mercoledì 3 febbraio 2016

La mente prigioniera

Alberto  Madricardo

“Ketman: l’arte della riserva interiore”

L’Autore Czesław Miłosz, in “La mente prigioniera descrive la discrepanza tra verità pubblica e verità privata nei paesi del socialismo reale ricorrendo ad un concetto – quello di Ketman – preso dalla civiltà islamica.
Il problema della “doppia verità” si pone fino dai primi secoli dell’Islam, da quando gli Arabi, venuti in contatto grazie alle loro conquiste con l’eredità della civiltà ellenica, tentarono di trovare una sistemazione del rapporto tra fede e ragione. Filosofi come Al Fahrabi, Averroè, Maimonide, ecc. si impegnarono ad approfondire il rapporto tra fede e ragione. Questo tentativo ebbe eco anche in Occidente, dove nell’età della fioritura della filosofia scolastica ebbe una certa diffusione l’averroismo, una tendenza del pensiero europeo condannata dalla Chiesa.
Posizioni sociali di intellettuali che ricordano il Ketman sono frequenti anche nella nostra storia. Sia nel Medio Evo, sia in età post rinascimentale, nel secolo del “Libertinismo”, ma anche più tardi, forse anche durante il maccartismo negli Stati Uniti.
Si può dire che qualche aspetto del Ketman si può ritrovare in qualsiasi società e comunque anche in ambienti in cui gli individui più attivi e critici sentono di dover difendersi dal conformismo dominante.
Utilizzando la categoria del Ketman, l’autore del saggio analizza i diversi modi di porsi dei soggetti sociali specificamente nella società socialista dominata da una verità presentata come “la nuova fede”.
Il Ketman è insomma l’autocoscienza riflessiva che si distacca dall’immediata adesione alle verità comunemente condivise. E’ possibile che si sviluppi quindi solo in persone di una certa cultura.  
L’Autore compie un’analisi interessante dei diversi tipi umani in una società – come quella socialista - che vuole essere completamente “artificiale”, cioè ricreata razionalmente da quella naturale, in modo che alla “storia naturale dell’uomo”, faccia seguito “la storia umana dell’uomo”.  
Il socialismo reale, per questo suo carattere di esperimento radicale sull’uomo, ha prodotto dati di estremo interesse, ancora in gran parte da analizzare.  E’ stato un laboratorio straordinario in cui l’umanità ha cercato di trasformare se stessa, liberandosi dalle proprie alienazioni, con una forza e determinazione che si può dire non hanno precedenti. La novità, rispetto ai tentativi precedenti  di “riforma” dell’uomo, è che nel socialismo non si agisce solo direttamente  sulle coscienze, ma anche si tende a mutarle indirettamente, modificando il contesto economico e sociale in cui esse si formano.
Marx aveva affermato – sulla scorta di una linea di pensiero che va Socrate a Schiller – che l’alienazione degli individui deriva dalla loro appartenenza ad un tipo di società in cui domina la divisione del lavoro. L’alienazione è tanto più avanzata quanto più la società è sviluppata. La società per l’individuo è come una grande macchina di cui egli si trova ad essere un ingranaggio, senza avere, se non è in una posizione privilegiata di esercizio del potere, una visione del tutto inadeguata (anche il sociologo o l’economista, che studiano le grandi dinamiche sociali, non apprendono di esse che ciò che è reso possibile dal punto di vista della loro disciplina, hanno della società un sapere “astratto”, non nel senso vichiano del verum -factum).
Ora, il socialismo dovrebbe essere il sistema che tende a “ricomporre” l’integrità dell’uomo da tutte le infinite parti in cui la divisione del lavoro lo ha scomposto, a causa della quale  è alienato.
Cosa succede invece? Che gli uomini assoggettati ad un potere totale estraneo (quello del partito, o come lo chiama Miłosz, “della Centrale”),  privati anche della possibilità di avere, grazie alla proprietà privata,  una compensazione al fatto di sentirsi vivere in un mondo estraniato, reagiscono ritirandosi all’interno di se stessi e scavando delle nicchie esclusive nelle loro anime, dove possono sentirsi completamente a loro agio. Il Ketman è una specie di “proprietà privata”, non di una cosa (di un oggetto fisico), ma di un sapere, di un modo di essere, insomma di un’identità, da cui “gli altri”, quelli che non fanno parte del gruppo professionale, culturale, ecc. sono esclusi.
