domenica 28 febbraio 2016

RICORDANDO CON RABBIA - 2


CORRADO BEVILACQUA
UNA CRISI DI CIVILTA'


Ha scritto Kenneth Rogoff a proposito della crisi finanziaria del 2008, in uno studio per la Federal Reserve della California: “The fundamental flaw in these analyses was the assunption that advanced country capital markets were fundamentally perfect”. Eppure, c’erano state altre crisi, prima di quella del 2008: in Asia, in Messico, in Argentina. Esse erano state oggetto di studio di due premi Nobel per l’economia: Joseph Stiglitz e Paul Krugman  che avevano scritto dei libri su di esse.

Altri economisti, meno famosi, ma non meno valenti, Nouriel Roubini e Rafaj Rajan, avevano messo in guardia sulla possibilità d’una crisi. I valori di borsa erano troppo elevati rispetto ai “fondamentali”, c’era in giro troppa liquidità, troppi titoli ad alto rischio erano posti in circolazione dalle banche. In altre parole, si stava realizzando ciò che era previsto nel modello di Minsky.

Parole al vento. Chi avrebbe dovuto ascoltare gli ammonimenti degli economisti più avveduti, non aveva alcuna voglia di starli ad ascoltare. S’era creato un clima di “euforia irrazionale” che gonfiava la bolla speculativa che s’era areata attorno a dei titoli spazzatura. La bolla si gonfiò, si gonfiò, poi esplose come la rana che voleva diventare bue, splendida allegoria del capitalismo del nostro tempo. Un capitalismo che, sospinto dal vento sprigionatosi dall’implosione del comunismo sovietico, ha inondato di scintillanti monete false tutto il mondo che non era stato ancora conquistato alla sua causa.

Un mondo di risorse da sfruttare a proprio piacimento. Un mondo intero da soggiogare alla logica della ricerca del massimo profitto. Un mondo intero nel quale diffondere il verbo del neoliberismo. Liberi di scegliere. Abbasso le regole. Viva la deregolamentazione. Liberalizziamo i servizi che oggi sono pubblici, prendiamoci l’acqua. E con l’acqua prendiamoci anche l’uomo che è per la maggior parte fatto d’acqua.

L’acqua è un bene fondamentale, fonte essenziale di vita. Prendere l’acqua, privatizzarla, sottomettere il suo sfruttamento alla logica della ricerca del massimo profitto vuol dire prendere la vita delle persone, appropriarsi delle loro possibilità di sopravvivenza. L’ha spiegato molto chiaramente Vandana Shiva.

Per i neoliberisti queste preoccupazioni sono un non senso. Per essi, ognuno di noi altro non è che una sorta di Robinson Crusoe e il mondo in cui viviamo altro non è che l’isola dove egli ricostruisce la propria vita. E Venerdì? Venerdì non è un uomo. Venerdì è uno schiavo: né potrebbe essere qualcosa di diverso. Nel petto di Robinson Crusoe alberga l’anima di Kurz, l’eroe negativo di Cuore di tenebra di Joseph Conrad: il pozzo nero del colonialismo europeo. In questo contesto Kurz rappresenta il Male e il capitano Marlowe, man mano che si avvicina al covo di Kurz, sente crescere dentro di lui un sentimento inaspettato di attrazione nei suoi confronti (A.Riding Belgium confronts the horrors of its colonial reign in Africa, ikn IHT, Sept. 25, 2002) In Conrad c’è sempre qualcosa di irrisolto. Pensiamo a Lord Jim roso interiormente da un oscuro senso di colpa; c’è sempre qualcosa di indecifrabile, ai limiti dell’indicibile, come l’odio di Claggart per Billy Budd nell’omonimo racconto di Herman Melville.

Nel Kurz di Ford Coppola non v’è alcunché del genere. Né avrebbe potuto esservi, considerato il contesto: una guerra fatta più per far dispetto al proprio avversario che per convinzione. Una guerra che gli Usa non avrebbero mai potuto vincere. Una guerra tipica della Guerra fredda. Prodotto della teoria del domino.

Una guerra che dimostrò come il sogno americano, il sogno della città sulla collina, fosse ormai un lontano ricordo. Imperava la ragion di stato, la necessità di dimostrare la propria esistenza come superpotenza: tutti dovevano sapere che gli Usa non avrebbero mai consentito a nessuno stato al mondo di diventare comunista.

Eravamo negli Anni 60. Essi s’erano aperti con la elezione di John F. Kennedy alla Casa Bianca. Un uomo giovane per una politica giovane. Walter Heller, suo consigliere economico, scrisse un manifesto per la politica economica della “nuova frontiera”. Essi s’era chiusi con due anni di anticipo, nel 1968, con l’uccisione a Memphis di Martin Luther King, l’uomo che aveva un sogno. Non aveva capito che il sogno americano era morto nel delta del Mekong.

Improvvisamente, scoppiò il 68. Fu come una colata lavica che tutto travolse e per un momento sembrò che fosse possibile realizzare “il sogno d’una cosa” di cui Marx parlava in una famosa lettera giovanile a lettera a Ruge, siglata Kreuzenach, settembre 1843. Volevamo tutto perché ci sentivamo tutto. Avevamo deciso di non stare più al gioco della dialettica servo-padrone. Noi un sapevamo cosa fosse avere un padrone: né volevamo il suo riconoscimento. Bastavamo a noi stessi. Eravamo Il momento svanì e noi ci trovammo a fare i conti con la prosaicità della politica quotidiana, la politica delle mediazioni e dei compromessi, tra rumori di sciabole e fragore di bombe fatte scoppiare dai manutengoli d’uno stato corrotto che era gestito da fine della guerra da un partito che aveva trasformato le istituzioni pubbliche in feudi per le proprie correnti politiche.

Oggi, tutto ciò è lontano da noi, avvolto nella nebbia dei ricordi, coperto dalla polvere del passato. L’Unione Sovietica non esiste più. Il nemico è scomparso nel nulla. L’impero del male è crollato e sulle sue ceneri è nato uno stato di tipo nuovo controllato da una nuova classe dirigente. Nuove potenze economiche si sono affacciate sulla scena mondiale mettendo in crisi le vecchie potenze capitalistiche occidentali che non riescono a tenere il passo dei nuovi concorrenti.

