giovedì 3 dicembre 2015

Economia politica e capitalismo

CORRADO BEVILACQUA

La" scienza deprimente spiegata ai profani



La scienza deprimente. L’economia politica studia la produzione e la distribuzione di beni e servizi atti a soddisfare i bisogni umani [O. Lange Economia politica, Editori Riuniti] Il concetto di bisogno è ampio e controverso [A. Heller Teoria dei bisogni, Feltrinelli]. Esso comprende infatti sia i bisogni naturali, sia i cosiddetti bisogni indotti, sia i bisogni materiali che quelli spirituali. Un libro è un bene economico che soddisfa un bisogno spirituale. Una bistecca è un bene economico che soddisfa un bisogno materiale. Un panfilo è un bene economico che soddisfa un bisogno indotto.

Secondo la tradizione l’economia politica nacque in Scozia nel 1776 con la pubblicazione di Indagine sulla natura e sull’origine della ricchezza delle nazioni di Adam Smith la quale diede i natali al moderno concetto di uomo economico [L. Dumont Homo aequalis, Adelphi], ovvero, al  rappresentante di una nuova visione del mondo, oggi definita come borghese: la nascita della economia politica coincide con la nascita del capitalismo moderno. [A. Hirschman Le passioni e gli interessi.  Feltrinelli].

L’uomo economico è l’uomo borghese [W, Sombart Il borghese, Guanda], l’uomo che, prima di compiere le sue scelte siano esse economiche o di altra natura, soppesa attentamente profitti e perdite, costi e benefici, utilità e disutilità. L’uomo economico è una sorta di Robinson Crusoe, prototipo del borghese [S. Hymer Robinson Crusoe e i segreti dell'accumulazione originaria, in Monthly Review, sett. 1971].

I precursori. Fra i precursori di Smith spiccano i nomi di sir William Petty e di François Quesnay. Petty può essere ritenuto il fondatore della moderna statistica economica. Le sue opere più note sono Aritmetica politica, Anatomia politica di Irlanda, Trattato delle imposte. Petty visse nel XVII secolo. Petty era medico militare e amava ragionare con i numeri. Chi  ama ancor oggi ragionare con i numeri non può non sentirsi attratto dalla sua opera.

François Quesnay, fu medico di Madame de Pompadour ed economista. E’ considerato il caposcuola dei Fisiocratici. Scrisse per l’Enciclopedia degli articoli su temi di economia agraria e compilò una serie di famosi tableaux économiques, fra i quali va annoverato il celebre tableau a zigzag. [F. Quesnay Scritti economci, Isedi]

Petty è noto per aver pronunciato la famosa frase: “Il lavoro è il padre e la terra è la madre di ogni ricchezza”. Quesnay è famoso per aver declassato a lavoro sterile il lavoro degli artigiani. Per Quesnay solo il lavoro agricolo era produttivo. Quesnay inoltre è celebre per la sua concezione dell’ordine naturale delle cose. Smith riabilitò il lavoro degli artigiani e sbeffeggiò preti, saltimbanchi e altri onorati ordini della società [J. A. Schumpeter Storia dell'analisi economica, Boringhieri]

Da tempo, non si parla più di Economia politica, ma si parla di Economica  – Economics in inglese – oppure di Analisi economica, volendo sottolineare il carattere scientifico e, per questo, neutrale della Economica [M. Dobb Economia politica e capitalismo, Boringhieri]. La verità è che la visione del mondo che sta dietro l’Economica è altrettanto ideologica della visione del mondo che stava dietro la Economia politica. [P. Samuelson Economica, Utet] Come Marx scrisse in Miseria della filosofia,

Gli economisti esprimono i rapporti della produzione borghese, la divisione del lavoro, il credito, la moneta, ecc., come categorie fisse, immutabili, eterne… Gli economisti ci spiegano come avviene la produzione entro questi rapporti dati, ma ciò che non ci spiegano è come questi rapporti si producano, vale a dire non ci spiegano il movimento storico che li ha generati.

Il capitalismo. Il capitalismo è una formazione economico-sociale che si basa sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e scambio; sulla libertà di iniziativa, su un mercato del lavoro governato dalla legge della domanda ed offerta, su imprese che fanno uso del calcolo economico-razionale. [M. Weber Storia economica, Donzelli]. Il capitalismo comparve in un ben determinato periodo storico ed è destinato a scomparire come tutto ciò che attiene alla storia [M. Dobb Problemi di storia del capitalismo, Editori Riuniti]

E’ famosa tesi di Max Weber sull’origine protestante dell’etica capitalistica. Tale tesi fece molto discutere. Vedi le opere di Richard Tawney, di Ernst Troelsch e di Amintore Fanfani. Oggi, quello che oggi possiamo dire in merito a questa tesi è che il rapporto fra economia ed etica è un rapporto molto complesso [A. Sen Economia ed etica, Laterza] e che se vi sono aspetti del protestantesimo che possono aver favorito l’affermarsi dello spirito del capitalismo, è altrettanto vero, come dimostrò Fanfani, che altri aspetti non meno importanti sono presenti nel cristianesimo. [L. Gallino Dizionario di sociologia, Utet]

E’ nota pure la tesi di Marx che individuò l’origine del capitalismo nella comparsa del moderno proletariato di fabbrica. In realtà, sia la tesi di Weber che la tesi di Marx colgono degli aspetti importanti del problema inerente l’origine del capitalismo, ma non lo risolvono. [A. Cavalli, a cura di, Le origini del capitalismo, Loescher]

La stessa cosa può essere detta del dibattito che si aprì a suo tempo in campo marxista in merito alla transizione dal feudalesimo al capitalismo cui parteciparono Maurice Dobb e Paul Sweezy.  [La transizione dal feudalesimo al capitalismo, a cura di Angelo Bolaffi, Savelli].

Un dibattito altrettanto acceso fu quello che ebbe come oggetto del contendere le cosiddette condizioni dell’industrializzazione [P. Bairoch Rivoluzione industriale e sottosviluppo, Einaudi] e i cosiddetti vantaggi del ritardo [A. Gerschenkron Il problema storico dell'arretratezza economica, Einaudi]. Un fatto, comunque, è certo. Tutti i paesi oggi considerati sviluppati presentano alcuni aspetti economici, sociali, politici e culturali comuni. [D. Landes Ricchezza e povertà delle nazioni, Garzanti].

Inoltre, non dobbiamo dimenticare, da un lato, il ruolo fondamentale svolto dallo sviluppo della della scienza e della tecnica. [D. Landes Prometeo liberato, Einaudi]; dall’altro lato, il fatto che ogni paese ha seguito una via all’industrializzazione diversa da quella degli altri paesi e che, come dimostrò Tom Kemp esiste una quantità di modelli di industrializzazione. [T. Kemp Modelli di industrializzazione, Laterza. Id L'industrializzazione in Europa nell'Ottocento, Il mulino].

Nella pubblicistica corrente, capitalismo è considerato sinonimo di economia di mercato. Non è esatto. Esiste anche il capitalismo di stato o, come scrivevano gli economisti marxisti, il capitalismo monopolistico di stato, cioè quella forma di capitalismo in cui lo stato viene a svolgere un ruolo fondamentale nel processo di accumulazione del capitale [F. Pollock teoria e prassi dell'economia di piano, De Donato, C. Offe Lo stato nel capitalismo maturo, Etas Libri. J. Habermas La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, Laterza, M. Horkheimer Lo stato autoritario, in La società di transizione, Einaudi].

Il concetto di economico. “La Rete sembra promuovere una nuova cultura del dono”, hanno scritto di recente l’antropologo Marco Aime e l’economista Anna Cossetta. Ma, hanno aggiunto, sarà in grado di creare un legame, una vicinanza, una reale comunità?