La proprietà privata di ciascuno (lo “jus utendi et abutendi”) definisce il perimetro della sua libertà. Essa si erige contro l’alienazione del resto del mondo: ha un senso come compensazione parziale (alibi) della espropriazione di tutto il resto. Ma è per il fatto che possediamo esclusivamente qualcosa che ci accorgiamo che non possediamo, che siamo espropriati dal resto del mondo (molto utile a questo proposito il bel saggio di Roger Caillois dal titolo “I tesori segreti”, dedicato alla formazione del senso di proprietà esclusiva nei bambini). Insomma è l’esperienza reale esclusivo con le cose che possediamo che ci fa sentire estraneo il resto del mondo e nascere in noi l’esigenza di un rapporto “disalienato” con esso: dentro il recinto del nostro giardino ci prepariamo ad andare fuori, nella grande foresta. Essendo signori esclusivi di quello, ci sentiamo esclusi da questo.
Allo stesso modo, come si è detto, è la divisione del lavoro sempre più spinta ad essere il motore della esigenza di socialità. Poiché questa socialità non esiste se non come esigenza, la si pone nel passato lontano. La si pone in una mitica età dell’oro, che non c’è veramente mai stata, e che sarebbe stata distrutta dal capitalismo.
Come si sa, le “età dell’oro” sono creazioni fantastiche delle età di decadenza. Ma queste creazioni possono essere non solo fantasticherie sdolcinate.
Possono essere qualcosa di più: la nausea per la decadenza può spingere il pensiero, per  contraccolpo alla situazione di fatto, al di là della mera compensazione fantastica di una realtà insoddisfacente, a prefigurare per il destino umano qualcosa di nuovo:

“fuggendo, a nuovo cammin il fuggir volge”

Insomma, non è detto che una reazione sia solamente reattiva.  Come un’esperienza di esclusività (la proprietà privata) richiama un’idea nuova ed inedita di socialità, così un’idea di socialità imposta può promuovere e alimentare un bisogno più profondo di esclusività, di “interiorità”.  
Il soggetto storico (il Ketman per eccellenza) sull’onda dell’indignazione profonda suscitata nell’umanità da un secolo e mezzo di orrori provocati dallo sviluppo capitalistico e dall’imposizione forzata di una sempre più spinta  divisione del lavoro (quando si condannano gli orrori della collettivizzazione e dell’industrializzazione forzata staliniana, non si dovrebbero mai dimenticare quelli che nel corso dell’Ottocento hanno accompagnato, nell’Europa occidentale e oggi ancora nei paesi in via di sviluppo, la cosiddetta “accumulazione primitiva”. L’unica differenza tra quelli dell’URSS e quelli avvenuti nel mondo capitalistico è che i primi sono stati provocati da un “soggetto storico” come tale imputabile, mentre i secondi da un impersonale “sistema”, non imputabile, di cui i vari soggetti politici – imputabili solo parzialmente -  sono stati solo i facilitatori).   
Nell’URSS - dove “il sistema” era arretrato - si è cercato di forzare la mano alla storia, di accentuare vertiginosamente la divisione del lavoro (quindi l’alienazione) e allo stesso tempo di agire per eliminarla attraverso l’imposizione di una socialità forzata (abolizione della proprietà privata). Ma è come obbligare qualcuno ad essere felice.  L’obbligazione – sia pure ad essere felici – è di per sé causa di infelicità. Può essere utile qui ricorrere alla teoria del doppio legame (double bind) di Gregory Bateson.  