La classe operaia, sulle quale Marx aveva puntato le sue speranze, è stata smembrata dalla rivoluzione informatica; è stata messa al tappeto dalla concorrenza delle nuove potenze economiche che possono contare su un enorme esercito industriale di riserva che abbassa il costo di riproduzione della forza lavoro a livelli preindustriali e mette fuori mercato i beni prodotti dalle economie capitalistiche occidentali.

In un capitolo famoso dei Principi di economia pubblicati all’inizio dell’Ottocento, quando la Rivoluzione industriale era nella sua prima stagione, David Ricardo, ricco agente di cambio trasformatosi in economista, dimostrava che il Portogallo avrebbe guadagnato molto di più, nei suoi scambi con l’Inghilterra, se avesse continuato a produrre vino invece di mettersi a produrre il grano che importava dalla stessa Inghilterra. Il vantaggio sarebbe stato ancora maggiore, se invece di grano si fosse messo a produrre macchine.

La Germania dimostrò che Ricardo sbagliava. Essa dimostrò, infatti, che era possibile per un paese non ancora industrializzato, com’era invece l’Inghilterra, industrializzarsi fino a superare la stessa Inghilterra grazie ad una oculata politica industriale che mettesse in uso le sue forze produttive, come aveva suggerito Federico List in Il sistema dell’economia nazionale.

E’ quello che sta oggi succedendo nei rapporti fra le potenze capitalistiche occidentali e le nuove potenze economiche le quali stanno dimostrando che il problema della formazione del capitale nei paesi sottosviluppati può essere risolto attraendo capitali dall’estero grazie ai vantaggi comparati che la presenza di un enorme esercito industriale di riserva offre agli investitori esteri.

Questo fatto, da un lato, ha mandato a gambe all’aria la vecchia divisione internazionale del lavoro e ha posto in serie difficoltà le potenze capitalistiche occidentali nelle quali il costo di riproduzione della forza lavoro è molto più elevato di quello esistente nelle nuove potenze economiche; dall’altro lato ha dimostrato che il problema del sottosviluppo era più n problema politico relativo al controllo straniero sull’uso delle risorse locali che un problema economico.

L’economia di carta ha preso il sopravvento sull’economia reale, derivati, hedge funds hanno preso il sopravvento su fabbriche, operai, prodotti materiali. In altre parole, la ricchezza si è virtualizzata allo stesso modo che s’è virtualizzata la nostra vita.

Esiste ciò che si vede in televisione. Noi siamo ciò che si legge nei nostri profili online. Lo spettacolo ha preso il sopravvento sulla realtà. Siamo degli alienati che vivono vite virtuali. Non siamo più Tizio, Caio, Sempronio, Mevio, Tullio, siamo i nostri Id online, le nostre passwords: 46maggio19. Marx asseriva che non è la nostra coscienza che fa il nostro essere sociale, ma è il nostro essere sociale che fa la nostra coscienza. Se è così, allora dobbiamo chiederci, qual è l’essere sociale di una ragazza dei call center; qual è l’essere sociale di un giovane precario.

Come può svilupparsi una coscienza di classe in chi non ha classe di appartenenza, in chi trascorre la propria vita facendo i lavori più diversi per brevi periodi di tempo. Come può svilupparsi una professionalità in chi non ha una professione, in chi non ha mai imparato un mestiere; in chi sa far tutto perché ha sempre fatto dei lavori per i quali non era richiesta alcuna professionalità, alcun saper fare?

Quale vita può mai costruirsi costui’ E che senso può avere per lui una vita senza alcun punto di riferimento; una vita, per usare una celebre espressione di Deleuze e Guattari, da rizoma? Come può mettere radici chi non ha alcun terreno in cui porle? Non ha un futuro cui guardare con speranza? Che umanità è quella che stiamo generando?

L’uomo, si dice, è un animale sociale che non può vivere isolato, come il protagonista del racconto Il lupo della steppa di Hermann Hesse. L’uomo, si dice, è un animale politico che non può vivere allo stato brado. Ha bisogno di un’organizzazione, come spiegò Platone. Lo stato esiste perché nessun uomo può fare da solo tutte le cose di cui abbisogna.

In questo modo, si creò la prima elementare divisione del lavoro, nacquero le prime specializzazioni C’è chi si specializza nella produzione di punte di lancia e chi si specializza nella produzione di lame per coltelli. Chi si specializza nella produzione di fiocine e chi si specializza nella produzione di scodelle.

Siamo ancora nella fase primitiva della divisione del lavoro; siamo, cioè, in quello che Adam Smith chiamava lo stadio rude e rozzo della storia della società. Smith vedeva, infatti, la storia come susseguirsi di fasi attraverso le quali l’uomo era passato dalla barbarie primitiva alla civiltà. Oggi barbaro è il diverso, l’altro, l’immigrato specialmente se è di colore; è chi parla un’altra lingua a noi incomprensibile, ha altri usi e costumi, venera un altro Dio.

Questo fatto mette paura, rende più sottile la nostra percezione del rischio, ci fa sentire insicuri, determina la nostra domanda di sicurezza, anche se per ottenere maggior sicurezza dobbiamo rinunciare a parte della nostra libertà; dobbiamo accettare controlli che non avremmo mai accettato; accettiamo intromissioni nella nostra vita privata che avremmo sempre rifiutato.

Ritorniamo così al punto di partenza. La crisi contro la quale stiamo lottando non è una crisi come le altre. Essa è molto più complessa; essa è espressione, infatti, dell’intrecciarsi di differenti crisi che hanno coinvolto la nostra economia, la nostra società la nostra politica, le quali richiedono per la loro soluzione il varo d’un insieme di misure di carattere economico, sociale, politico che l’attuale sistema economico-sociale non è in grado di offrire.

Essa richiede quella che una volta si chiamava fuoriuscita dal sistema; superamento del capitalismo. Per andare dove? Non c’è stato spiegato che la storia è finita con il crollo dell’Unione sovietica. Che il comunismo mancò l’obiettivo, che non c’è alternativa al capitalismo? Se fosse davvero così, vorrebbe dire che il nostro destino è segnato, in quanto non c’è limite a quella che Eric Fromm chiamò auto-distruttività umana.