La risposta che noi possiamo dare alla domanda posta da Aime e Cossetta dipende da ciò che intendiamo per comunità. Il significato della parola comunità è già cambiato più volte nel corso del tempo e probabilmente è destinato a cambiare ancora, in relazione al cambiamento intervenuto nel nostro modo di vivere e di lavorare.

La stessa cosa può essere detta per la parola dono. E’ evidente, infatti, che la parola dono esprime nell’epoca di Internet una realtà molto diversa da quella espressa dalla medesima parola in riferimento alle comunità primitive descritte da Marcel Mauss nel suo famoso “Saggio sul dono”.

Sia come sia, l’osservazione di Aime e Cossetta è molto importante perchè ci ricorda un fatto che noi spesso dimentichiamo, vale a dire la storicità delle nostre istituzioni economiche e che come oggi le nostre comunità sono basate sul principio dello scambio, così sono esistite ed esistono ancora comunità basate, per dirla con Karl Polany, sulla reciprocità e sulla redistribuzione. [K. Polany Economie primitive, antiche e moderne, Einaudi.]

Il moderno concetto di economico nacque, come abbiamo visto, all’inizio dell’era moderna con l’avvento al potere della borghesia ed ebbe la sua consacrazione nella “Ricchezza delle nazioni” di Adam Smith. Come scrisse infatti Albert Hirschman, “il fine principale de ‘La ricchezza delle nazioni’ consiste nell’affermare un solenne principio economico che giustificasse il libero perseguimento del personale interesse da parte di ciascuno”. [A. Hirschman Le passioni e gli interessi, Feltrinelli]

In realtà, come dimostrò Thomas Nagel nel suo saggio intitolato Possibilità dell’altruismo, esiste anche l’altruismo, ovvero, esistono anche delle motivazioni non egoistiche dell’agire umano. [B. Frey Non solo per denaro, Mondadori].

Il capitalismo secondo Federico A.von Hayek. Capitalismo per von Hayek. icona del neoliberismo, significa libertà, libertà di giocare con la propria vita e la vita degli altri. Il punto di vista di von Hayek è l’esatto opposto del punto di vista di Max Weber. Infatti, laddove Weber metteva in luce la presenza di una morale dell’impegno e della responsabilità dovuta all’origine riformatrice dello spirito del capitalismo [M. Weber L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, Sansoni]; von Hayek enfatizza l’aspetto ludico dell’attività economica in regime capitalistico. Chi svolge un’attività economica in regime capitalistico, per von Hayek è completamente irresponsabile delle conseguenze delle sue azioni, ammesso che egli non abbia compiuto quache reato. [F. A. von Hayek Legge, legislazione, libertà, Il saggiatore]

Il capitalismo secondo Milton Friedman. Il capitalismo secondo Milton Friedman è sinonimo di efficienza, libertà e democrazia. In realtà, le cose stanno in modo affatto opposto. La concezione friedmaniana del capitalismo postula infatti una società fondata su un’economia di concorrenza perfetta nella quale esiste una miriade di piccole imprese che ricevono i prezzi dal mercato e che, date le loro piccole dimensioni non sono in grado di condizionare il funzionamento del mercato. [M. Friedman Capitalismo e libertà, Studio Tesi. Id Liberi di scegliere, Longanessi.]

Il capitalismo reale. L’economia contemporanea è tutto meno che di concorrenza perfetta ed è caratterizzata da forme non-concorrenziali di mercato che consentono alle grandi imprese non solo di controllare il mercato dei loro prodotti e servizi, ma consentono loro anche di controllare i giornali, le emittenti televisive, le produzioni cinematografiche; in altre parole, consentono loro di plasmare la società a propria immagine e somiglianza, creando i consumatori dei propri prodotti e servizi con pubblicità più o meno occulte, condizionando l’azione dei governi attraverso l’azione di potenti lobby. [R. Reich Supercapitalismo. Fazi. B. Barber Consumati, Einaudi].

Concorrenza e monopolio. Chiunque legga le “Lezioni di politica sociale” di Luigi Einaudi non può non rimanere colpito dalla vivacità con la quale l’autore descrive il funzionamento di un’economia di mercato. Il libro venne dettato da Einaudi nel 1944 e, a quell’epoca, con tutto il rispetto che è dovuto al suo autore, il mercato descritto nel libro apparteneva ormai al mondo delle favole.

L’economia di mercato, ovvero, se vogliamo chiamarla con il suo nick name, il capitalismo, aveva imboccato la strada della monopolizzazione e i governi dei paesi capitalistici avanzati avevano cominciato ormai da tempo a mettere in atto delle misure anti-trust.

Ancora nel 1910 l’economista marxista austriaco Rudolf Hilferding aveva dato aalla sstamapee il libro “Il capitale finanziario” nel quale analizzava il modo di funzionamento del nuovo capitalismo nato dalla fusione fra capitale industriale e capitale bancario.

Nel 1933, Joan Robinson aveva pubblicato il saggio sull’economia della concorrenza imperfetta e Edward Chamberlein aveva pubblicato il saggio sulla concorrenza monopolistica. Gardiner Means e Adolf Berle avevano dato alle stampe “Proprieà privata e società per azioni” nel quale analizzavano il modo di funionaamento delle moderne società per azioni basato sulla separazione fra proprietà e controllo.

Il 1933 fu anche l’anno in cui in America venne lanciato il New Deal basato sull’idea che si era entrati in un’epoca che rendeva necessaria l’instaurazione di nuovi rapporti fra stato e economia; e fu sulla base di questa idea che venne elaborata la teoria dei poteri contrapposti esposta da John K. Galbraith nel 1957 in “Amerrican Capitalism”.

L’anno prima, il nostro Paolo Sylos Labini aveva pubblicata la prima edizione di “Oligopolio e progrsso tecnico” che diventò un classico dell’argomento per la complessità e l’acutezza dell’analisi.

Sono trascosi cinquantaquatro anni d’allora. Le biblioteche si sono riempite di libri sull’argomento. Nuove leggi anti-trust sono state emanate; il problema, però, non è staato risolto, né potrà mai essere risolto perché è la logica che governa il modo di funzionamento del capitalismo che porta inevitabilmente alla monopolizzazione dell’economia e fa piazza pulita delle “robinsonate” alla Milton Friedman.

In questo quadro, penso che un libro come “Il capitale monopolistico” di Baran e Sweezy, malgrado i suoi errori, abbia ancora molte cose da insegnarci, ad esempio in materia di spese militari e della relativa militarizzazione dell’economia e della società.

Come dire che non è solo per amore della democrazia e della pace che noi abbiamo fatto guerra alla Jugoslavia, all’Iraq e che noi samo oggi in Afghanistan, ma perchè a far politica è, oggi come ieri, il complesso militare-industriale.

 [L. Einaudi "Lezioni di politica sociale", Einaudi, R. Hilferding "Il capitale finanziario", Feltrinelli, A. Berle G. Means "Società per azioni e proprietà privata", Einaudi, J. K. Galbraith "Il capitalismo americano"", Comunità, P. Sylos Labini "Oligopolio e progresso tecnico", Einaudi, M. Friedman "Capitalismo e libertà", Studio tesi, P. Baran P. Sweezy "Il capitale monopolistico", Einaudi]


Il capitalismo secondo Veblen. In principio fu il branco. I nostri antenati, dai tratti somatici ancora scimmieschi, si muovevano a gruppi, alla ricerca di qualcosa da mangiare e di femmine da razziare. Come ricordava Veblen in Teoria della classe agiata, la lotta per il possesso dei beni seguì la lotta per il possesso delle donne e la facilitò.

