestata dal suo atteggiamento antiromantico, libero da ogni peccato di sensismo. Il suo rigorismo morale, dall’opposizione inesorabile contro i demagogismi unitari e le illusioni patriottiche".
E, a proposito di Cavour, scrive: "Fu gran ventura per un popolo che non sapeva distinguere fra Cattaneo e il giobertismo, che si trovasse a guidarlo Cavour, il Cattaneo della diplomazia, che seppe evitare l’insterilirsi della rivoluzione in una tirannide… Il ministro piemontese sovrasta i suoi contemporanei perché guarda gli stessi problemi con gli occhi dell’uomo di stato". Genio della diplomazia, la cui "singolare virtù" era "la franchezza della sua astuzia", Cavour seppe "incominciare il processo moderno di una rivoluzione liberale, pur disponendo soltanto di un esercito e di una dinastia… La libertà economica fu il perno educativo su cui egli impostò la sua azione popolare…Il liberismo di Cavour mirava a far entrare nella vita nazionale nuove forze operose".

L’opera riformatrice di Cavour era, però, destinata a infrangersi contro lo scoglio della cultura politica italiana che non era liberale, ma individualistica e che si oppose alla vitalità della libera iniziativa. In questo quadro, scrive Gobetti, "il trasformismo di Depretis fu l’espressione più evidente di un’Italia che si pasceva di conciliazioni e di unanimità e non riusciva ad affrontare i terribili doveri della fondazione dello stato…Solo una pronta soluzione del problema elettorale e del problema burocratico avrebbe potuto porre rimedio a questa situazione parassitaria; ma non si osava discorrere di autonomie regionali per non compromettere l’unità e si voleva mantenere il diritto elettorale a una ristretta oligarchia. Quando gli italiani furono stanchi delle astuzie e delle lusinghe di Depretis si abbandonarono alle facili seduzioni della megalomania di Crispi, e nel fallimento africano tutta la nazione fu compromessa".

A quel punto, entrò in scena Giolitti. "Con Giolitti, la ripresa dei metodi di governo di Depretis ha una serietà nuova", scrive Gobetti. Malgrado ciò, Giolitti era un uomo di stato e "l’uomo di stato riconosce il suo compito nel creare un’atmosfera di tolleranza nei confronti dei conflitti sociali" che permise all’Italia dieci anni di "pace sociale di onesta amministrazione" che finirono con la guerra mondiale. "La guerra mondiale", nota Gobetti, "ci coglie im piena crisi unitaria e interrompe ascesi di ordinaria amministrazione e di serietà economica a cui il giolittismo ci aveva iniziati".

La sua individuazione delle cause del fallimento dell’Italia liberale è impeccabile: "Il liberalismo perdette la sua efficacia perché si dimostrò incapace di intendere il problema dell’unità… Il socialismo rivelò la povertà delle sue attitudini nel momento della realizzazione, ed espresse in Turati la sua impotenza di partito di governo. Accettò l’eredità della corrotta democrazia invece di mantenersi coerente a una logica rivoluzionaria. Rivoluzionari furono in Italia solo i coministi che agitando il mito di Lenin videro nella rivoluzione il cimento della capacità politica delle classi lavoratrici".

Per Gobetti, "c’era implicita nel movimento socialista, fuori degli astratti programmi di socializzazione, la possibilità di una nuova economia che risolvesse finalmente l’antinomia insolubile della politica economica italiana: protezionismo-libero scambio. Il consiglio di fabbrica poteva essere il punto di partenza di un’economia nuova".

Non fu così. L’esperienza dei consigli di fabbrica fallì. Gobetti non escludeva, tuttavia, che "un movimento operaio intransigente contro tutti i riformismi potrebbe segnare l’inizio della revisione e offrire i quadri per la lotta inevitabile… Ora", conclude,"è nostra ferma convinzione che l’ardore e lo spirito di iniziativa che portarono gli operai all’occupazione delle fabbriche non possano considerarsi spenti per sempre".

Occorsero vent’anni di fascismo, una guerra mondiale e un numero incalcolato di caduti nella lotta contro il fascismo per creare le condizioni che rendesseor possibile la rinascita di quello spirito d’iniziativa. Fra i caduti, ci fu anche Carlo Rosselli. Indomito antifascista e infaticabile organizzatore, Carlo Rosselli c’ha lasciato un numero elevato di scritti politici ed economici fra i quali spicca "Socialismo liberale".