A questa socialità forzata – e quindi formale -  ciascun individuo sopravvive creandosi per contraccolpo un suo spazio “privato”, cioè esclusivo (fisico o mentale che sia) che egli elabora e a cui dà una propria forma. La sua interiorità, insomma, nasce per reazione, è esclusiva e antisociale. Non è solo un frammento di una realtà sociale che la divisione del lavoro ha frantumato e che si tratta di rincollare come si fa con un vaso andato in pezzi: i pezzi non si combinano solo mettendoli insieme. Ciascuno ha fatto in modo di darsi una forma che non sia conciliabile e non combaci con nessun altra.   
I “tasselli” del puzzle sociale: lo scienziato, il filosofo, l’artista, il professionista, ecc.   hanno sviluppato una loro incompatibilità reciproca difensiva (antisociale) che si è via via indurita.
La Rivoluzione d’Ottobre ha avuto due fasi: una breve, durata pochissimi anni, in cui è stata tentata l’esperienza quasi subito fallita della democrazia consiliare (tutto il potere ai soviet). L’altra, ben più lunga, durata in pratica fino alla fine dell’esperienza socialista, in cui il potere è stato assunto dal partito.
Il partito entra in campo come deus ex machina nel momento in cui è ormai chiaro che la rivoluzione dei consigli è fallita e con essa il tentativo di far governare direttamente la massa degli individui così come si trovano ad essere, ciascuno con la mentalità formata  dalla divisione sociale del lavoro nel precedente regime in cui il capitalismo era ancora fortemente inviluppato da un contesto ancora feudale.
La speranza che i soviet formati da gente qualsiasi possano governare può essere paragonata a quella che buttando tutti insieme su un tavolo i tasselli di un puzzle, ciascuno vada miracolosamente al suo posto e ne appaia d’un tratto la figura.    
Una follia! Ma che ha un suo senso. E’ come oggettivare un pensiero, rendere visibile a tutti uno scopo. Come mostrare la vetta su cui si vuole arrivare, prima di cominciare a cercare i tortuosi sentieri grazie ai quali raggiungerla.   
Si è detto: governi il popolo (tutto il potere ai soviet!). Questa è la meta. Stabiliamo il punto di arrivo e poi vediamo come arrivarci. Dal momento che – ovviamente - il popolo dimostra di non saper trovare da sé i sentieri giusti,   e il potere dei soviet fallisce, sembra che ci voglia una guida che lo conduca verso la vetta, un soggetto esperto operante in suo nome, a curare il bene pubblico in sua vece. Così il nuovo motto è: tutto il potere al partito.
Il partito è legittimato dal fatto di essere il depositario della ragione (e la ragione è la facoltà che definisce l’interesse universale). Il partito è il traduttore universale dei linguaggi privati che gli uomini si sono creati nella Babele di alienazione in cui la divisione del lavoro li ha ridotti. Non deve solo eliminare questi linguaggi e restaurare il linguaggio comune degli uomini. Un linguaggio comune essi non lo hanno mai avuto e perciò non può essere restaurato. Può solo essere inventato, creato ex novo.  
L’idea di un linguaggio comune dell’umanità e di un comune possesso del mondo è appunto solo un’idea, un’esigenza formale nata per reazione all’esistenza dei linguaggi privati creati effettivamente dalla divisione del lavoro. A questa esigenza non si risponde costruendo un linguaggio artificiale come l’esperanto, risultato della somma dei diversi linguaggi privati, né facendo semplicemente piazza pulita di essi.  
Gli uomini, più vivono in società, più cooperano tra di loro, più scoprono di non capirsi: le tendenze esclusiviste antisociali nascono dalla socializzazione.
Non è mai esistita una mitica età dell’oro in cui tutti si comprendevano: nell’orda primordiale non c’è alcuna comprensione reciproca. E’ nella società – grazie alla divisione del lavoro – che non ci capiamo e dunque cominciamo a sentire il bisogno di capirci.
Se nella società avanzata ciascuno sente il bisogno di essere libero, cioè di gestire direttamente la sua vita, non è in quanto prima, nella società più arretrata o nel branco selvaggio, ciascun individuo fosse libero e padrone di se stesso o perché esistesse persino la nozione di libertà. La “libertà” è solo la forma ideale negativa dell’alienazione reale vissuta dall’uomo sociale, inserito nella divisione del lavoro.  Chi sente bisogno di parlare continuamente di libertà è l’uomo alienato.  