Questa è una possibilità che Marx non prese in considerazione. Marx possedeva una concezione della storia come progresso. Il comunismo rappresentava lo stadio superiore, il più evoluto, nel quale, secondo la celebre formula del Manifesto dei comunisti, “la libertà di tutti sarebbe stata la condizione della libertà di ciascuno”

Le cose andarono, com’è noto, in modo molto diverso. Preso il potere, il partito bolscevico, prese anche possesso dello stato e attraverso lo stato, assunse il controllo su ogni aspetto della vita economica, politica, sociale, culturale. Nacque così una nuova classe di funzionari di partito, funzionari dello stato, dirigenti industriali che gestì il potere in modo rude e violento. In gergo, era nota come la Nomenklatura.

Non era ammessa alcuna voce di dissenso, fosse essa espressione di un’ideologia progressista come quella di Sacharov o fosse essa espressione di un’ideologia ancorata al passato zarista come quella di Solzenitsyn. In altre parole, si trattava d’un sistema basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, non più in nome del profitto individuale, ma in nome del mantenimento del potere d’una classe di burocrati.

Tutto ciò non aveva alcun elemento in comune con la visione che Marx aveva del socialismo, ma era stato il prodotto d’una serie di circostanze che avevano costretto lo stesso Lenin a fare i conti con una realtà economica, sociale, politica e culturale che mal si prestava alla costruzione di un sistema economico, politico, sociale di tipo socialista.

L’idea base fu che, se il capitalismo voleva dire anarchia della produzione, economia di mercato, ricerca del massimo profitto individuale, il socialismo avrebbe dovuto essere l’esatto opposto: direzione centralizzata dell’economia, pianificazione economica, ricerca del massimo d benessere sociale. Il tutto da realizzarsi con i pochi strumenti teorici e pratici che erano allora a disposizione dei pianificatori.

Collegato a questo, era il problema del modello di industrializzazione: quali settori sviluppare, come finanziare gli investimenti, quale genere di organizzazione dei rapporti di lavoro dentro e fuori le fabbriche costruire. Si aprì un dibattito, si formarono delle scuole di pensiero, si crearono delle correnti politiche, si organizzarono manifestazioni politiche.

Le questioni dibattute furono molte. Qui è sufficiente ricordare alcune di esse. Per quello che riguardava il modello di industrializzazione due furono le principali scuole di pensiero. Una che sosteneva la necessità di mantenere un rapporto equilibrato tra i diversi settori della produzione; un’altra che sosteneva, invece, il punto di vista degli industrializzatori, di coloro, cioè, che ritenevano che lo sviluppo dell’industria e nel fattispecie dell’industria pesante dovesse aver la preferenza su quello dell’agricoltura e in particolare su quello dei beni di consumo, la cosiddetta industria leggera.

Per quello che riguarda le fonti da cui trarre le risorse necessarie allo sviluppo dell’industria, è da sottolineare come anche in questo campo si fossero formate due scuole di pensiero, l’una che faceva capo alla teoria di Preobrazenskij sulla accumulazione originaria socialista che sosteneva che le risorse dovevano essere tratte dall’agricoltura anche in modo forzoso; l’altra che faceva capo a Nicholai Bucharin per il quale occorreva favorire, invece, lo sviluppo dell’agricoltura..

Il dibattito si protrasse per alcuni anni che furono caratterizzati dalla nuova politica economia voluta da Lenin di incentivazione dell’iniziativa privata nelle campagne nella speranza che in questo modo si potesse aumentare la produzione agricola evitando gli sprechi delle confische e si potesse garantire così il rifornimento di generi alimentari alle città.

Il dibattito si concluse con la presa del potere da parte di Stalin che favorì la vittoria degli industrializzatori e segnò l’inizio del nuovo corso economico caratterizzato dalla direzione centralizzata della economia, dall’industrializzazione pesante, dalla collettivizzazione forzata delle campagne.

Destinati a restare inascoltati furono gli ammonimenti di cui Bucharin s’era fatto promotore in un articolo intitolato Note di un economista all’inizio del nuovo anno economico, nel quale metteva in guardia nei confronti dei pericoli insiti in un’industrializzazione spinta, perché come egli scrisse non si può costruire con i mattoni del futuro.

In altre parole, sosteneva Bucharin, non si può mettere in programma la costruzione di un certo numero di case se devono essere ancora costruite le fabbriche che dovranno produrre i mattoni con i quali dovranno essere costruite le suddette case.

La scelta a favore dell’industrializzazione pesante, della direzione centralizzata dell’economia e della collettivizzazione forzata delle campagne, comportò da un lato la crescita distorta dell’economia sovietica che costrinse a penosi sacrifici il popolo russo a causa della penuria di beni di consumo; dall’altro lato, comportò degli sprechi inauditi di risorse umane, economiche e naturali che si nascondevano dietro agli alti tassi di crescita dell’industria pesante sovietica.

Tali alti tassi d crescita furono al centro di accese discussioni fra economisti marxisti ed economisti borghesi, come allora si definivano, allo stesso modo che furono al centro di un acceso dibattito le questioni relative alla pianificazione dell’economia. Per gli economisti borghesi non era possibile realizzare, come spiegò l’economista austriaco di Ludwig von Mises, un calcolo economico razionale in un’economia che non fosse di mercato.

Ludwig von Mises scriveva a ridosso della Rivoluzione bolscevica. Oggi, sappiamo che, almeno in via teorica, è possibile realizzare un calcolo economico razionale sia utilizzando teorie e metodi elaborati dagli “ottimalisti” sovietici, come Kantorovic e Novozilov, che teorie e metodi elaborati in Occidente. Pressoché insormontabili, invece, si sono rivelati i problemi pratici.

Questa difficoltà nasce dal fatto che non è sufficiente emanare degli ordini di produzione corretti dal punto di vista teorico. Occorre che ciò che viene ordinato venga realizzato in tempi e modi previsti dai pianificatori e questo fatto pone dei problemi che sono praticamente insormontabili per una pianificazione di tipo centralizzato com’eraa quello sovietico.