Scritto da Rosselli tra il 1928 e il 1929 durante il suo confino a Lipari, "Socialismo liberale"
offre ancor oggi materiale per una discussione. Come scrive Rosselli, "il liberalismo si è investito progressivamente del problema sociale e non sembra più necessariamente legato ai principii dell’economia classica, manchesteriana. Il socialismo si va spogliando, sia pure faticosamente, del suo utopismo ed è venuto acquistando una sensibilità nuova per i problemi della libertà e dell’autonomia".

"E’ in nome della libertà, è per assicurare una effettiva libertà a tutti gli uomini, e non solo a una minoranza privilegiata", scrive Rosselli, "che i socialisiti chiedono la fine dei privilegi borghesi e la effettiva estensione all’universale delle libertà borghesi; è in nome della libertà che chiedono una più equa distribuzione della ricchezza e l’assicurazione in ogni caso a ogni uomo d’una vita degna di questo nome; è in nome della libertà che parlano di socializzazione, di abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, della sostituzione del criterio di socialità, dell’utile collettivo, la criterio egoistico dell’utile personale nella direzione della vita sociale".

Il movimento socialista", scrive Rosselli, "è dunque il concreto erede del liberalismo, il portatore di questa dinamica idea di libertà che si attua nel moto drammatico della storia. Liberalismo e socialismo, ben lungi dall’opporsi, secondo una vieta polemica, sono legati da un intimo rapporto di connessione. Il liberalismo è la forza ideale ispiratrice, il socialismo è la forza pratica realizzatrice".

Poi, Rosselli annota: "Il liberalismo borghese tenta di arrestare il processo storico allo stadio attuale, di eternare il suo dominio, di trasformare in privilegio quello che fu un tempo un diritto derivante da una incontestabile opera innovatrice; e si oppone all’ingreso nella storia delle nuove forze sociali preminenti". Per Rosselli, si tratta, però, d’una battaglia di retroguuardia. "Solo alcune frazioni della borghesia esercitano ancora una utile funzione progressista. E quali? Quelle che, indipendentemente dal privilegio della nascita, realizzano nella vita nuovi valori nella sfera della intelligenza pura e del lavoro di direzione".

"Dove vive e dove si attua dunque il liberalismo?", si chiede Rosselli. "In tutte le forze attive, rivoluzionarie della storia; in tutte le forze sociali che esercitano una funzione rinnovatrice; in tutte le forze che intendono superare lo stato sociale attuale e aprire alla libertà e al progresso sempre nuoiterritori, sempre nuovi orizzonti" in concomitanaza con un movimento analogo che interessa il socialismo che "da problem astratto di giustizia sta trasformandosi ogni giorno di più in un problema di capacità".

Quindi, conclude Rosselli: "Il socialista liberale, fedele alla grande lezione che sgorga dal pensiero critico moderno, non crede alla dimostrazione scientifica, razionale, della bontà delle empiriche soluzioni socialiste e neppure alla necessità dell’avvento della società socialista; non si illude di possedere il segreto dell’avvenire… Il suo motto è: il regime socialista sarà, ma potrebbe anche non essere. Sarà se noi lo vorremo, se le masse vorranno che sia, attraverso un consapevole sforzo creatore".

Tutt’altro che dogmatica era anche la posizione di Eugenio Colorni. "E’ evidente, perciò che se la vera democrazia non può realizzarsi che in una società socialista e questa presuppone la soppressione delle classi e perciò anche del proletariato, tale soppressione non può intendersi se non nel senso che il proletariato assorba progressivamente in sé, nel suo ordine sociale, tutte le classi, e distruggendole se le assumi. Alla creazione di questo mondo il proletariato non può convocare un movimento ‘popolare’ sulla base generica della libertà – poichè la libertà che i ceti piccoli e medi borghesi chiedono non è la libertà cui tende la classe operaia con la sua azione rivoluzionaria, ma una libertà borghese -: può soltanto conquistarli alla lotta di rivendicazioni concrete contro il grande capitalismo, e neutralizzarlo nella conquista del potere", scrsse Eugenio Colorni sul "Nuovo Avanti" del 27 febbraio 1937. "La presa del potere non annulla ipso facto i rapporti di classe; la realizzazione d’una democrazia socialista non può essere che il termine di un lungo, organico processo di trasformazione della struttura economica e dei rapporti politici del nuovo mondo. Di questo processo la classe operaia non può cessare di essere, attraverso l’azione sindacale come attraverso l’azione politica, la forza direttiva".