Gli uomini alienati che anelano alla disalienazione, lo fanno fatalmente in modo alienato. Poiché il popolo è incapace di autogovernarsi a causa della condizione alienata in cui si trova, il partito prende su di sé il compito di surrogarlo come soggetto storico.
Nella società alienata – cioè nella società reale creata dalla divisione del lavoro - ciascuno riveste un ruolo particolare e vive perciò entro una sua nicchia. Questo fa sì che si faccia sentire fortemente una tendenza spontaneamente centrifuga, dissolvitrice che minaccia fatalmente ogni comunità. C’è bisogno di un “correttivo” coesivo, un contrappeso, che imponga la ragione del tutto sociale su quelle delle parti. Tale correttivo è il potere politico (lo stato), il quale - come dice Hanna Arendt – crea sempre comunità.  Questo non vuol dire che il potere non sia legato, e anzi, non sia espressione d’interessi particolari. Vuol dire solo che questi interessi particolari dominanti assumono la veste di interessi generali.
Per quanto il principio dell’individualismo o “egoismo” appaia disgregatore della società, nulla dipende più di esso dall’esistenza di una società, al modo che nessuno più del ladro ha interesse che nella società in cui opera viga l’onestà.    
In realtà è in larga parte il potere – ma per lo più nelle società non avanzate - che ha bisogno, per legittimarsi, di far vedere di essere il baluardo (il protettore) della coesione sociale.
Nelle società in cui la divisione del lavoro è molto avanzata questa enfatizzazione paternalistica è meno necessaria.  Il potere resta il protettore di ultima istanza contro i grandi rischi che minacciano la società (attacco di potenza straniera, catastrofi naturali, depressione economica, terrorismo, ecc.), ma l’individuo è inserito così profondamente nella logica della divisione del lavoro, che per lo più fa spontaneamente la parte che gli è stata assegnata. Come dice Kafka: “l’animale strappa di mano la frusta al domatore e si frusta da sé”.  
Egli è disciplinato non per virtù, ma per abitudine. Per voler manifestare in modo davvero clamoroso il suo “egoismo antisociale” (non quello economico: per quello è anzi considerato in una società capitalista benemerito della società) deve essere – come si dice – andato fuori di testa. Allora compie atti fortemente violenti che devono essere molto eclatanti, come sparare da un palazzo sui passanti o suicidarsi schiantandosi con un aereo con centinaia di passeggeri a bordo. Questo dimostra – tra l’altro - che anche queste dimostrazioni di odio antisociale nascono in fondo da impulsi profondamente sociali (essere visti da tutti).  
Questi gesti di vera e propria insurrezione individuale contro la società suscitano – ove possibile – la repressione violenta da parte del potere (dello stato). Ma siccome queste cose non accadono proprio ogni momento, esso, avendo a che fare con un popolo più ammaestrato al rispetto delle regole, appare mediamente meno violento di quanto potesse apparire anche uno o due secoli fa.
Finora ho parlato genericamente di “potere”, ma ora è il momento che faccia una distinzione all’interno del suo concetto. Ci sono due tipi di potere: il potere “soggettivo” e quello “oggettivo”.
Il primo costruisce la sua macchina, il secondo si limita a guidarla. Il primo è – diciamo così – soggettivo: formatore, demiurgo. Crea ed impone sistemi di relazioni. Il secondo è oggettivo,   regolatore di un sistema di relazioni già in atto.
Mano a mano che la divisione del lavoro si rafforza e si articola e la società assomiglia sempre più ad una grande macchina, la tendenza è quella di avere un potere in prevalenza del secondo tipo. La politica, da “regina”, passa gradualmente al rango di chauffeur del sistema. Un ruolo importante, anzi fondamentale, tuttavia limitato. E’ il potere del capostazione che alza la paletta e – si dice - “fa partire i treni”. Ma in realtà ne regola solo gli orari.