Il modello di crescita sovietico fu per anni il modello di rifermento dei governi dei paesi in via di sviluppo (PVS) in generale e, in particolare, degli economisti marxisti; penso a Paul Baran e a Charles Bettelheim. Baran parlava di “ripida ascesa” e di massimo saggio di surplus investibile. Bettelheim parlava di “sviluppo accelerato”

Le teorie di Baran e di Bettelheim presentavano i difetti delle teorie dello sviluppo della prima generazione, penso a Sviluppo economico e struttura di Kuznets, a Teoria dello sviluppo economico di Lewis, a La formazione del capitale nei paesi sottosviluppati di Nurske che fu tradotto in italiano da Lucio Libertini.

Eccentrici rispetto al pensiero dominante in materia di sviluppo economico, furono Teoria economica e paesi sottosviluppati di Myrdal e La strategia dello sviluppo economico nel quale Hirschman criticava il modello sovietico e introduceva il concetto di connessioni. In base a questa teoria, gli investimenti per lo sviluppo andavano effettuati nei settori che presentavano maggiori connessioni a monte e a valle.

Il fallimento dei modelli tradizionali di sviluppo e, più in generale, delle politiche per lo sviluppo della prima generazione portò all’elaborazione di nuove teorie, come la teoria dei poli di sviluppo e delle regioni motrici; ovvero, le nuove teorie della nuova dipendenza di Theotonio Dos Santos, dello sviluppo del sottosviluppo di André Gunder Frank, dello sviluppo autocentrato di Samir Amin, dello scambio ineguale di Arghiri Emmanuel.

Oggi, tutto ciò appare relegato irrevocabilmente al passato. Il neoliberismo ha mietuto le sue vittime anche nei PVS. Nessuno più dibatte dei tassi sovietici di crescita economica. Per essere più precisi, nessuno più si cura di teoria dello sviluppo; nessuno più discute di modelli di crescita. Nessuno più discute del problema relativo al rapporto fa economia e politica. Tutto ciò che succede viene dato per scontato, come se fosse scritto nel libro del destino.

Nello suo studio sullo sviluppo del capitalismo in Russia, Smith venne usato da Lenin nella sua polemica contro i populisti e i seguaci russi di Simonde de Sismondi. Sismondi fu uno dei primi critici del capitalismo. Sismondi non credeva nella legge di Say, non credeva, come egli scrisse sulla Edinburgh Review, che l’offerta creasse la propria domanda, che i prodotti si comperassero con i prodotti, che gli economisti dovessero occuparsi solo della ricchezza “facendo astrazione dalle sofferenze degli uomini che producono questa ricchezza”.

Tali sofferenze erano note a Smith, il quale in un passo molto significativo della Ricchezza delle nazioni si interroga sulle conseguenze che anni di lavoro stupidamente ripetitivo avranno sulla mente dei lavoratori. Hegel, nella Filosofia dello spirito jenese, analizzando le pagine dedicate da Smith alla divisione del lavoro, introduce il concetto di alienazione: “Il lavoro diventa sempre più assolutamente morto, sempre più macchina, l’abilità del singolo diventa sempre più infinitamente limitata e la coscienza degli operai della fabbrica diventa sempre più degradata fino all’ottusità”.

Queste considerazioni di Smith e di Hegel ci permettono di capire cosa Marx intendesse dire quando, nei Manoscritti del 1844 scriveva che “il lavoro non produce soltanto merci, produce il lavoro e l’operaio come merce…l’oggetto che il lavoro produce, il prodotto del lavoro, si contrappone ad esso come un essere estraneo, come una potenza indipendente…”

Ne derivava, per Marx, che solo nel comunismo, grazie alla abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione e scambio, sarebbe stato possibile abolire l’alienazione dell’operaio di fronte all’oggetto del proprio lavoro e restituire all’operaio la sua perduta dignità.

Ritorniamo così all’oggi. I dati della crisi sono impressionanti; e ancora più impressionanti dei dati della crisi sono gli errori compiuti dai nostri governi in nome del mito del pareggio di bilancio che hanno fatto precipitare le nostre società in una recessione senza fondo che ha messo in ginocchio le classi popolari, a dimostrazione che non è vero che le classi sociali non esistono più.

Esse continuano ad esistere e lo stato continua ad essere un comitato d’affari come ai tempi della Curée di Zola, titolo intraducibile che può essere reso con l’espressione volgare “trippa per gatti”. I gatti sono i signori del finanzkapital, la trippa è costituita dai titoli dei debiti sovrani da essi utilizzati per le loro speculazioni.

L’ attuale crisi economica è stata spesso paragonata alla crisi del 1929. Il paragone è suggestivo, ma fuorviante. All’origine della crisi degli anni Trenta del secolo scorso vi fu, com’è noto, il crollo nel 1929 della borsa di Wall Street. Le vicende che portarono al Great Crash sono state narrate da Galbraith in un famoso libro intitolato Il grande crollo. Qui, è sufficiente ricordare che il crollo fu dovuto allo scoppio d’una bolla speculativa che aveva fatto salire vertiginosamente i corsi dei titoli durante una fase caratterizzata da quella che Shiller ha chiamato euforia irrazionale.

In altre parole, per dirla con Galbraith, nessuno può essere considerato responsabile della crisi; nessuno condusse la gente al macello. La crisi fu il prodotto della libera scelta di migliaia di persone spinte dal desiderio di diventare ricche. In realtà, la crisi scoppiò, come ricordò Gordon in Crescita e ciclo dell’economia americana, dopo un periodo di grande espansione sia a livello di produzione industriale che d formazione del capitale e, come scrisse Overy, le imprese lucravano cospicui profitti emettendo grandi quantità di azioni che eccedevano le capacità di assorbimento del mercato.

Il crollo di Wall Street si ripercosse sulla economia reale causando la chiusura d’un grande numero di aziende e un aumento drammatico della disoccupazione. Gli effetti negativi della crisi vennero aggravati dalla politica del governo americano, il quale, invece di porre in essere le necessarie misure anti-crisi, emanò una serie di provvedimenti che andavano in direzione affatto opposta.