"Quando si parla di rivoluzione, allo stato attuale delle cose, occorre tener conto di alcuni fattori che rendono la situazione profondamente diversa da quella che si era venuta creando alla fine della scorsa guerra", scrisse Colorni poco prima di venire ucciso da una pattuglia fascista nell strade di Roma nel maggio del 1944. "Allora, gli stati vincitori, pur intromettendosi profondamente nella vita interna dei vinti, li lasciarono però essenzialmente liberi di scegliersi il regime interno che preferivano… Oggi questo principio non vale assolutamente più… Oggi, gli elementi in gioco si sono allargati, i legami di interdipendenza si sono moltiplicati". Ciò, secondo Colorni non eliminava l’azione di massa. La trasformava da azione per abbattere un regime in azione per costruire un nuovo regime attraverso lo sviluppo di quella che Gramsci avreva chiamato "egemonia culturale".

Poi, c’è il Colorni filosofo; c’è lo studioso di Leibniz e di Kant: c’è l’autore degli splendidi "Dialoghi di Commodo": "Per me, una volta compiuta, la cosa ha il supremo interesse di esserci, di esistere, e allora, io posso morire tranquillamente; o meglio, posso vivere senza paura di morire". E c’è lo scienziato che s’interroga memore dell’insegnamento di Kant, sui limiti della conoscenza scientifica:"Lo scienziato lavora, insomma, su qualche cosa che egli ha di fronte a sé e della quale sono elementi costituenti alcune forme, o categorie che provengono dalla sua mente, incorniciano la realtà e gliela rendono comprensibile e afferrabile".
"Kant, scrisse Colorni, "ha ammonito sull’impossibilità di uscire dalle forme dell’intelletto, per attingere la cosa in sé… La scienza conosce un altro tipo di conoscenza, diverso da quello chella filosofia. E’ la conoscenza intesa come padronanza di un processo. Si conosce una cosa quando si è capaci di costruirla, cioè di scomporla e ricomporla. Di fronte al problema kantiano, la scienza non si è domanda tase si potesse o meno uscire dal mondo delle categorie, ma se tale mondo fosse modificabile…".


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La Seconda guerra mondiale finì e scoppiò la Guerra fredda [Lewis Gaddis, Fontaine, Bongiovanni, a, b. Benvenuti, Traverso]. Tre furono le sue caratteristiche principali: oscurò qualunque rivalità che non fosse quella esitente fra capitalismo e comunismo; congelò la situazione politica internazionale; riempì il mondo d’armi atomiche in nome della teoria della deterrenza che trovò la sua formulazione più compiuta nella teoria della Mutually assured destruction, il cui acronimo MAD, considerato come una parola intera, nella "lingua dell’impero" significa pazzo da cui deriva madness, in italiano, follia . Sschelling La strategia del conflitto, Bruno Mondadori; E. J. Hobsbawm Il secolo breve, Rizzoli].

La teoria della MAD eliminò la possibilità dello scoppio d’una guerra fra le due superpotenze, ma alimentò, nello stesso tempo, una nutrita serie di "guerre per procura" che insanguinarono il Terzo mondo. A queste "guerre per procura", vanno aggiunte: la guerra di Corea, la guerra di Indocina, la guerra d’Algeria, la guerra del Vietnam.[J. Black La gurrra nl mondo conteporaneo, Il mulino; E. Di Nolfo Dagli imperi miliari agli imperi tecnologici, Laterza ].