Thorstein Veblen non è mai stato considerato un grande economista. Il suo nome compare appena nelle più famose storie del pensiero economico. Egli infatti è sempre stato considerato più un sociologo che un economista, più uno psicologo che un analista economico. La lettura della sua opera ci aiuta a capire però il capitalismo meglio di quello che fanno le opere dei suoi più famosi colleghi.

Veblen ci parla infatti del capitalismo in carne e ossa, ci illumina sui vari aspetti della concorrenza capitalistica; mostra i lati oscuri  della accumulazione capitalistica; ci introduce ai misteri del “consumo vistoso”; evidenzia l’istinto di rapina della società capitalistica. In altre parole, ci parla di ciò di cui non si parla mai e che costituisce invece il basamento sul quale è costruito il capitalismo. [T. Veblen Teoria della classe agiata, Il saggiatore]

Il capitalismo secondo Weber. Per Weber capitalismo significava razionalità – calcolo razionale, impresa gestita con criteri razionali, diritto razionale. [M. Weber Economia e società, Comunità] Tale razionalità era l’altra faccia dell’ascesi protestante. [M. Weber Etica protestante e spirito del capitalismo, Sansoni]. Ne derivava, per Weber che, una volta che l’elemento ascetico d’origine protestante fosse svanito, il capitalismo  si sarebbe trasformato in una fredda “gabbia d’acciaio”. [M. Weber Economia e società, Comunità].

Il capitalismo secondo Marx. Karl Marx, l’autore che più d’ogni altro fu acerrimo critico del capitalismo, non possedeva il concetto di capitalismo e perderemmo il nostro tempo a cercare la parola capitalismo fra le migliaia di pagine della sua opera. Per Marx, il capitalismo era una formazione economico-sociale caratterizzata dalla proprietà privata dei mezzi di produzione e scambio. Essa era comparsa in una determinata epoca della storia ed era destinata ad essere sopraffatta dalla contraddizione fra sviluppo delle forze produttive e i rapporti capitalistici di produzione.[K. Marx Prefazione a Per la critica dell'economia politica, Editori Riuniti]

I soggetti economici. I soggetti economici che ci interessano sono lo stato, le famiglie, le imprese, le banche. Le famiglie, secondo una classica definizione sono le cellule della società. Sono l’istituzione che si cura delle condizioni di vita della popolazione. Le famiglie tenendo conto del reddito percepito dai loro componenti decidono quanto del loro reddito deve essere consumato e quanto deve essere risparmiato. I risparmi sono normalmente tenuti in banca. Con il loro reddito, le famiglie pagano i beni e i servizi da esse acquistati – luce, acqua e gas – e pagano le imposte, le tasse ed i contributi volontari.

Le imprese producono beni e servizi, assumono i loro dipendenti, pagano loro stipendi e salari, pagano le imposte e tasse, prendono denaro a prestito dalle banche e pagano loro gli interessi.

Le banche prendono il denaro proveniente dalle famiglie e lo prestano alle imprese. Senza banche l’attività economica sarebbe impossibile, da qui le recenti polemiche sulla riottosità delle banche e concedere denaro alle imprese venendo così ad aggravare la situazione economica del paese.

Lo stato gestisce la cosa pubblica utilizzando il denaro proveniente dalla attività fiscale. Altre fonti di entrata per lo stato sono l’emissione di moneta e la vendita di titoli sul mercato. Ciò è quanto succede in condizioni normali. Come vedremo, tali condizioni possono mutare per diverse ragioni.

Crisi economiche. La letteratura sulle crisi economiche è vastissima. [ N. De Vecchi Crisi economiche, Boringhieri]. In questa sede, è sufficiente ricordare lo schema analizzato in precedenza. Da quello schema si deduce che le crisi sopravvengono quando succede qualcosa che impedisce ai flussi di denaro e di beni e di servizi di scorrere liberamente entro i loro argini.

Facciamo il caso di un’economia che sta per raggiungere la frontiera della piena occupazione. Ciò comporta un surriscaldamento dei circuiti economici che provoca un innalzamento dei prezzi e dei salari. A questo punto, il governo, ovvero, l’autorità monetaria possono assecondare il processo in modo da consentire all’economia un “rientro morbido”; oppure, possono stringere i cordoni della borsa, con la conseguenza di strangolare il processo e di farlo morire per asfissia, come è accaduto in Italia nel 1963, quando la stretta monetaria effettuata dalla Banca d’Italia pose fine al cosiddetto Miracolo economico. [M. Salvati Economia e politica in Italia dal dopoguerra ad oggi, Garzanti]

Una crisi può scoppiare anche per eventi esterni, come accadde con l’oil shock del 1973. Allora si ebbe un’impennata dei prezzi del petrolio che si accompagnò ad una caduta della produzione e dell’occupazione che causò una situazione di stagflation, stagnazione abbinata a inflazione.

In termini generali, le cause delle crisi, secondo gli economisti marxisti  sono riconducibili da un lato all’anarchia della produzione capitalistica, dall’altra alla ricerca del massimo profitto. [M. Dobb Economia politica e capitalismo, Boringhieri] Non esiste in Marx una teoria delle crisi. Dagli schemi della riproduzione allargata del Capitale è possibile ricavare una teoria delle crisi da sovrapproduzione, da sproporzione, da realizzo. [P. Sweezy La teoria dello sviluppo capitalistico, Boringhieri]. Eccentrica rispetto a questo gruppo di teorie, è l’elaborazione di Rosa Luxemburg, secondo la quale il capitalismo non potrebbe esistere senza la esistenza di un ambiente non capitalistico [R. Luxemburg Accumulazione del capitale, Einaudi].

Secondo una scuola di pensiero di carattere trasversale, sarebbe insita nel capitalismo una tendenza a sviluppare la capacità di produrre più della capacità di consumare. Questa tendenza creerebbe una situazione di sottoconsumo alla quale il capitalismo ovvierebbe con l’investimento estero, il consumo di lusso, le spese militari e le spese pubblicitarie. [P. Baran P. Sweezy Il capitale monopolistico. Einaudi]

Secondo un’altra scuola di pensiero di carattere trasversale, il passaggio dal capitalismo concorrenziale al capitalismo organizzato, eliminando l’anarchia della produzione, avrebbe dovuto rendere più difficile la creazione di situazioni di crisi. [F. Pollock Teoria e prassi dell'economia di piano, De Donato] L’esperienza ha dimostrato che non era così e che la monopolizzazione dell’economia ha reso ancora più ampia la divergenza fra capacità di produrre e capacità di consumare. [P. Baran Note sul sottoconsumo, in Id. Saggi marxisti, Einaudi].

Economisti e crisi economica. C’è una domanda che si pone a chi rifletta sulla crisi del 2007-8: “Perché gli economisti non hanno saputo prevederla? Sono in grado di dirci di quanto crescerà l’economia da oggi in avanti, e non sono in grado di prevedere una crisi come quella del 2007-8? Che razza di economisti sono? “.

Risposta. Sono degli economisti, ma sono anche degli uomini e come a tutti gli uomini, anche agli economisti succede di innamorarsi di certe idee. In particolare, essi si sono innamorati dell’idea che l’economia di mercato possieda dei meccanismi automatici di regolazione della propria attività.

Ciò escluderebbe la possibilità di crisi di carattere generale, perché tali meccanismi automatici entrerebbero in funzione nel momento opportuno in modo da riportare l’economia in condizioni di normalità: in altre parole, non si tratta che della cosiddetta “mano invisibile” di cui parlò Adam Smith in Ricchezza delle Nazioni. Tale mano, scrisse Smith, fa sì che ognuno di noi, mirando solo al proprio guadagno, sia condotto, grazie a tale mano, a perseguire un fine che non rientra nelle sue intenzioni.