Il crollo Wall Street ebbe conseguenze negative anche in Europa. Come ricordava Aldcroft, alla metà del 1930 tutti i paesi europei erano caduti vittime della crisi. Il peggio, però, doveva ancora arrivare. Esso arrivò nell’estate del 1931 con il crack del viennese Credit Anstalt.

Le ripercussioni negative del crollo di Wall Street si fecero sentire particolarmente duro in Germania che era ancora alle prese con le conseguenze economiche negative della Prima guerra mondiale e con le difficoltà create dal pagamento delle riparazioni di guerra, come Keynes aveva previsto in Le conseguenze economiche della pace. Coloro che trattarono con la Germania le condizioni della pace non erano preoccupati del futuro dell’Europa, ma erano unicamente interessati a punire la Germania imponendole una pace cartaginese.

La storia economica della Germania di Weimar può essere divisa, come ha scritto Weitz, in tre fasi; la prima 1921-23 fu caratterizzata dall’iperinflazione, la seconda 1924-29 fu caratterizzata dalla modernizzazione; la terza 1929-33 fu caratterizzata dalla depressione. In altre parole, la crisi creata dal crollo di Wall Street colpisce, come ha scritto Peukert, una “economia malata” e le cause della malattia erano disoccupazione di massa e debolezza della crescita.

In sede storica s’è discusso se la crisi degli anni Trenta fosse evitabile. La conclusione è stata, per usare le parole di Kindleberger, che la crisi avrebbe potuto essere evitata qualora fosse esistito un cd prestatore di ultima istanza il quale si fosse fatto carico dell’onere non lieve dell’aggiustamento mettendo a disposizione degli operatori economici e finanziari la liquidità necessaria a frenare la corsa alla vendita di attività finanziarie.

Fu in questo contesto che Keynes elaborò la sua teoria. Essa si basava sulla critica radicale della teoria dominante secondo la quale l’economia di mercato possedeva dei meccanismi automatici di aggiustamento come accadeva quando, come Hicks aveva spiegato in Teoria dei salaria, a causa della elevata disoccupazione, i salari cadevano in modo da rendere conveniente per le imprese la riassunzione dei lavoratori che erano stati in precedenza licenziati.

La stessa cosa accadeva sul mercato dei beni di consumo. Un eccesso di offerta faceva scendere i prezzi. La discesa dei prezzi rendeva conveniente il loro acquisto. Ciò faceva risalire i prezzi rendendo così nuovamente conveniente la ripresa della loro produzione. Se ciò non accadeva, la causa andava cercata nel fatto, come aveva notato Hicks in Teoria dei salari, che esistevano delle rigidità, ovvero, andava cercata nel fatto che le curve di domanda e di offerta non erano abbastanza elastiche perché i mercati non erano perfettamente concorrenziali.

In particolare, per quello che riguardava il mercato del lavoro, Cecil Pigou, in The Theory of Unemployment, aveva sostenuto che se c’era disoccupazione la causa andava cercata , da un lato, nella presenza dei sindacati che imponevano salari più elevati di quello che avrebbero dovuto essere; dall’altro lato, nel rifiuto dei lavoratori di prestare la loro opera per salari più bassi di quelli contrattuali. In altre parole, se esisteva disoccupazione, era per colpa dei lavoratori e delle loro organizzazioni sindacali. Quindi si trattava di disoccupazione volontaria.

Keynes non credeva nell’azione provvidenzialistica della mano invisibile della concorrenza e non nutriva alcuna fiducia nei meccanismi automatici di aggiustamento presenti in un’economia di mercato. Come egli aveva scritto nel 1926 in La fine del lasciare fare, il mondo non era governato dall’alto da una mano invisibile che trasformava il perseguimento dell’interesse individuale in benessere collettivo.

Inoltre, egli pensava che, come ebbe a scrivere nel 1923 nel saggio La riforma monetaria, “gli economisti si attribuiscono un compito troppo facile e troppo inutile, se, in momenti tempestosi, possono dirci soltanto che , quando l’uragano sarà lontano, l’oceano tornerà tranquillo”

Secondo Keynes, noi agiamo in un mondo che noi non conosciamo e raramente gli effetti delle nostre azioni, come egli aveva scritto nel Trattato delle probabilità, risultano essere quelli voluti. In queste condizioni, soltanto per un caso fortunato può crearsi una situazione di equilibrio di piena occupazione.

Per quello che riguardava la crisi in corso, egli contestava l’affermazione che essa potesse essere superata con una riduzione dei salari monetari. Secondo Keynes, come egli aveva sostenuto nel 1933 in I mezzi della prosperità, la via della ripresa passava attraverso l’investimento autonomo da parte dello stato di denaro fresco in modo da attivare il moltiplicatore degli investimenti. Y =kI, dove k è l’inverso della propensione al consumo.

Ciò significava creare, attraverso una articolata politica di lavori pubblici, un congruo numero di occupati che avrebbero speso i loro salari in beni di consumo che erano altrimenti destinati a restare invenduti. Per Keynes, infatti, il livello di occupazione dipende, da un lato, dalla propensione al consumo; dall’altro lato, dalla disposizione a investire. La prima dipende dal livello di reddito e e dalla sua distribuzione. La seconda dipende dalla preferenza per la liquidità, dal tasso di interesse e dall’efficienza marginale del capitale e da tasso di interesse.. L’efficienza marginale del capitale dipende dalla quantità di capitale esistente, dallo stato della fiducia. Il tasso di interesse dipende dalla preferenza per la liquidità e dalla quantità di moneta.

Per quello che riguarda la legge di Say potremmo dire che essa è valida in un’economia basata sul baratto dove tutti i beni vengono prodotti per essere scambiati. Non è valida in presenza della moneta che ha fra le sue funzioni anche quella di riserva di valore per cui solo una parte viene spesa nell’acquisto di beni, mentre una parte, spesso cospicua, viene trattenuta sotto forma di scorte, oppure, può essere investita nei mercati finanziari.