Ad un certo punto il “sistema” della divisione mondiale del lavoro, per una serie di ragioni contingenti, è stato lacerato in un punto: la Russia durante la prima guerra mondiale. In quel punto e in quel momento l’organizzazione sociale con i suoi meccanismi ripetitivi sono andati in frantumi, lasciando un vuoto.
Gli automatismi macchinali dell’autorità e dei comportamenti sociali consolidati sono stati profondamente compromessi ed è stata proclamata la necessità di costruire dalle sue basi una nuova macchina sociale.  
Per questo era necessario – ovviamente – un potere del primo tipo: demiurgo, altamente soggettivo, fondativo di una nuove regole e di una nuova socialità.
Questo soggetto politico, eccezionale protagonista dello stato di eccezione, incarnazione ed emblema della storia evenemenziale, riduce fin quasi ad eliminarlo lo spessore abitudinario (oggettivo, di longue durée) della vita collettiva, mentre tutta la società come tale, rigenerandosi dalle sue radici, si fa evento.
In quel momento in cui l’unicità dell’evento prevale sulla ripetitività, l’ora sul sempre, si ha la rivoluzione.
La rivoluzione intende nientemeno che rovesciare la tendenza alla divisione del lavoro incarnata dal capitalismo, eliminare la macchinalità alienata della vita sociale ad essa connessa, senza commettere l’ingenuità di voler tornare ad una mitica origine. Anzi, mira ad una uscita in avanti dal capitalismo, dato che – si ritiene - questo sistema sta sempre più mettendo in contraddizione le sue premesse con i suoi risultati: accentua la divisione del lavoro ed aggrava l’alienazione, ma così fa sorgere per reazione un bisogno sempre più intenso di “disalienazione”.
La sfida è di andare contemporaneamente in due sensi contrari: mantenere e sviluppare la potenza produttiva del capitalismo (dato che la Russia in cui la rivoluzione sta avvenendo è arretrata ed esiste ancora il comunitarismo rurale di origine feudale), accentuando la  divisione del lavoro e rinviando ad un secondo momento  l’eliminazione dell’alienazione che questo produce. Eliminare allo stesso tempo – in controtendenza – quella che si considera erroneamente la causa – e non, come effettivamente è, l’effetto della divisione del lavoro: la proprietà privata. Ma è come se, per non far piovere, si abolissero gli ombrelli!
Comunque sia, da una parte si segue il binario già tracciato dalla storia, verso lo sviluppo e la divisione del lavoro, dall’altro si pretende di abolire le conseguenze di questa: la proprietà privata.
Per compiere questa torsione titanica ci voleva un “potere soggetto”, un potere demiurgo di proporzioni inaudite, che avrebbe dovuto essere il popolo divenuto d’incanto soggetto (ma così si da come presupposto quello che invece è posto anche come fine: la disalienazione del popolo). Questo però, in quanto realmente alienato, come si è detto, si manifesta – almeno temporaneamente – inadatto.
E’ allora che il partito (“la Centrale”, come dice Czesław Miłosz) prende nelle sue mani la regia dell’impresa.
Solo che anche il partito non ha le idee del tutto chiare.  Soprattutto non ha chiaro quanto sia complessa l’impresa a cui si accinge. Errore madornale è pensare che l’alienazione possa essere eliminata nei sui effetti (la proprietà privata) mentre se ne incrementano le cause (la divisione del lavoro).
All’origine di questa assurdità c’è una affermazione approssimativa di Marx ed Engels secondo i quali: “Divisione del lavoro e proprietà privata sono espressioni identiche”.   In realtà sembra che la divisione del lavoro preceda, almeno logicamente, la proprietà privata e non sia quindi la stessa cosa della proprietà privata (la causa non è lo stesso dell’effetto).  Se il partito incrementa la divisione del lavoro e contemporaneamente abolisce la proprietà privata, abbiamo non l’eliminazione, ma il sommarsi di alienazione ad alienazione – a quella prodotta dallo sviluppo della divisione del lavoro si aggiunge quella della alienazione degli individui dalla loro proprietà. Abbiamo così una inedita alienazione al quadrato, che preme in modo abnorme sugli individui che pure per lo più in linea di principio  riconoscono il valore di un esperimento di così grandi  proporzioni condotto in nome dell’umanità, essendo anche spesso disposti a compiere personalmente grandi sacrifici.