Ora, il funzionamento di tali meccanismi è sottoposto all’esistenza di ben determinate condizioni che sono poi quelle relative all’esistenza della concorrenza perfetta, come le piccole dimensioni delle imprese, la perfetta elasticità delle curve di offerta, la perfetta sostituibilità dei fattori della produzione… Ora, nessuna di tali condizioni esiste in economie mono-oligopolistico come le nostre.

Più complesso è il discorso per quello che riguarda le cause della crisi. A questo riguardo s’è molto discusso sul modello di crisi finanziaria elaborato a suo tempo dall’economista americano Hjman Minsky. Ridotto all’osso, il discorso d Minsky può essere così sintetizzato.

Le condizioni favorevoli del mercato finanziario generano ottimismo, l’ottimismo induce gli operatori ad abbassare la guardia; ciò indebolisce progressivamente il sistema finanziario che si viene così a trovare esposto a possibili condizioni avverse, le quali, una volta realizzatesi, creano una corsa alle vendite…

Gli economisti hanno parlato a questo proposito di “euforia irrazionale”, di “spiriti animali”. In realtà, si tratta di puro e semplice capitalismo. Che cos’è, infatti, il capitalismo se non un “modo di produzione” fondato sulla ricerca del “massimo profitto”?

[C. Kindleberger Euforia e panico, R. Shiller Euforia irrazionale, G. Akelrof R. Shiller Spiriti animali, C. Reinhart K. Rogoff Questa volta è diverso, N. Ferguson Ascesa e declino del denaro. N. Roubini La crisi non è finita, Feltrinelli. P. Krugman La crisi del 2008 e il ritorno dell'economia della depressione. J. Stiglitz Bancarotta. R. Dore Finanza pigliatutto. M. Onado I nodi al pettine, Laterza].

Le leggi dell’economia. L’economia non è una “scienza esatta” nel senso che gli eventi economici non sono sottoposti a leggi che s’impongono con cieca necessità. Il mondo economico non funziona come un orologio. Il mondo economico è un mondo di propensioni – per il consumo, per il risparmio, per l’investimento – e di preferenze – preferenza per la liquidità – nel quale le decisioni sono prese da singoli individui in base a criteri che non sono riconducibili a quelli previsti da una logica freddamente economica. [G. Ackelrof  R. Shiller Spiriti animali, Rizzoli].

Per renderci conto di questo fatto, possiamo pensare alla crisi finanziaria del 2008. La speculazione finanziaria aveva creato quella che in gergo si chiama bolla speculativa che aveva gonfiato oltre ogni misura il valore dei titoli. Ciò significava che, prima o poi, la bolla sarebbe scoppiata: malgrado ciò, la gente continuava a comperare cercando di guadagnare in questo modo il più possibile nel minor tempo possibile.[M. Onado I nodi al pettine, Laterza]

Oppure, possiamo pensare alla vicenda della New Economy. Salutata come una nuova Età dell’oro [J. Rifkin L'età dell'accesso, Mondadori], essa finì per crollare su se stessa, a causa dei propri successi il cui segreto stava nell’aver trasformato il capitalismo in una sorta di casinò nel quale l’attività economica era diventata un gioco d’azzardo dove vinceva chi era più bravo a bluffare. [G. Rossi Mercato d'azzardo, Adelphi).

Il mezzo comunemente usato dagli amministratori delle imprese era quello della manipolazione dei libri contabili, in americano “to cook the books”. Le imprese della New Economy erano diventate delle maestre nell'arte di manipolare i libri contabili, ovvero, nel cooking the books.

Ciò divenne evidente con il fallimento di Enron, la grande utility americana che in combutta con la società che doveva certificare i suoi bilanci, gonfiò le proprie attività in modo da attrarre sempre nuovi investitori i quali affidavano alla Enron i propri risparmi non tenendo conto del fatto che solo “sound firms” danno “sound profits”.

Il fallimento di Enron pose all'attenzione dell'opinione pubblica un problema che è vecchio come il capitalismo: si tratta del problema della responsabilità delle imprese. Tale problema è venuto ad aggravarsi nel corso del tempo con il passaggio dall'impresa gestita individualmente dal singolo imprenditore a quella che Paul Baran e Paul Sweezy chiamarono “società per azioni gigante”. In essa, la proprietà  della impresa è scissa dalla gestione, affidata a un consiglio d'amministrazione, il quale nomina un amministratore delegato. [P. Baran P. Sweezy Il capitale monopolistico, Einaudi].

Con lo sviluppo di questa forma di società, già studiata negli anni ’30  la proprietà e venuta sempre più a separarsi dalla gestione dell’impresa  e i consiglieri di amministrazione son diventati sempre più potenti e arroganti; tant’è vero che sono essi che stabiliscono l’ammontare delle proprie remunerazioni e decidono l’attribuzione a se stessi di azioni della società da essi amministrata. [A. Berle Gardiner Means Società per azioni e proprietà privata Einaudi]

Questa trasformazione dell’impresa ha aperto un dibattito sulla logica aziendale e sugli obiettivi da essa perseguiti. Tale dibattito è ben rappresentato da due testi pubblicati alla metà degli anni ’60: Il nuovo stato industriale di John K. Galbraith e Il capitale monopolistico di Paul Baran e Paul Sweezy che furono recensiti con la consueta acutezza da Federico Caffè [F. Caffè Temi e problemi di politica sociale, Laterza].

Si vennero così a creare, per farla breve, due scuole di pensiero: una scuola di pensiero per la quale tale trasformazione dell’impresa avrebbe portato al superamento della logica economica basata sulla ricerca del massimo profitto; e la scuola di pensiero per la quale l’avvento di tale trasformazione a livello d’impresa avrebbe mantenuto inalterato l’obiettivo della ricerca del massimo profitto come punto di riferimento della gestione dell’impresa.

La crescente finanziarizzazione dell’economia ha accresciuto il potere dei CEOs i quali son diventati dei moderni mandarini del capitale, per usare una bella definizione dell’economista africano Samir Amin, autore di alcuni illuminanti saggi sulla globalizzazione pubblicati sulla Monthly Review.

Sono loro, i CEOs delle società per azioni giganti che decidono le politiche aziendali avendo come obiettivo, da un lato, quello di impinguare il portafoglio dei soci della società; dall’altro lato, quello di incrementare i propri guadagni con succose opzioni azionarie.

Tutto ciò toccò l’acme alla fine dei “ruggenti Novanta”, allorché parve  d’essere entrati nell’Era di Cuccagna. A chi obiettava che, prima o poi, l’euforia per la continua ascesa del corso dei titoli si sarebbe sgonfiata e sarebbe subentrata un’Era del Cordoglio si rispondeva che egli non aveva capito che il mondo era cambiato e che il capitalismo, grazie alla teoria delle “aspettative razionali”, aveva trovato il modo di crescere senza incorrere nel rischio di precipitare in crisi simili a quelle del passato. [Per una critica della teoria delle aspettative razionali vedi J. Tobin Problemi di economia contemporanea, Laterza]

Scempiaggini. La crisi sopravvenne e sopravvenne pure il cordoglio. Nessuno, però, pagò per aver recato danno all’immagine del capitalismo. Perché di questo si tratta. In borsa c’è chi specula al rialzo e chi specula al ribasso; cioè, c’è chi compra oggi per vendere domani e c’è chi vende oggi per comprare domani. Ciò che gli uni perdono è guadagnato dagli altri. Noi veniamo informati su chi perde. Nulla ci viene detto su chi guadagna, anche se i nomi sono noti.