Molti furono gli eventi della Guerra fredda che meriterebbero d’essere ricordati: il blocco sovietico di Berlino, la crisi di Suez, la rivoluzione cubana, la crisi dei missili, la crisi del’U2… [Galli della Loggia Il mndo comtemporaneo, Il mulino]. Io credo, tuttavia, che l’evento più significativo della Guerra fredda fu la rivoluzione ungherese [F. Argentieri La rivluzione calunniata, L’untà]. Essa, infatti, non fu significativa solo per quello che rappresentò come evento, ma essa fu significativa anche per il contesto nel quale avvenne: "l’indimenticabile 1956″, l’anno del XX congresso del Pcus e del "rapporto segreto" di Chrusëv sui crimini di Stalin il quale aprì una drammatica crisi all’interno del mondo comunista [Flores].
Va anche detto, però, che gli anni della Guerra fredda non furono soltanto gli anni della corsa agli armamenti e della paura d’una guerra atomica. Essi furono anche gli anni del più lungo boom della storia dei paesi capitalistici avanzati i quali, tra gli anni ’50 e ’60 conobbero elevati tassi di occupazione, moderati tassi di inflazione, alti tassi di crescita acompagnati da un notevole miglioramento del tenore di vita delle loro popolazioni [Kidron, Postan, Aldcroft, Glyn]. Questo fatto creò un clima di generalizzato ottimismo che favorì la creazione del mito economico della "crescita senza fine" [Vedi Appendice].
Gli anni della Guerra fredda furono, inoltre, gli anni nei quali vennero gettate le fondamenta sulle quali venne costruita l’Unione Europea (UE): settembre del 1950, istituzione della Unione europea dei pagamenti (UEP); aprile del 1951, costituzione della Comunità del carbone e dell’acciaio (CECA); maggio del 1952, firma del trattato istitutivo della Comunità europea di difesa (CED) che costituì, come scrisse Martin Gilbert, "la più ampia cessione di sovranità fatta dai paesi dell’Europa occidentale fino al trattato di Maastricht nel 1992″; marzo del 1957 firma del trattato di Roma che istituì la Comunità economica europea [Gilbert]. In questo quadro, va inserita la vicenda italiana.
Come scrisse, infatti, lo storico inglese, Paul Ginsborg, "Italy in the mid 1950s was still in many respects an underveloped country. Its industrial sectors could boast of some advanced elements in the production of steel, cars, electrical energy and artificial fibres, but these were limited both geographically and in their weight in national economy as a whole", [P. Ginsborg History of contemporary Ialy, Penguin]. Dieci anni dopo, l’Italia era "in many respects" un paese sviluppato. he cos’era accaduto? Era accaduto che gli italiani avevano imparato a sfruttare le proprie risorse, le quali erano le proprie braccia e la propria inventiva. Il segreto del "miracolo economico" è riconducibile ad una combinazione fortuita di bassi salari, di esportazioni basate su prodotti a tecnologia matura e di inventiva [A. Graziani L’economia italiana 1945-197o ].

Tra il 1958 e il 1963 il tasso di crescita medio annuo del pil, superò il 6,5%, mentre quello dell’industria superò l’8%. Gli investimenti lordi arrivarono al 26% del pil. Le esportazioni crebbero del 14,5% [Salvati, a]. La crescita economica produsse un notevole cambiamento nel modo di vivere degli italiani [Colarizi, a]. Il benessere che avanzava diede il via a una dilatazione dei consumi e modificò lo stile di vita. Gli italiani scoprirono l’auotmobile, la televisione, gli elettrodomestici.[G. Crainz Storia del miracolo economico, Donzelli].

Al cambiamento a livello economico si accompagnò un cambiamento a livello politico. Nacque, non senza traumi – vedi il caso Tambroni – il Centrosinistra [A. Lepre Storia della prima repubblica, Il mulino]. Venne varata la politica di programmazione [M. Carabba ]. Infine, si registrò l’avvio di un nuovo ciclo di lotte operaie [V. Foa Lotte operaie e sindacato in Italia, Loescher].

Come scrisse, infatti, Vittorio Rieser, gli Anni ’50 non furono "una fase priva di conflitto industriale". L’inizio del decennio è caratterizzato da grandi lotte e non si trattò soltanto delle lotte per il Piano del lavoro e contro la "legge truffa", "ma resta vero il fatto", notò Rieser, che "essi sono anni di pieno controllo padronale sulla forza lavoro" [V. Rieser Lo strano caso del dott. Marx e del prof Weber,  Sisifo].

Questa situazione era ben descritta in un documento Fiom del 1956 relativo alla Fiat. "In questi ultimi anni", si leggeva nel documento Fiom, "sia in relazione con la politica di investimenti perseguita in alcuni settori Fiat, sia in relazione con la politica del taglio dei tempi e dell’ intensificazione del lavoro, il rendimento operaio è aumentato in misura impressionante. Questa tendenza ha corrisposto naturalmente ad una forte diminuzione del costo del lavoro e, anche in ragione della situazione di monopolio in cui opera la Fiat, un fortissimo aumento dei profitti"

Il processo di razionalizzazione che era in atto in quegli stessi anni nell’industria italiana nel suo insieme venne analizzato, invece, da Silvio Leonardi nella sua relazione al convegno dell’Istituto Gramsci su "I lavoratori e il progresso tecnico".