Il vincolo “schizofrenico” tra lo sviluppo della divisione del lavoro e l’abolizione della proprietà privata crea le condizioni oggettive che favoriscono il sorgere del Ketman come strategia di autodifesa soggettiva.
Socialmente alienati, senza la possibilità di rifarsi in qualche modo grazie al godimento della proprietà privata e alla sua consolazione illusoria di essere almeno padroni in casa propria, agli individui non resta che ritirarsi nella loro interiorità, mentre come un bambino impaziente che mette insieme a forza ai tasselli del puzzle con cui gioca senza cercare di farli combaciare secondo le loro forme, il partito accentua a dismisura l’alienazione sia sociale che individuale. Non ha tempo per occuparsi delle sottili mediazioni sociali che conducono fino agli individui. Tratta la materia sociale all’ingrosso, con schemi la cui applicazione è tanto più violenta quanto più sono semplicisti.  
Non è solo per incapacità, per rozzezza, per fanatismo acritico, per paura di trovarsi troppo debole di fronte al nemico di classe e alla reazione mondiale, non è solo perché è convinto che per operare hegelianamente come “levatrice della storia” deve usare il suo necessario forcipe – il  Terrore –  che il partito agisce in questo modo contro le “resistenze accidentali”,  spazzandole via senza pietà.    
La sua legittimazione principale ad esercitare un potere incondizionato esso la riceve dal fatto che l’esperienza del potere al popolo è fallita e che esso è chiamato a surrogare il popolo. Per questo ha una delusione, un lutto non elaborato nel suo cuore: una riserva tanto profonda quanto più rimasta implicita.
Lo stalinismo nasce da qui: dalla delusione per un’esperienza di democrazia diretta fallita e dalla riserva a cui essa  ha dato luogo.  E’ dissociato il “popolo” idealmente inteso, soggetto luminoso della storia e depositario di ogni legittimità, nel nome e per conto del quale il partito agisce,  e quello reale, le masse in carne ed ossa misere, egoiste, incoscienti con cui esso ha ogni giorno a che fare.
Forse Miłosz si è dimenticato di analizzare il primo e il più importante dei Ketman: quello della politica (incarnata dalla “Centrale”), della riserva che i dirigenti politici del partito impongono alla loro anima per cui, mentre esaltano il popolo ideale, soggetto della storia, diffidano, disprezzano e reprimono la passività di quello reale.
Il partito surroga il popolo, ha un potere illimitato, ma non può che arrendersi se il popolo  reale si alza su tutto insieme come un’onda e anche per un solo momento torna soggetto.
Poiché la delusione non tematizzata, non analizzate e discussa, lo ha definitivamente separato dal popolo, creandosi egli un suo “Ketman”. Poiché non intende rinunciare in alcun modo al potere che ha assunto, deve impedire che un popolo “alienato al quadrato” si sollevi. Per  mantenerlo passivo impedire che si unifichi, deve tenerlo diviso.
Il partito così pratica la politica sistematica del patto corporativo. Il patto corporativo è un patto stipulato tra il potere politico e una parte della società, a vantaggio dei due contraenti e a svantaggio della società nel suo insieme.
Agli scienziati concede come privilegio esclusivo i finanziamenti per le loro ricerche, agli scrittori di pubblicare, agli artisti di esporre, ecc. Purché restino nella loro cerchia, vivano nel loro mondo separato, lasciando al partito il compito della mediazione con il resto della società.  
Ai lavoratori delle fabbriche – anche con questi, per quanto siano una classe numerosa -  c’è un patto corporativo che fino ad un certo punto funziona – si concede di lavorare poco in cambio di poco, anche se questo vuol dire privare la società di una parte dei beni di cui avrebbe bisogno per svilupparsi.   
Questa politica dei patti corporativi con le categorie sociali non le avvicina affatto alla loro reciproca comprensione, anzi, le aliena ancora di più favorendo la loro chiusura  sospettosa contro le altre.  L’obiettivo della disalienazione generale non si avvicina, ma anzi – nonostante o anche a causa dell’abolizione della proprietà privata – addirittura si allontana sempre più.  