In termini generali, posiamo dire con Joan Robinson che fu allieva di Keynes a Cambridge, che “anzitutto Keynes ha riportato nell’economia politica la praticità dei classici”; poi, “ha fatto riemergere il problema morale che la teoria del laissez fare aveva abolito”; infine, “riportò il tempo entro la teoria economica”. Soprattutto, potremmo aggiungere noi prese il capitalismo sul serio, cosa che gli economisti neoclassici s’erano sempre rifiutati di fare. In tal senso Keynes potrebbe essere definito il Marx della borghesia la cui teoria, come scrisse Mattick, aveva uno scopo molto pratico: salvare il capitalismo dal declino.

La crisi favorì, alla lunga, un sempre più esteso intervento dello stato nell’economia. Emblematici furono i casi dell’America del New Deal e dell’Italia fascista, dove, nel 1933, venne fondato l’IRI in funzione congiunturale come ente provvisorio. Nel 1937, esso venne trasformato in ente permanente con il compito di assicurare allo stato fascista, diventato nel frattempo imperiale, il controllo sui settori strategici dell’economia italiana.

Il New Deal non produsse l’effetto sperato nel campo di pertinenza dell’economia e nel 1937 l’economia americana piombò in una nuova drammatica crisi economica. Fu solo con l’avvio della politica di riarmo che l’economia americana imboccò la strada della ripresa. Grande fu invece l’effetto positivo prodotto dal New Deal sul piano politico ideologico.

Da questo punto di vista, estremamente interessante è, ancor oggi, la lettura dei testi delle conferenze tenute dai collaboratori di Roosevelt per illustrare la NRA. Tali conferenze vennero pubblicate in volume nel 1934 con il titolo America’s Recovery Program. Il testo era aperto dalla conferenza di Dickinson il quale analizzò l’impianto della NRA alla luce dei cambiamenti avvenuti nel capitalismo nel corso degli ultimi decenni e spiegò che era necessario trovare il modo di limitare il potere economico delle nuove grandi imprese se si voleva salvaguardare la democrazia americana.

Lo sviluppo di tale linea di ragionamento portò alla formulazione da parte d Galbraith nel secondo dopoguerra della teoria dei “poteri contrapposti”. In questo modo, come conseguenza della crisi economica, si operò, per usare una celebre definizione di Polany, la “grande trasformazione” della società capitalistico-borghese che sanzionò il passaggio dal capitalismo concorrenziale fondato sull’attività di una miriade di imprese di medie e piccole dimensioni al capitalismo monopolistico fondato su imprese di grandi dimensioni non più gestite direttamente dai proprietari, ma da potenti consigli di amministrazione, come dimostrarono Berle e Means in Società per azioni e proprietà privata, opera da essi pubblicata nel 1932.

Pollock dedicò la propria attenzione al nascente fenomeno del capitalismo di stato. Buhrnam parlò di rivoluzione manageriale da lui definita come una rivoluzione nei rapporti di proprietà e nella gestione degli stessi. Tale teoria, criticata aspramente da Sweezy in Il presente come storia, per il quale l’avvento del capitalismo manageriale non modificava il tradizionale ordine economico capitalistico fondato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e scambio. ispirò la teoria del “nuovo stato industriale” di Galbraith che nel 1966 introdusse nel ragionamento economico il concetto di tecnostruttura.

La trasformazione del capitalismo da individualistico-concorrenziale in capitalismo monopolistico indusse gli economisti a sviluppare nuove teorie a livello di economia di impresa – teorie che cercavano di rendere conto delle trasformazioni avvenute appunto a livello di impresa quali la teoria della concorrenza imperfetta, la teoria della concorrenza monopolistica, la teoria della concorrenza tra pochi, la teoria dell’oligopolio, la teoria del grado di monopolio.

In un modo o nell’altro, tutte queste nuove teorie si occupavano della maniera i cui le imprese riuscissero a condizionare il mercato e potessero per questa via difendere e/o espandere la propria quota di mercato utilizzando a proprio vantaggio le esistenti barriere alla concorrenza.

Altri economisti avevano dedicato le loro energie nell’affrontare il problema delle crisi e, più in generale, il problema del ciclo economico. Di particolare interesse in questo campo sono lavori di Aftalion, Spiethoff, Mitchell, Hawtrey, von Hayek, Myrdal, Kondrat’ev.

In particolare, secondo la teoria di Kondratev, lo sviluppo nel lungo periodo della economia capitalistica sarebbe caratterizzato dalle presenza di onde lunghe generate da fattori quali guerre e rivoluzioni, innovazioni tecniche, scoperta di nuove miniere d’oro, la comparsa di nuove potenze economiche.

In questo contesto, si colloca l’opera di Schumpeter. Come egli scrisse in Cicli economici, sviluppando un’idea contenuta ini Teoria dello sviluppo economico, il progresso tecnologico è uno dei fattori determinanti lo sviluppo dell’economia capitalista. Esso, però, non procede i modo lineare, ma attraverso delle fasi che determinano lo sviluppo ciclico dell’economia capitalista. Fondamentali in tale contesto sono i concetti di innovazione e di imprenditore. Laddove tale funzione venga meno, viene meno, come egli scrisse in Capitalismo, socialismo, democrazia, anche la giustificazione dell’esistenza del capitalismo.

Timori sul futuro del capitalismo furono espressi anche da Hansen. Tre erano, secondo Hansen, gli “elementi costitutivi del progresso economico: le invenzioni, le scoperte geografiche e lo sviluppo di nuovi territori, lo sviluppo della popolazione.” Questi fattori mostravano segni di rallentamento e questo fatto non era certamente di buon auspicio per il futuro del capitalismo.

Per Kaleki, l’economista polacco considerato come l’alter ego di Keynes, “lo sviluppo di lungo di lungo periodo non è inerente l’economia capitalistica”. Anche per Kalecki, come per Schumpeter, le innovazioni sono il motore dello sviluppo economico. Il crescente grado di monopolizzazione dell’economia ovvero l’aumento grado di monopolio delle imprese avrebbe potuto disincentivare l’introduzione di innovazioni da parte delle imprese e rallentare la crescita dell’economia capitalistica.

Posizione analoga era stata espressa da Sweezy quando s’era chiesto se l’economia capitalistica non stesse entrando in un’epoca di depressione cronica. Secondo Sweezy, infatti, era inerente al capitalismo una tendenza al sottoconsumo che portava al sottoutilizzo dei mezzi di produzione. Si creava in questo modo un crescente surplus economico che veniva assorbito essenzialmente nell’aumento delle spese militari.