Nella relazione, Leonardi notava che "il processo di razionalizzazione che si è sviluppato nel nostro paese in questo dopoguuerra è partito da una situazione di scarsa utilizzazione degli impianti". Leonardi spiegava, poi, che "il suo sviluppo ha fatto risaltare lo stato di relativa esuberanza del personale" e che era stato possibile raddoppiare la produzione manifatturiera senza praticamente aumentare la manodopera occupata. Quindi, aggiungeva che la stasi dell’occupazione aveva fatto sì che i cambiamenti dei rapporti di lavoro non trovassero una sufficiente compensazione nell’interno delle singole industrie e del sistema industria e nel suo complesso" [S. Leonardi Democrazia di piano, Einaudi].

Tale situazione cambiò con il "miracolo economico", quando si creò un mercato del lavoro favorevole al venditore. "Una prima avvisaglia", scrisse Rieser, "se ne ha nella ripresa delle lotte contrattuali del 1959, ma il segno inequivocabile del mutamento si ha con gli scioperi contro il governo Tambroni dell’estate 1960″ che si trasformeranno nelle grandi lotte contrattuali del 1962-63. Esse portarono dei notevoli elementi di novità: una forte contrattazione di categoria, una contrattazione aziendale, il tutto entro un quadro di sostanziale unità sindacale [V. Rieser op. cit].

Improvvisamente, arrivò la crisi a causa, si disse, d’una stretta creditizia messa in atto dalla Banca d’Italia per evitare i rischi d’una inflazione da salari indotta da un mutamento repentino dei rapporti di forza esistenti nel mercato del lavoro [M. Salvati Economia e politica in Italia nel dopoguerra, Garzanti]. La verità è che la crisi sarebbe arrivata ugualmente. Il boom aveva messo a nudo, da un lato, le "debolezze strutturali" della economia italiana a cominciare dal suo "nanismo" industriale [G. Nardozzi Miracolo e delino, Laterza, Colli].

Dall’altro lato, aveva portato alla luce, come scrisse Claudio Napoleoni, la "mancanza d’una politica economica alla scala dei problemi italiani" [C. Napoleoni Programmazione economica e politica dei redditi, in Graziani cit.]. In questo senso, il boom fu, per usare le parole di Michele Salvati, una "occasioni mancata" [Salvati, b. Rossi, a, b] dovuta alla mediocrità della classe dirigente italiana [C. Carboni La classe dirigente italiana, Laterza).