Perché il partito fa così? Perché a causa del  “Ketman”, della sua riserva interiore che ha fatto nascere dentro di lui, è diventato esso stesso una parte che si sente diversa dalle altre, una corporazione che persegue il proprio interesse particolare a scapito di quello generale. E’ formalmente agente per conto del popolo, ma questo per conto è sempre più formale e falso. Poiché non ha analizzato seriamente, cioè pubblicamente, le ragioni di questo fallimento, non saprebbe come restituire al popolo il potere che si è assunto e nemmeno si pone il problema.  Todor Živkov, segretario del partito comunista bulgaro, in un’intervista rilasciata negli anni ’90 confessò candidamente che la mente politica del blocco sovietico - la “Centrale”, per dirla con Miłosz - non sapeva che fare fin dagli anni ’60.  
La riqualificazione della relazione sociale, nel senso di far crescere la capacità della società civile di autoregolarsi sempre più, la messa sempre più in comunicazione  diretta tra di loro delle diverse parti sociali in modo da consentire che ciascuna potesse sgravarsi almeno un po’ dalla propria riserva interiore - dal suo “Ketman” - ridurre gradualmente la necessità dell’esistenza di un potere “terzo” tra soggetti in rapporto tra loro, in una prospettiva di assunzione crescente di responsabilità - e quindi di disalienazione concreta delle parti sociali, era del tutto fuori dell’orizzonte di quella mente, ormai abituata ad enfatizzare il ruolo demiurgico – mediatore del soggetto politico e a praticare sistematicamente per mantenerlo il “patto corporativo”.  
Così, non solo la meta della disalienazione sociale – scopo ultimo della Rivoluzione - era stato abbandonata, ma addirittura veniva perseguita dal partito quella opposta: dell’aumento della incomunicabilità sociale – dell’esclusività e dell’alienazione al quadrato – della passivizzazione del popolo, allo scopo di rendere sempre più indispensabile il ruolo del partito stesso, ormai divenuto soggetto autoreferenziale.
I quadri del partito, secondo una dinamica che partendo dai vertici si comunica via via verso la base, una volta assaggiate le grandi o piccole dolcezze del potere non sono per lo più – contro Platone e Lenin – costituiti da “filosofi”: non si gratificano nella  contemplazione condivisa dell’universalità, ma nel piacere esclusivo - alienato del comando e dei privilegi.
E’ evidente che questa dinamica di frantumazione corporativa della società non poteva che portare sempre più verso la dissoluzione sociale. Questo processo di divaricazione e dissociazione sociale (atomizzazione) avviene dappertutto e soprattutto nei paesi capitalisti. Ma in questi la legittimazione del potere è data esplicitamente dalla capacità di esso di garantire ai loro cittadini una sempre più larga possibilità di godimento esclusivo.  L’alienazione, l’esclusivismo sociale, può essere sentito come un valore – come libertà - se può essere percepito non come un vuoto immobile intorno all’individuo, ma come un aprirsi crescente intorno a lui di spazi più larghi di possibilità che possono essere realizzate grazie alla disponibilità di mezzi sempre più grande: l’archetipo dell’“arrivato” nel mondo capitalistico” - il miliardario - prende uno yacht (simbolo fisico del Ketman) e gira il mondo con una esclusiva compagnia di amici, riprendendo l’ideale  esclusivista della corte rinascimentale.
Ma se il capitalismo asseconda all’infinito l’alienazione sociale generata dalla divisione del lavoro, e questa è anzi la sua natura e la base della sua legittimazione, il partito comunista che detiene il potere in un paese socialista si legittima grazie al riferimento al popolo ideale. Questo riferimento, per quanto possa essere formale è il fondamento reale della sua legittimità. Deve perciò prima o poi dimostrare che la realtà non è del tutto altra dalle parole.  