A conclusioni simili era pervenuto Baran nelle Riflessioni sul sottoconsumo. Per tale via, Sweezy e Baran facevano propria, seppurev in forma diversa quella che era stata la posizione di Rosa Luxenburg , in Accumulazione del capitale, aveva notato che il capitalismo s’era sviluppato in un ambiente non capitalistico e che gli occorreva l’esistenza di un ambiente non capitalistico per potersi sviluppare ancora.

In realtà, come i fattori scatenanti la crisi sono, come ricordava Dobb in l’anarchia della ricordava Dobb, produzione capitalistica e la ricerca del massimo profitto che porta i capitalisti a sovra-accumulare capitale il quale viene poi svalorizzato attraverso la crisi.

La crisi degli anni Trenta spianò la strada al nazismo che scatenò, a sua volta, la Seconda guerra mondiale.. La responsabilità della Germania nazista nello scatenamento della Seconda guerra mondiale venne messa in discussione dal famoso storico britannico Taylor, secondo il quale fu la Gran Bretagna che, modificando la sua politica verso l’Europa, si rese responsabile della crisi che portò allo scatenamento della Seconda guerra mondiale. Per Taylor, Hitler non fece altro che dare nuovo impulso al tradizionale espansionismo tedesco verso oriente.

In realtà, se Francia e Gran Bretagna avessero voluto fermare Hitler, esse avrebbero potuto farlo in più d’una occasione. Il problema è che esse non lo vollero fare. I motivi furono molti, non ultimo il fatto che gli elettori francesi e britannici non avrebbero probabilmente accettato d’essere trascinati dai loro governanti in una nuova guerra con la Germania.

Per quello che riguarda l’ascesa al potere di Hitler, è da ricordare che essa venne facilitata, com’era accaduto in Italia con il fascismo, dal comportamento della classe dirigente tedesca che credette di poter utilizzare Hitler in funzione antisocialista.

Inoltre, è da ricordare che non si può capire l’ascesa al potere di Hitler se si prescinde dalla crisi che sconvolse la breve e drammatica vita della repubblica di Weimar. Frutto d’una rivoluzione abortita, essa non era mai riuscita a ottenere il consenso della maggioranza dei tedeschi, i quali, quando gli eventi giunsero al dunque, le voltarono le spalle e l’abbandonarono al suo destino senza provare alcun rimpianto.

Ancora aperta, invece, è la discussione sulla responsabilità del popolo tedesco per i crimini compiuti dal regime nazista. Ora io credo sia sbagliato parlare di responsabilità collettiva, ovvero, chiamare un intero popolo sul banco degli accusati. La responsabilità è sempre individuale, a meno chi compie l’azione non sia legato a qualcun altro da un accordo preventivo. E’ l’individuo che commette il crimine. Chiarito ciò, possiamo pure discutere di tutto il resto al fine di dare a ciascuno il suo. Ciò non riguarda solo il popolo tedesco. Riguarda anche la chiesa cattolica.

Mentre in Occidente imperversava la più grave crisi che avesse mai colpito il capitalismo, in Russia si stava costruendo una società di nuovo genere i cui pilastri erano: la pianificazione economica centralizzata, il partito unico della classe operaia, un potente e temuto servizio di sicurezza, un’ideologia ufficiale che veniva inculcata nelle teste dei bambini fin dalle scuole elementari e che costituiva, in quanto teoria dei “nessi dell’esistente”, la fonte di ogni sapere.

Tale ideologia, nota come materialismo dialettico, era la rielaborazione del pensiero di Marx letto attraverso l’interpretazione che ne era stata data da Engels, cui s’erano aggiunti i contributi di Lenin. E’ un errore infatti considerare il marxismo come un blocco monolitico. Il pensiero di Marx differisce da quello di Engels il quale differisce da quello di Lenin che differisce da quello di Marx. Per Marx, la rivoluzione era il punto d’arrivo di un processo storico che era necessario alla creazione delle basi materiali del socialismo. Per Lenin, la rivoluzione era il punto di partenza del processo storico che avrebbe portato alla costruzione del socialismo. Per Marx, la coscienza di classe si formava nel corso del processo storico che creava le bassi materiali della costruzione del socialismo. Per Lenin, la coscienza di classe doveva essere portata al proletariato dall’esterno.

Per Marx, il soggetto rivoluzionario era rappresentato dalla classe operaia. Per Lenin, il soggetto rivoluzionario era rappresentato dal partito intesa come avanguardia politica composta da rivoluzionari di professione.

Engels, figlio di un industriale tessile della Renania, finito il liceo, era stato mandato dal padre a farsi le ossa a Lubecca; quindi venne inviato a Manchester, dove il padre aveva aperto una succursale. Engels era, perciò, un autodidatta e come tale si mise a studiare filosofia, fisica, chimica, biologia. Chi legga oggi i sui scritti in materia non può non rimanere colpito dalla loro ingenuità.

Malgrado ciò, egli influenzò il pensiero socialista più di Marx. Fu Engels infatti a dare la definizione del materialismo dialettico come “filosofia dei nessi dell’esistente” che tanta parte ebbe nella formazione del Diamat sovietico. Lenin era un rivoluzionario di professione, non era un filosofo; tuttavia, egli si occupò, per motivi politici, anche di filosofia. Lenin era un “realista”, sbeffeggiava la cosa-in-sé di Kant e ironizzava sulla nuova fisica senza aver compreso, come scrisse il socialista olandese Pannekoek in Lenin filosofo, il significato della rivoluzione quantistica.

Per Lenin, l’unica differenza era fra ciò che sappiamo e ciò che ancora non sappiamo, come scrisse in Materialismo e empiriocriticismo. Lenin pensava, come scrisse in Quaderni filosofici, che le cose del mondo esterno si riflettessero nel nostro cervello.