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In questo contesto si collocarono  le "Sette tesi sul controllo operaio" di Raniero Panzieri e di Lucio Libertini. Per Panzieri e Libertini, infatti, la "via democratica al socialismo" passava per "la via della democrazia operaia". Tale via si differenziava, a sua volta, dalla "via parlamentare" al socialismo, anche se essa non disdegnava l’uso degli strumenti del parlamentarismo. Anzi, Panzieri e Libertini consideravano l’uso degli strumenti del parlamentarismo "uno dei compiti più importanti che si pongono al movimento di classe" il quale avrebbe dovuto trasformare gli istituti parlamentari "da sede rappresentativa di diritti meramente politici, formali, ad espressione di diritti sostanziali, politici ed economici nello stesso tempo". Ciò non doveva fare dimenticare, però, che "la forza reale del movimento di classe si misura dalla quota di potere e dalla capacità di esercitare una funzione dirigente all’interno delle strutture della produzione". Per Panzieri e Libertini, infatti, "l’autonomia rivoluzionaria del proletariato si concreta nella creazione dal basso, prima e dopo , la conquista del potere, degli istitituti della democrazia socialista." Così facendo, "la classe operaia, mano a mano che, attraverso la lotta per il controllo, diviene il soggetto attivo di una nuova politica economica" e "assume su di sé la responsabilità di un equilibrato sviluppo della economia, tale da spezzare il potere dei monopoli" [Panzieri, b].
La pubblicazione delle "Sette tesi sul controllo operaio" suscitò un vivace dibattito sia all’interno del Psi che nel Pci. Francesco De Martino osservò che "le tesi muovevano dal presupposto classico che lo stato parlamentare borghese è lo strumento della borghesia capitalista… ma lo stato attuale non è più quello d’un tempo…Perciò, lo stato democratico in molti paesi, pur non essendo certo lo stato dei lavoratori, non si può considerare allo stesso modo in cui Marx ed Engels lo consideravano". Alberto Caracciolo scrisse che "l’impegno e la prospettiva per il controllo operaio della produzione si presentano come qualche cosa di sostanzialmente nuovo nell’odierno panorama di idee del movimento socialista in Italia". Roberto Guiducci affermò che "non è cosa facile rispondere all’invito alla discussione dagli spinosissimi problemi contenuti nelle sette tesi sulla questione del controllo operaio". Rodolfo Morandi, in aperta polemica, dichiarò d’essere "più che mai collettivista". Antonio Pesenti obbiettò che "il capitalista non accetta né accetterà mai di dividere il suo potere". Nella loro risposta, Panzieri e Libertini ribadirono che "il controllo operaio va visto come elemento centrale e insostituibile di sviluppo e di democrazia" [L. Libertini Introduzione a Sette te sul controllo operaio, Fetrinelli)
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I temi trattati da Panzieri e Libertini in "Sette tesi sul controllo operaio", confluirono successivamente nelle "Tredici tesi sulla questione del partito di classe", pubblicate su "Mondo operaio" nel novembre del 1958. Nelle tesi, Pcato per un lungo periodo, cioè i tempi di ammortamento diventano estremamente lunghi e quindi c’è la necessità di programmare un mercato".
Per poter realizzare ciò, il capitale doveva uscire dalla fabbrica e doveva coinvolgere la società nel processo di valorizzazione. Come Panzieri notò nel saggio [Panzieri, h] "Sull’uso capitalistico della macchine", "come processo di sviluppo della divisione del lavoro e il luogo fondamantale di questo processo è la fabbrica"; è nella fabbrica, infatti, che si realizza "la contrapposizione delle potenze intellettuali del processo produttivo materiale agli operai come proprietà non loro e come potere cheli domina"; ed è pure nella fabbrica che si realizza "lo sviluppo della tecnologia" la quale "distrugge il vecchio sistema della divisione del lavoro e lo consolida sistematicamente quale mezzo di sfruttamento della forza lavoro in una forma ancora più schifosa". Il punto d’arrivo di questo processo di espropriazione del lavoratore e del suo asservimeento al capitale è rappresentato dalla fabbrica automatica nella quale, scrive Panzieri citando Marx, "l’automa stesso è il soggetto e gli operai sono coordinati ai suoi organi incoscienti solo quali organi coscienti e insieme a quelli sono subordinati a quella forza motrice centrale". In questo quadro, nota Panzieri nel suo saggio, "una formulazione non mistificata del controllo operaio ha senso soltanto in rapporto a un obiettivo di rottura rivoluzionaria e ad una prospettiva di autogestione socialista". In altre parole, "il controllo operaio esprime la necessità di colmare il salto attualmente esistente tra le stesse rivendicazioni operaie più avanzate a livello sindacale e la prospettiva strategica".