Polemiche a parte, resta il fatto che a comperare ed a vendere, siamo tutti noi; nel senso che siamo tutti noi attraverso i nostri risparmi, gli accantonamenti per la pensione che vengono investiti in borsa dai nostri fondi pensione, a portare acqua al mulino del Finanzkapital. [L. Gallino Finanzkapital, Einaudi]

Ne deriva, che non usciremo dalla crisi finché non ci saremo liberati di questa mentalità; finché non avremo tolto gli scheletri dai nostri armadi; finché non saremo pronti ad abbracciare un nuovo modo di vedere le cose di questo mondo. In altre parole, finché non avremo smesso d’essere consumatori e saremo ritornati ad essere dei cittadini.

Capitalismo, socialismo, democrazia. La parola capitalismo non è mai entrata nel lessico dell’economia politica. Alla parola capitalismo, gli economisti hanno sempre preferito l’espressione economia di mercato. Come ricordò Pierre Vilar, la parola capitalismo venne usata dagli storici che studiarono le origini del capitalismo, i suoi rapporti con la  religione, come Lujo Brentano, Max Weber, Richard Tawney, Werner Sombart, Ernest Troletsch. [P. Vilar Le parole della storia, Editori Riuniti]

Non dobbiamo stupirci, perciò, se essi non possono aiutarci in alcun modo a capire il funzionamento del capitalismo. Come scrisse infatti Confucio, noi arriviamo a conclusioni sbagliate se usiamo parole sbagliate. Con l’espressione economia di mercato si intende porre l’accento sul fatto che si tratta di un’economia la cui istituzione fondamentale è rappresentata dal mercato.

In realtà, l’istituzione chiave del capitalismo è rappresentata dalla proprietà privata dei mezzi di produzione e scambio. Ciò distingue il capitalismo dal socialismo la cui economia è gestita secondo un piano elaborato dall’autorità addetta alla gestione dell’economia. Tale gestione può essere accentrata o decentrata, ma pur sempre di pianificazione si tratta [W. Brus Il funzionamento dell'economia socialista, Feltrinelli].

Si tratta, cioè. di un sistema economico nel quale vengono fissati  dalla autorità preposta alla pianificazione gli obiettivi del piano, le quantità che devono essere prodotte d’ogni bene, le sue caratteristiche tecniche, il suo prezzo… [M. Ellman La pianificazione socialista, Editori Riuniti]

Teoricamente, ciò può può essere realizzato o mediante il ricorso o al metodo empirico  dei cosiddetti bilanci materiali lungamente in uso in Urss [C. Bettelheim Problemi teorici e pratici della pianificazione, Savelli]; o mediante il ricorso a complesse matrici industriali e a non meno complesse tecniche di calcolo.[V. Marrama Programmazione e sviluppo economico in Urss, Boringhieri]

Ciò non mette al sicuro dalle crisi. Possono infatti pur sempre crearsi delle situazioni di crisi dovute ad inconvenienti tecnici o ad errori di calcolo che possono scatenare delle crisi economiche a causa della creazione di colli di bottiglia oppure a causa della pessima qualità dei beni prodotti delle imprese socialiste. [M. Ellman La pianificazione socialista, Editori Riuniti]

Gli inconvenienti principali del capitalismo sono quelli che sono legati alle sue crisi periodiche. Le crisi capitalistiche sono di diversi tipi, ma le loro cause sono riconducibili, in un modo o nell’altro, alla ricerca del massimo profitto combinata con l’anarchia della produzione capitalistica.

Il socialismo è stato sempre visto dai liberali come la via della servitù. In realtà, non c’è servitù peggiore di quella prodotta dal lavoro salariato. Questo fatto è sempre stato negato dagli economisti borghesi. Per essi, come scrisse Marx, “il capitale può accrescersi solo se si scambia con lavoro”, quindi, ”l’interesse dell’operaio e del capitalista sono gli stessi.”

Fu in questo quadro che venne elaborata la teoria dei cosiddetti fattori della produzione – terra, capitale, lavoro – definita sprezzantemente da Marx come la “formula trinitaria”. Tale “formula” è sopravvissuta alle critiche di Marx e continua ad essere usata da economisti, uomini politici, opinionisti.

In realtà, come scrisse Marx nei “Lineamenti”, la trasformazione del lavoro in capitale è il risultato dello scambio tra capitale e lavoro.  Essa ha luogo nel processo di produzione, perciò, notò Marx, “è dunque assurdo chiedersi se il capitale sia produttivo o no. Il lavoro stesso è produttivo solo in quanto è assunto nel capitale”.

Nei suoi termini generali, la questione si presenta, perciò, in questo modo: ”La produttività del capitale consiste anzitutto, scrisse Marx in “Teorie sul plus-valore”, nella costrizione a fornire plus-lavoro, a lavorare in misura superiore alle necessità immediate, una costrizione che il modo di produzione capitalistico ha in comune con i modi di produzione precedenti ma che esso esercita, realizza in modo più favorevole alla produzione”.

Tale concetto, sviluppato nel “Capitolo VI inedito” dove vennero introdotti i concetti di sussunzione reale e di sussunzione formale del lavoro al capitale, trovò la sua definizione ultima in “Il capitale”. Per Marx infatti il capitale è prima di tutto un rapporto sociale. Ciò pone un problema di importanza capitale.

La democrazia è un bene indivisibile. Essa deve caratterizzare tutte le istituzioni d’uno stato. La fabbrica è una di queste istituzioni. Tale era il senso che si poteva trarre dalla lettura del famose “sette tesi sul controllo operaio” pubblicate da Panzieri e da Libertini nel 1958 sulla rivista socialista Mondo operaio.

La pubblicazione delle tesi di Panzieri e Libertini suscitarono un vivace dibattito sia nel Psi che nel Pci con gli interventi di Francesco De Martino, Rodolfo Morandi, Alberto Caracciolo, Vittorio Foa, Antonio Pesenti, Roberto Guiducci, i quali espressero in genere un notevole imbarazzo, poiché le tesi di Panzierri e Libertini ponevano il problema centrale della via al socialismo. Per Panzieri e Libertini socialismo significava infatti autodeterminazione e tale autodeterminazione non poteva non partire dalla fabbrica.

E’ trascorso mezzo secolo d’allora. Il socialismo è stato messo in soffitta. Resta il problema della democrazia, la quale, come ho detto, non è un bene divisibile, ma deve essere presente in tutte le istituzioni, a cominciare dalla fabbrica.

Il mito della mano invisibile. Secondo la teoria economica oggi dominante, che altro non è che un banale rifacimento della teoria smithiana della mano invisibile, ciascuno di noi, perseguendo il proprio interesse è come condotto da una mano invisibile a realizzare inconsapevolmente il massimo benessere per la collettività nel suo insieme. [A. Roncaglia Il mito della mano invisibile, Laterza]

Domanda è davvero così? No. Non è così. Per renderci conto di questo fatto possiamo pensare agli effetti negativi prodotti da quella che Fred Hirsh chiamò competizione per i beni posizionali che ha portato alla distruzione dei boschi, alla cementificazione delle  coste, all’inquinamento atmosferico. [F. Hirsh I limiti sociali dello sviluppo, Bompiani]

Oppure, possiamo pensare a cosa succederebbe se un’impresa decidesse di abbassare i prezzi dei propri prodotti per battere le concorrenza di altre imprese. Succederebbe che essa indurrebbe le altre imprese a ridurre i prezzi dei loro prodotti innescando in questo modo una corsa al ribasso dei prezzi che porterebbe alla fine ad una riduzione dei profitti [D. Kreps Teoria dei giochi e teoria economica, Il mulino]

Oppure, possiamo pensare a cosa succederebbe se tutti gli imprenditori italiani decidessero di tagliare i salari dei loro dipendenti per potere aumentare i propri profitti. Ciò che otterrebbero sarebbe un crollo della domanda dei loro prodotti che porterebbe ad un crollo dei profitti.