Certo, le condizioni storiche sono complicate, il cammino è tortuoso e si può tollerare una certa discrepanza tra ideale e reale. Per andare a Roma, possiamo essere costretti in qualche momento a dare l’impressione di puntare su Milano. Ma ad un certo punto si dovrà ben cominciare a vedere quale è la vera direzione che si sta seguendo.  
Mentre il potere borghese può limitarsi ad indicare mete di sempre maggiore benessere (di sempre maggiore esclusivismo) in un futuro indeterminato, e può essere scosso solo da una profonda, prolungata depressione economica, dopo la rivoluzione non si può divagare troppo. Non può soddisfare una generica prospettiva di progresso, ma solo un adempimento a tempo dello scopo – la disalienazione, la trasformazione del popolo in soggetto - che la rivoluzione si è posta.
Il tempo della rivoluzione è “tempo che resta”, tempo escatologico. Essa non ha, insomma, a disposizione un tempo infinito: è figlia di un deragliamento, di uno “stato d’eccezione” della storia. Può utilizzare una finestra temporale limitata per mettere l’umanità su un altro binario. E’ come un medico che deve operare sulla ferita prima che si cicatrizzi.  
La strategia dei patti corporativi e della moltiplicazione dei privilegi e delle esclusività può allontanare la resa dei conti,  ma non per sempre. Ci sarà prima o poi un momento in cui il soggetto storico titolare, il popolo, chiederà conto al suo supplente, il partito.  
Allora la realtà sarà accostata direttamente all’idealità e questa non potrà reggere al confronto. Non ci sarà bisogno di dispute e di discussioni. Basterà un’unica, fatidica frase: “Wir sind das Volk” pronunciata nelle manifestazioni popolari nella D.D.R. alla fine degli anni Ottanta, e il Ketman della politica svanirà come un sogno al mattino.
Con ciò il tempo della rivoluzione è finito. La cicatrice è chiusa: la nostra storia resta dentro Babele.   
Il popolo ha buttato giù la “Centrale”, e per un momento ha finalmente agito: è stato soggetto. Ha detto no alla menzogna della disalienazione, ma ha detto sì all’alienazione.  E’ entrato nel regno dell’economia, dove dall’alienazione si fugge correndo verso altre alienazioni.  Non ci sono più finalità universali, non c‘è più storia,  ma  un sistema autopotenziantesi che procede macchinalmente all’infinito.  
Il capitalismo non ha effettivamente alcuna Centrale. Ha delle sue politiche, ha una sua soggettività esclusiva (un suo Ketman), ma ancillare, ridotta alle funzioni di governance, di coordinatrice al servizio del “potere oggettivo” del sistema.
Il capitalismo elimina qualsiasi soggetto della storia e toglie ogni finalità storica all’umanità. Trasforma il tempo in un monotono processo di accumulazione macchinale senza scopo e senza fine, in cui gli individui si allontanano sempre più nel loro esclusivismo gli uni dagli altri.
Questo sistema realizzerebbe l’alienazione perfetta e definitiva (per dirla con Nietzsche: “un solo gregge, nessun pastore”) se non restasse un problema: il capitalismo, che ama la stabilità della redita e la quiete del suo godimento, che riduce tutto alla monotonia e alla ripetitività della macchina, nella monotonia muore. Vive di momenti unici, di shock e di scosse adrenaliniche provocate dai grandi scompensi, delle euforie delle occasioni irripetibili, di frenetiche corse all’oro verso nuovi Eldorado. Ogni quieta stabilità per lui è una catastrofe.
Possiamo stare certi che non permetterà che il popolo, infine rassegnato all’alienazione, si assopisca. Lo opprimerà di nuovo, gli toglierà la libertà perché si crei di nuovo un suo Ketman di opposizione e si ribelli. Tormenterà il popolo senza sosta, anche a costo di organizzare scenari apocalittici. Lo ha già fatto e lo rifarà. Non è per malvagità che fa questo: vi è costretto. Ha afferrato come non mai prima era accaduto all’uomo il brivido elementare  della vita e non può più farne a meno. E’ il capitano Achab che ha arpionato la balena. Non la sa domare, ma non la lascia andare: piuttosto che perderla preferisce essere trascinato insieme a lei negli abissi.    


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