Tale prospettiva strategica, secondoPanzieri, doveva tener conto, però, del fatto che la sfera d’azione del capitale non è più limitata alla fabbrica. La monopolizzazione dell’economia l’aveva estesa alla società; in altre parole, come Panzieri scrisse in "Plusvalore e pianificazione" [Panzieri, i], "dal capitalismo mono-oligopolistico si sviluppa il capitalismo pianificato… L’industria reintegra in sé il capitale finanziario e proietta a livello sociale la forma che specificatamente in essa assume l’estorsione di plusvalore: come sviluppo neutro delle forze produttive, come razionalità, come piano. Il compito dell’economia apologetica è facilitato." Ciò, notò Panzieri, imponeva al marxismo un compito nuovo. Esso "si muove alla superficie della realtà economica e non riesce a coglire l’insieme né l’interna variabilità del funzionamento. I cambiamenti vengono visti a livello empirico e quando ci si sforza di raggiungere un livello scientifico, si torna a modelli di spiegazione che astraggono dallo sviluppo storico. Accade così che al pensiero marxista sfugga, in generale, la caratteristica fondamentale dell’odierno capitalismo che è nel recupero dell’espressione fondamentale della legge del plusvalore, il piano, dal livello di fabbrica al livello sociale".
Secondo Panzieri, infatti, la "sociologia di Marx", in quanto "nasce dalla cirtica dell’economia politica, nasce da una constatazione e osservazione sulla società capitalistica, la quale è una società dicotomica, una società nella quale la rappresentazione unilerale della scienza della economia politica lascia fuori l’altra metà". Occorreva superare questa dicotomia e, per poterlo fare, occorreva superare l’ambito della critica dell’economia politica [Panzieri, l].
Ciò significava che noi potevamo "criticare la sociologia come Marx faceva con l’economia politica classica, cioè vedendola come una scienza limitata, e tuttavia ciò significa che ciò che essa vede è nel complesso vero, cioè non è qualcosa di falsificato in sé, ma è piutttosto qualcosa di limitato che provoca delle deformazioni interne; ma essa conserva tuttavia quello che Marx considerava il carattere di una scienza, cioè un’autonomia che regge su un rigore di coerenza, scientifico, logico" [ivi].
Mario Tronti fu ancora più esplicito. "Il rapporto di produzione capitalistico vede la società come mezzo, la produzione come fine", egli scrisse, infatti, nel saggio "La fabbbrica e la società", pubblicato sul n. 2 dei "Quaderni rossi" [Tronti, a]. "Il capitalismo è produzione per la produzione. La stessa socialità della produzione è niente altro che il medium per l’appropriazione privata. In questo senso, sulla base del capitalismo, il rapporto sociale non è mai separato dal rapporto di produzione; e il rapporto di produzione si identifica sempre più con il rapporto sociale di fabbrica; e il rapporto sociale di fabbrica acquista sempre più un contenuto direttamente politico. E’ lo stesso sviluppo del capitalismo che tende a subordinare ogni rapporto politico al rapporto sociale, ogni rapporto sociale al rapporto di produzione: perché solo questo gli permette poi di cominciare, dentro la fabbrica, il cammino inverso: la lotta del capitalismo per scomporre e ricomporre a propria immagine la figura dell’operaio collettivo". Si prefigurava, così, per Tronti, il nuovo assetto dei rapporti sociali di produzione: "Non più soltanto i mezzi di produzione e l’operaio dall’altro che lavora, ma da una parte tutte le condizioni di lavoro; dall’altra l’operaio che lavora: lavoro e forzalavoro tra loro contrapposti e tutti e due uniti dentro il capitale".
Ciò apriva, per Tronti, come egli scrisse nel saggo "Il piano del capitale", pubblicato sul n. 3 di "Quaderni rossi", "una lunga serie di domande inquietanti": "Fino a qual punto la contraddizione fondamentale fra carattere sociale della produzione e appropriazione privata del prodotto può venire investita e intaccata dallo sviluppo capitalistico? Nel processso di socializzazione del capitale non si nasconde una forma specifica di appropriazione sociale del prodotto privato? La stessa socialità della produzione non è diventata la più importante mediazione oggettiva della proprietà privata?". La risposta di Tronti a queste domande era che "tutto il meccanismo oggettivo funziona a questo punto dentro il piano soggettivo del capitalista collettivo. La produzione sociale diventa funzione diretta della proprietà privata. Agli operai non rimane altro che il loro parziale interesse di classe. Da un lato l’autogoverno sociale del capitale; dall’altro lato l’autogestione degli operai organizzati". [Tronti, b]