Lenin ragionava come un economista classico. La sua visione dello sviluppo dell’economia di mercato era prettamente smithiana. Critico di Simondi, come dimostra il suo saggio sul Romanticismo economico, egli associava, infatti, come egli scrisse in Lo sviluppo del capitalismo in Russia, sviluppo dell’economia di mercato e sviluppo della divisione del lavoro.

Il suo scritto economico più importante è comunemente considerato Imperialismo fase suprema del capitalismo. Nel saggio, pubblicato nel 1917, egli intendeva dimostrare le origini economiche della Prima guerra mondiale. Secondo Lenin, l’imperialismo era il prodotto del capitalismo monopolistico sorto dalla fusione fra banche e industria.

L’analisi di Lenin, stimolante dal punto di vista politico, era gravemente manchevole, come dimostrarono Baran e Sweezy, dal punto di vista economico, mancando nel saggio di Lenin un’analisi microeconomica del modo di funzionamento delle grandi imprese moderne.

Alla guida della nuova società in costruzione in Russia c’era Stalin, un uomo, che era stato criticato dallo stesso Lenin per i suoi modi militareschi, la sua insofferenza per ogni genere di dibattito politico, per il suo modo burocratico di affrontare i problemi del partito. Quest’uomo, tanto odiato quanto temuto, era riuscito a creare un filo diretto con le masse alle quali l’ideologia ufficiale affidava il compito di creare questo nuovo genere di società.

Gli studiosi di cose sovietiche si sono a suo tempo chiesti, per usare le parole di Nove, se Stalin fosse necessario; ovvero, se fosse destino della Russia cadere nelle grinfie di Stalin. Io credo di no. Stalin non fu necessario, come la Rivoluzione d’ottobre non fu ineluttabile. Stalin e, più in generale, il fenomeno dello stalinismo, furono, come dimostrò Reiman, il prodotto d’una serie di circostanze economiche e di decisioni politiche che segnarono il corso della storia russa.

L’abilità di Stalin consistette nel sapersi avvalere delle suddette circostanze per conquistare il potere. Poi, una volta conquistato il potere, egli usò in modo spietato gli strumenti che gli erano forniti dal potere che era nelle sue mani o per liberarsi di tutti coloro che avrebbero potuto ostacolare la sua azione o per vendicarsi delle umiliazioni subite. Il metodo fu quello di offrirli in pasto alle masse con l’accusa d’aver tradito la causa della rivoluzione.

Fu così che venne messa a morte tutta la vecchia guardia bolscevica. Stalin fu autore d’una nutrita serie di scritti e discorsi che diventarono la lettura obbligata dei comunisti di tutto il mondo. Come scrittore, Stalin fu una nullità. Ed una nullità fu anche come ideologo. Ciononostante, egli affascinò fior fiore di intellettuali in tutto il mondo, a dimostrazione del potere micidiale dell’ideologia.

Bettelheim, nel libro Lotte di classe in Urss 1917-1930, critica quella che egli chiama la visione idealistica della storia dell’Unione sovietica, propria di storici come Ellenstein, che vedono nella creazione dell’Unione sovietica la realizzazione pratica del pensiero di Marx. In realtà, se è vero che, quando Marx parlava di socialismo, pensava a tutto meno che alla Russia da lui considerata troppo arretrata per essere oggetto del suo interesse; è anche vero che furono proprio Lenin e Stalin a assumere il pensiero in Marx come riferimento della loro azione politica.

Per renderci conto di questo fatto, possiamo pensare agli appunti preparatori di Stato e rivoluzione di Lenin, oppure, possiamo pensare a Materialismo storico, materialismo dialettico di Stalin. Ciò non significa che Marx debba essere considerato l’ispiratore dei crimini di Stalin.

Stalin era, come ha messo in evidenza Amis, un dittatore sanguinario che si divertiva a giocare a gatto e topo e che godeva nel far soffrire le sue vittime prima di consegnarle ai suoi boia, nessuno dei quali è morto nel proprio letto.

Chiarito ciò, va ricordato che, se fu possibile a Stalin procedere all’eliminazione fisica dei suoi avversari politici per vie legali, ciò accadde in virtù d’una concezione strumentale del diritto che era considerato, per usare le parole del pubblico accusatore nei processi si Mosca, “forza materiale nella costruzione del socialismo”.

In questo contesto, io credo sia difficile comprendere il pensiero politico bolscevico prescindendo dalla concezione comunista del diritto cui Kelsen dedicò a suo tempo alcuni saggi fondamentali.

La Seconda guerra mondiale aprì la via al lungo boom degli anni ’50-’60 che – è stato detto – vide il trionfo delle idee di Keynes. In realtà, gli anni ’50-’60 videro il trionfo della cd sintesi neoclassica. In tal senso, più che gli anni di Keynes essi furono gli anni di Modigliani.

Keynes non era un rivoluzionario. Professore di economia a Cambridge, direttore di “Economic Journal”, membro della delegazione britannica ai colloqui di pace a Versailles, membro della delegazione britannica a Bretton Woods, frequentatore del Circolo di Bloomsbury, amico di Wittgenstein, autore di ponderosi libri di economia, di brillanti saggi di attualità politica, di fondamentali testi di logica matematica, era un liberale vecchio stampo che non voleva abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione e scambio. Ciò non gli impedì di elaborare una critica della teoria economica dominante che ne distruggeva i fondamenti.

La pubblicazione di tale critica gli attirò gli strali dei suoi colleghi di Cambridge e delle altre università. Fu così che si pensò, stimolati da una famosa recensione di Hicks, di correre ai ripari cercando di dimostrare che la teoria di Keynes rappresentava un caso particolare della teoria economica dominante che si registra quando le condizioni economiche sono tali da scoraggiare gli investitori anche in presenza di un tasso di interesse prossimo a zero. Nacque in questo modo con il contributo fondamentale di Modigliani la cd sintesi neoclassica.

Il nome di Keynes è stato spesso associato a quello dei teorici dell’economic planning. Niente di più sbagliato. Keynes era un economista tradizionale; né ci potremmo aspettare qualcosa di diverso da un allievo di Marshall. Keynes s’era reso conto che la tradizionale prassi liberale di attendere che che la crisi facesse il suo corso non funzionava più. Occorreva intervenire con denaro fresco per mettere in moto il moltiplicatore.


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