Come scrisse infatti Kalecki, i capitalisti guadagnano ciò che spendono, i lavoratori spendono ciò che guadagnano.  Ciò significa che l’economia funziona finché i capitalisti investono i loro profitti e i lavoratori spendono i loro salari in acquisti per le loro famiglie. [M. Kalecki Saggi sulla dinamica dell'economia capitalistica, Einaudi]

Non solo. Più i salari sono elevati meglio funziona l’economia perché più alti sono i profitti; profitti più alti significa maggiori investimenti; maggiori investimenti significano maggiore occupazione. Il problema, come scrisse sempre Kalecki, è che l’investimento è utile. Cioè, crea capacità produttiva. Ciò, disincentiva, a lungo andare gli investimenti, la riduzione degli investimenti provoca un rallentamento nella crescita dell’economia.

Opposto era il punto di vista di Ricardo. Per Ricardo che scriveva nei primi due decenni dell’Ottocento, il profitto era un residuo, cioè era quello che restava al capitalista dopo che questi aveva pagato i salari dei lavoratori, per cui egli poteva affermare che: se i salari aumentano, ferme restando le altre condizioni, i profitti diminuiscono.

Appunto: ferme restando le altre condizioni. In economia, però, le condizioni non sono mai ferme. Uno di fattori fondamentali per la crescita dell’economia è il progresso tecnico. Con il progresso tecnico aumenta la produttività del lavoro, quindi, aumentano i profitti dei capitalisti. A quel punto, si pone un altro problema, quello della redistribuzione dei profitti che sono aumentati grazie al progresso tecnico che ha aumentato la produttività del lavoro.

Questa redistribuzione del reddito è  tanto più elevata quanto più forti sono i sindacati dei lavoratori; i sindacati dei lavoratori sono tanto più forti quanto più compatti sono i lavoratori e i lavoratori sono tanto più compatti quanto sono concentrati in pochi luoghi di lavoro.

I capitalisti l’avevano sempre saputo, ma avevano dovuto accettare la situazione non avendo alternative. La catena di montaggio, infatti, mentre spezzettava il lavoro rendendo in frantumi la personalità dell’operaio, offriva agli operai la possibilità di colpire al cuore i processo di valorizzazione del capitale.

Bloccare la catena, voleva dire bloccare la fabbrica, mettere in crisi il processo di estrazione del plusvalore, forma originaria del profitto e costringere i capitalisti a scendere a patti con i sindacati.

Come ho detto, i capitalisti avevano sempre saputo che la catena rafforzava il potere dei sindacati, così avevano pensato di indebolire i sindacati indebolendo i lavoratori attraverso l’aumento dei ritmi di produzione: potere come controllo dei corpi in movimento. Foucault più Marx, Babbage più Bentham. In una parola, taylorismo.

Tutto ciò è durato fino alla rivoluzione microelettronica che ha permesso di rivoluzionare la fabbrica. Isole, robot, metodo Toyota. A poco a poco ciò ha indebolito in modo drammatico la classe operaia, ha rotto la tela dei rapporti di lavoro, ha isolato i lavoratori, ha colpito a morte il processo di formazione della coscienza di classe.

Oggi stiamo facendo i conti con l’esito finale di questo processo.  Un processo che come abbiamo visto viene da lontano ed è destinato ad andare lontano. Ciò pone le organizzazioni dei lavoratori di fronte ad un problema di sopravvivenza e possiamo capire, la difesa dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori che è assurto a simbolo d’una lotta di classe di non c’è più, mancando la classe, o meglio mancando le condizioni per la formazione d’una classe sociale nel senso pieno della espressione.

[H. Braverman Lavoro e capitale monopolistico, Einaudi, A. De Palma Macchine e grande industria da Smith a Marx, Einaudi, M. Kalecki Saggi sulla dinamica della economia capitalista, Einaudi, L.Pasinetti Sviluppo economico e distribuzione del reddito, Il mulino, P. Garegnani Valore e domanda effettiva, Einaudi. P. Leon Teoria della domanda effettiva, Feltrinelli]

Microeconomia, macroeconomia, politica economica . La microeconomia si occupa dell’analisi dei problemi economici a livello di impresa. La macroeconomia si occupa dell’analisi dei problemi economici a livello nazionale. Non a caso, il suo insegnamento inizia normalmente con l’analisi del processo di formazione del reddito nazionale e della sua ripartizione fra consumi, risparmi investimenti, spese pubbliche, esportazioni:

Y = C+S+I+G+E

In questo contesto è usuale distinguere fra economia positiva e economia normativa, dove l’economia positiva studia le leggi dell’economia e l’economia normativa studia il modo in cui intervenire nell’economia al fine di indirizzarla nel senso voluto nel rispetto delle sue leggi.[P. Samuelson Economica, Utet].

Il fatto è che, come abbiamo visto, le leggi dell’economia non sono leggi di carattere deterministico. Non esiste in economia una relazione fra causa ed effetto simile a quella che si genera quando usiamo una leva; ovvero, per metterla in termini filosofici, non esiste una relazione del genere

 Se A ►B

La relazione è:
 Se A►B, C, D

Caso emblematico è quello del funzionamento del mercato borsistico, dove contano più le voci, gli umori, i timori, le aspettative che il freddo calcolo economico basato sui cosiddetti fondamentali. [R.Shiller Euforia irrazionale, Il mulino]

In altre parole, tutto quello che possiamo dire è che se accade A l’esperienza ci dice che potrebbe accadere B; cioè, se il prezzo delle Panda diminuisse potrebbe registrarsi un aumento delle loro vendite, ma potrebbe anche non accadere e Fiat potrebbe registrare addirittura una diminuzione delle vendite delle Panda e un aumento a favore di qualche altro modello della stessa Fiat il cui prezzo è aumentato. In altre parole, le leggi economiche fanno parte di una cassetta di strumenti che vanno usati con la necessaria cautela [C. Kindleberger Leggi economiche e storia, Laterza]

Produzione, distribuzione e crescita economica. Secondo la famosa definizione, David Ricardo, l’economia politica studia le leggi che regolano la distribuzione del reddito nazionale fra rendite, profitti, salari. Per Ricardo, le leggi che regolavano la produzione erano immutabili ed eterne. [L. Robbins La teoria della politica economica, Utet]
In realtà, produzione e distribuzione sono, per dirla in parole povere, le due facce della stessa medaglia. A dire. Sono i rapporti sociali che regolano la produzione a determinare il modo in cui il reddito viene distribuito fra rendite, profitti, salari. Ciò significa che nessuna riforma nella distribuzione potrà cambiare la relazione di subordinazione del lavoratore al suo datore di lavoro, cioè il rapporto capitale/lavoro. Come scrisse Marx, il capitale è, prima di tutto, un rapporto sociale. [K. Marx Introduzione del 1857 in Per la critica dell'economia politica, Editori Runiti]