Ciò chiamava in causa quella che veniva chiamata "programmazione democratica [Forte]. In un editoriale intitolato "Piano capitalistico e classe operaia", pubblicato sul n. 3 della rivista, la direzione di "Quaderni rossi" affermava che "in questi anni il potere capitalistico si è andato profondamente trasformando", . "L’aspetto più importante di questa trasformazione è la programmazione dello sviluppo che esso ha impostato. Tale programmazione ha molti aspetti complessi e importanti. Uno dei più importanti è la decisione coordinata degli investimenti di capitali, in modo da eliminare gli squilibri esistenti nell’economia del paese e da accelerare il ritmo di sviluppo. In questo coordinamento, il ruolo dello stato è fondamentale: possiamo dire che lo sviluppo del paese è deciso dai più grandi gruppi capitalistici attraverso il coordinamento dello Stato e che lo Stato ha un’importanza fondamentale anche negli interventi industriali che esso effettua direttamente attraverso le aziende da esso controllate."
I "Quaderni rossi" ritornarono sul medesimo tema in un editoriale pubblicato suil n. 6 della rivista dal titolo: "Movimento operaio e autonomia della lotta di classe". "L’economia italiana", affermava l’editoriale, "è avviata a soluzioni pianificiate del proprio sviluppo, ma il processo di ristrutturazione dei rapporti capitalistici internazionali introduce un elemento di precarietà nelle scelte economiche nazionali. Per questo il capitalismo italiano si trova oggi nella impossibilità di programmare uno sviluppo economico nel quale si consideri obiettivo principale la soluzione dei tradizionali squilibri sociali del paese". Questi problemi vennero affrontati da Dario Lanzardo in tre saggi apparsi sui numeri 3, 4, 6 di "Quaderni rossi".
Nel primo dei tre saggi recante il titolo "Temi della programmazione sociale dello sviiuppo", Lanzardo dimostrava che i limiti che la programmazione doveva fronteggiare nascevano dalle contraddizioni dell’economia oligopolistica che essa pretendeva di gestire. [Lanzardo a]. Nel secondo saggio, intitolato "Produzione, consumi, lotta di classe", Lanzardo, dopo aver rilevato che "la storia del capitalismo, dal periodo in cui Marx conduceva la sua analsi, ci mostra il meccacinismo attraverso il quale si produce l’accumulazione del capitale si è gradualmente modificata, nel senso che la seconda sezione dell’economia – quella che produce mezzi di consumo – è venuta ad avere un peso crescente nell’ambito del proceso accumulativo di ogni singolo paese e dello sviluppo mondiale del capitalismo", notava che "stabilito che la programmazione economica è comunque una tecnica che ha lo scopo di intensificare il processo accumulativo e di controllarlo in tutte le sue componenti", era chiaro che la programmazione andava incontro a due generi di limiti derivanti, da un lato, dal livello medio dello sviluppo mondiale, dall’altro lato, dallo stato dei rapporti sociali di produzione" [Lanzardo b]. Nel terzo saggio intitolato "Note sul problema dello sviluppo del capitale e della rivoluzione socialista", Lanzardo individuava la causa del fallimento della rivoluzione socialista nella contraddizione che s’era aperta fra soggettività rivoluzionaria e arretratezza delle condizione oggettive [Lanzardo c].
Ciò ci riporta a Panzieri. Come scrisse, infatti, Panzieri, "La necessità di assicurare la vitalità e di difendere la esistenza del sistema socialista nelle condizioni di assedio e di accerchiamento capitalista, ha portato ad anticipare la trasformazione dei rapporti di produzione rispetto allo sviluppo delle forze produttive. Tale anticipazione s’è tradotta nel ritmo forzato impresso alla collettivizzazione forzata e alla industrializzazione e si è dato così luogo a un processo contradditorio di fronte al quale le strutture originarie della democrazia socialista sovietica e i suoi controlli hanno ceduto a causa del debole sviluppo iniziale delle deboli forze rivoluzionarie coscienti"
.
In questo modo, offrendo una spiegazione economico- sociologica dello stalinismo, Panzieri evitò, però, di affrontare il problema delle origini ideologiche dello stalinismo. Lo stalinismo non nacque, infatti, dal nulla. Esso nacque dal medesimo ceppo da cui nacque il leninismo. Ciò significa che la critica dello stalinismo non può prescindere dalla critica del marxismo.
Chiarito ciò, possiamo pure discutere dell’accerchiamento dell’Unione sovietica da pate delle potenze capitalistiche che portò Stalin ad anticipare la trasformazione dei rapporti di produzione rispetto allo sviluppo delle forze produttive e possiamo pure discutere del "marxismo come abbozzo d’una sociologia", per usare una definizione dello stesso Panzieri.
Tutto ciò appare, oggi, in tempo di "pensiero unico", privo di senso, come priva di senso appare, oggi, la affermazione di Panzieri che "solo una rozza mistificazione può presentare il neocapitalismo come una lotta del nuovo contro il vecchio: esso costituisce la tendenza e la direzione che si iscrivono e si definiscono all’interno della decadenza e della crisi"]. Non era così negli anni di Panzieri.

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