Chiarito ciò, resta da rispondere ad una domanda che l’opinione pubblica si  pone: “Un cambiamento nella distribuzione del reddito può modificare  il saggio di crescita dell’economia?”. La risposta è che l’esperienza ci dice che  tutti i paesi più sviluppati presentano dei livelli di consumi più elevati di quelli esistenti nei paesi meno sviluppati.[D. Landes La ricchezza e la povertà delle nazioni, Garzanti]. Tuttavia, in teoria, è possibile immaginare anche altre vie allo sviluppo
Malthus pensava 1) che nessun imprenditore investe per produrre beni che il mercato non richiede; 2) che – data la legge della popolazione – i salari erano destinati a restare al livello della sussistenza. Ciò significava che essi non avrebbero mai fornito incentivi ad investire ai capitalisti. Ne derivava che tali incentivi potevano provenire solo dai consumi di lusso delle classi elevate. [C. Napoleoni La posizione del consumo nella teoria economica, in Id Dalla scienza all'utopia, Boringhieri]
Problema analogo si pone, in termini keynesiani, per quello che riguarda la funzione del risparmio. Per i keynesiani, com’è noto, capitalisti e operai hanno due diverse propensioni al risparmio e quella dei capitalisti è più alta  di quella degli operai. Il caso limite è rappresentato da una propensione al risparmio degli operai uguale a zero. Ebbene, è stato dimostrato che questo fatto non influenzerebbe negativamente il saggio di crescita dell’economia. [L. Pasinetti Sviluppo economico e distribuzione del reddito, Il mulino]

Crescita economica e forme di mercato. Teoricamente, esistono due forme estreme di mercato. Il mercato di concorrenza perfetta e il  mercato in una situazione di monopolio. Nel primo caso, le imprese presenti sul mercato ricevono i prezzi dal mercato dove essi si formano in base alla legge della domanda ed offerta. Nel secondo caso, c’è un’impresa che controlla il mercato e può imporre ai compratori un determinato prezzo, oppure, una determinata quantità. [J. Robinson Che cos'è la concorrenza perfetta, in Prezzi, valore, distribuzione del reddito, Il mulino. J. Hicks Teoria del monopolio, Prezzi cit.]

Fra queste due posizioni estreme, esistono posizioni intermedie, definite dalla teoria come concorrenza imperfetta, concorrenza monopolistica, oligopolio. In ciascuna di queste forme, la concorrenza non viene meno, ma si trasforma; diventa una concorrenza tra pochi i quali possono trovare il modo di giungere a un accordo ponendo fine alla stessa concorrenza. Oppure, possono dar vita a delle vere e proprie guerre economiche. [K. Rothschild Teoria del monopolio, in Economisti moderni, a cura di F. Caffè, Laterza]
Ora, non occorre essere prevenuti nei confronti del capitalismo per vedere nel fenomeno della monopolizzazione dell’economia un elemento che, smorzando o bloccando del tutto lo stimolo della concorrenza, finisce per frenare il processo di crescita dell’economia capitalistica. Emblematica a questo riguardo è la posizione di Joseph Alois Schumpeter.
Parlare di sviluppo economico, per Schumpeter, è parlare di innovazione. E’ il ciclo dell’innovazione, infatti, che determina il ciclo economico. Figura dominante lo scenario economico schumpeteriano è l’imprenditore innovatore. Tale figura, tipica del capitalismo delle origini, secondo Schumpeter, è destinata a scomparire con il procedere dell’accumulazione capitalistica, la trasformazione delle imprese in entità burocratiche che mirano più ad estendere il loro controllo sull’esistente che alla sua  trasformazione. [J. A. Schumpeter La teoria dello sviluppo economico, Sansoni. Id. Il processo capitalistico, Boringhieri, Id. Capitalismo, socialismo, democrazia, Etas Libri, Id. L'imprenditore, Bollati Boringhieri]

La critica di Marx. Il capitale è l’opera più famosa di Marx e anche la più controversa. “Il capitale” è sempre stato letto, infatti, come un libro di economia nel quale Marx analizza il processo di accumulazione del capitale. In realtà, “Il capitale” è un libro di filosofia costruito attorno a quella che Il’enkov chiamò la dialettica dell’astratto e del concreto.
Come Marx scrisse infatti nella “Einleintung”, “il concreto è concreto perché è sintesi di molte determinazioni e unità del molteplice”. E’ per questo motivo, notò Marx, che  esso appare nel pensiero come processo di sintesi, come risultato e non come punto di partenza, benché sia l’effettivo punto di partenza.
Ed è per questo motivo, spiegò Marx, che Hegel cadde nell’illusione di concepire il reale come il risultato del pensiero automoventesi, del pensiero che abbraccia e approfondisce sé in se stesso, mentre il metodo di salire dall’astratto al concreto è solo il modo il cui il pensiero si appropria del concreto.
In altre parole, Marx, dopo aver svelato in “Critica della filosofia hegelana del diritto pubblico” quello che Della Volpe chiamò il falso mobile della dialettica hegeliana, si propose di rimettere la dialettica hegeliana con i piedi per terra. Ovvero, per usare le parole di Marx, di isolare il nucleo razionale dentro il guscio mistico della dialettica hegeliana.
“Il capitale” rappresenta il tentativo operato da Marx in questo senso. Ne è uscita un’opera ponderosa e di difficile lettura a causa del linguaggio spesso astruso e oscuro usato da Marx, il quale non era un economista ma era un filosofo laureatosi con una tesi sulle filosofie di Democrito e di Epicuro.
Scopo di “Il capitale” era quello di fornire alla classe operaia l’arma per combattere la borghesia nel campo della teoria. Come Marx aveva scritto infatti in “Critica della filosofia del diritto di Hegel”, se è vero che una potenza materiale può essere abbattuta soltanto da un’altra potenza materiale, è anche vero che la teoria diventa forza materiale non appena penetra fra le masse.
“Il capitale” venne pubblicato nel 1867, solo alcuni anni prima della pubblicazione di “Teoria dell’economia politica” di Jevons la quale inaugurò la cosiddetta “rivoluzione marginalista che getttò alle ortiche la teoria del valore-lavoro sulla quale era stato costruito “Il capitale” e propose una nuova teoria del valore basata sul concetto di utilità.
Secondo la teoria del valore-lavoro, i beni avevano valore in quanto prodotti del lavoro umano e il tempo di lavoro impiegato nella loro produzione era la misura del loro valore. Come Marx aveva infatti scritto in “Per la critica dell’economia politica”, il valore d’uso è la base materiale in cui si presenta il valore di scambio, la cui misura è il tempo di lavoro socialmente necessario a produrre una merce.
Secondo la nuova teoria, i beni avevano valore, come scrisse Wicksell, “soltanto in virtù della loro utilità, vale a dire, del godimento e della soddisfazione che ci danno, oppure, della quantità di pena e disagio dalla quale ci liberano”.
In tale contesto, il lavoro era considerato come un bene qualsiasi e il lavoratore era considerato un imprenditore di se stesso che prendeva le proprie decisioni riguardanti il bene che possedeva in base ad un calcolo di utilità e di disutilità, ovvero, di soddisfazione e disagio.
La questione è di grande importanza. La teoria del valore-lavoro e la teoria del valore basata sull’utilità esprimevano due differenti visioni del mondo che caratterizzarono due epoche: l’epoca del ascesa della borghesia e l’epoca del trionfo della borghesia. In questo quadro, “Il capitale appartiene al novero delle grandi opere classiche come “La ricchezza delle nazioni” e i “Principi di economia ” di Ricardo.
Per Marx, il capitalismo è una formazione economico-sociale storica. Esso è apparso in una certa epoca della storia ed è destinato, a causa delle proprie contraddizioni interne, a lasciare posto ad un’altra e superiore formazione economico-sociale. “Il capitale” è dedicato all’analisi delle suddette contraddizioni e all’enunciazione di tre grandi leggi: la legge della proletarizzazione crescente dei ceti medi, la legge dell’immiserimento crescente del proletariato, la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto. In termini formali, se
C= capitale costante
V=salari
S=plusvalore
q=composizione organica del capitale= C/V
s=saggio di sfruttamento =S/V
p= S/C+V=saggio di profitto
vediamo che, rimanendo costante il saggio di sfruttamento s, p diminuisce all’aumentare di q, ovvero
p=s/1-q
L’errore di Marx consistette nel mantenere s costante, laddove è evidente che nel corso del processo di accumulazione non aumenta solo la dotazione di capitale, ma aumenta anche la produttività del lavoro, ovvero, quello che Marx chiamò saggio di sfruttamento s.
In questo quadro, vanno inserite le altre due grandi leggi marxiane: la legge dell’impoverimento crescente della classe operaia, la legge della proletarizzazione crescente dei ceti medi. Ora, non occorre ricordare che nessuna di queste leggi è andata a fagiolo.
Il motivo è da rintracciarsi nel fatto che il capitalismo ha dimostrato una capacità di rinnovamento che Marx no aveva nemmeno sospettato. Non solo, nel conto va messo anche l’effetto che la nascita e lo sviluppo delle organizzazioni operaie hanno avuto sull’evoluzione politica dei paesi capitalistici avanzati che permise l’introduzione di nuove leggi a protezione dei lavoratori, l’introduzione delle assicurazioni sociali e così via, fino alla creazione del moderno stato sciale.
A questo punto, qualcuno potrebbe chiedere per quale motivo dovremmo leggere un’opera che è stata così gravemente contraddetta dai fatti. A tale domanda si può rispondere in due modi. O nel modo di chi intende salvare “Il capitale” a tutti i costi come hanno fatto numerosi marxisti cercando di riformulare, spesso in modo immaginoso, le equazioni di Marx; oppure si può rifare a ritroso il percorso fatto da Marx per giungere alla stesura di “Il capitale” e scoprire l’attualità dell’opera di Marx.
Per capire “Il capitale” occorre partire dalla fine, dal terzo libro di “Il capitale” e precisamente dalle pagine in cui Marx affronta il problema della trasformazione dei valori in prezzi di produzione. Tale problema non venne risolto da Marx. Marxisti e critici di Marx hanno tentato di risolverlo per via matematica. In realtà nella mancata soluzione del problema è nascosto il motivo dell’attualità dell’opera di Marx.
Nella mancata soluzione del problema della trasformazione dei valori in prezzi di produzione sta il segreto della crisi del capitalismo, la ragione per la quale ad un certo punto il processo di accumulazione si interrompe e scoppia la crisi. Gli analisti finanziari parlano di “fondamentali”. Marx parlava di valori. Il problema di fondo è il medesimo e medesimo è anche l’effetto ultimo. In questo contesto, diventa fondamentale l’analisi marxiana del denaro esposta nei “Lineamenti fondamentali d’una critica dell’economia politica”
Come scrisse infatti Marx, “ciò che rende particolarmente difficile la comprensione del denaro nella sua determinazione di denaro è che qui un rapporto sociale, una determinata relazione fra individui si presenta come metallo, come pietra, come oggetto puramente materiale esterno ad essi, il quale come tale viene trovato in natura  e nel quale non resta più da distinguere , dalla sua esistenza naturale, neppure una determinazione formale”.
Oggi le banche hanno sostituito la natura e l’oro è stato sostituito dai derivati. Come dire che il processo di alienazione si è ulteriormente perfezionato fino a trasformare la realtà in feticcio: che esattamente ciò che Marx voleva dire in “Il capitale”. In tal senso, “I capitale” chiude un percorso di ricerca iniziato con i “Manoscritti economico-filosofici” del 1844, dove Marx elabora il concetto di alienazione capitalistica.
“Questo fatto, scrisse Marx, non esprime altro che questo: che l’oggetto, prodotto del lavoro, prodotto suo, sorge di fronte al lavoro come un ente estraneo, come una potenza indipendente dal producente. Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, che si è fatto oggettivo: è l’oggettivazione del lavoro” che diventa “espropriazione dell’operaio, come alienazione”.
Ciò significa, come scrisse Marx nei “Lineamenti” che “nessuna forma di lavoro salariato, sebbene possa eliminare gli inconvenienti dell’altra, può eliminare gli inconvenienti del lavoro salariato stesso”, vale a dire l’alienazione del lavoratore nel prodotto del suo lavoro. Solo l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione potrà fare una cosa del genere.
Ciò non avverrà per una decisione dall’alto, ma sarà il punto di arrivo di un  lungo processo storico che creerà le basi per il superamento della proprietà privata dei mezzi di produzione e scambio. Questo fatto comporterà il superamento della vecchia forma di calcolo economico fondato sul principio della massimizzazione del profitto e darà vita ad una nuova forma di calcolo economico fondato sulla ricerca del benessere collettivo.
Molte sono state le critiche rivolte all’opera di Marx. Quella più interessante è stata mossa da Baran e da Sweezy in “Il capitale monopolistico”. Secondo i due economisti marxisti americani, “l’analisi marxista del capitalismo, in fondo riposa ancora sul presupposto di un’economia concorrenziale.” In altre parole, secondo Baran e Sweezy, è assente in Marx un’analisi della società per azioni gigante che costituisce oggi il nerbo del capitalismo contemporaneo.
L’analisi del modus operandi della società per azioni gigante porta Baran e Sweezy a abbandonare la teoria del valore-lavoro di Marx e a sostituire alla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto con la legge della tendenza del surplus economico effettivo ad aumentare, in virtù delle pratiche monopolistiche messe in atto dalla società per azioni gigante che la porta ad accumulare un eccesso di capacità produttiva.
Baran e Sweezy basano la loro analisi sui dati contenuti nel rapporto del Kefauver Commitee sull’industria dell’auto. Secondo tale rapporto presentato nel 1957, la General Motors produsse nel 1957 3,4 milioni di automobili da essa vendute ad un prezzo medio di 2213 dollari l’una. I costi variabili ammontarono a 1350 dollari l’una, lasciando 863 dollari per spese generali e profitti. Le spese generali ammontarono a 1870 milioni di dollari, le quali, ripartite fra tutte le automobili prodotte, produssero profitti per 313 dollari ad automobile. Il “punto di rottura”, corrispondente ad un profitto pari a zero, era stato calcolato nel 65% delle vendite del 1957.
La tendenza del surplus economico effettivo ad aumentare poneva il problema del suo assorbimento che veniva risolto attraverso il consumo dei capitalisti, la promozione delle vendite, le spese militari, gli investimenti esteri, in una parola, attraverso le tradizionali pratiche imperialistiche.
Tali pratiche erano state studiate da Lenin in “Imperialismo fase suprema del capitalismo”. Nella sua opera pubblicata nel nell’aprile del 1917, Lenin notava che “la concorrenza si trasforma in monopolio. Ne risulta un immenso processo di socializzazione della produzione. In particolare, si socializza il processo dei miglioramenti e delle invenzioni tecniche…. Viene socializzata la produzione ma l’appropriazione dei prodotti rimane privata.”
Nello stesso tempo, notava Lenin, “si sviluppa, per così dire, un’unione personale tra banca e le maggiori imprese industriali mediante il possesso di azioni o l’entrata degli uomini delle banche nei consigli di amministrazione delle imprese industriali”,. L’unione personale delle banche con l’industria è completata dall’unione personale di entrambe con il governo.  Ciò, notava Lenin, portandoci ai nostri giorni, ha favorito, da un lato, la fusione, se non la simbiosi, del capitale bancario col capitale industriale, e dall’altro lato al trasformarsi delle banche in istituzioni veramente di carattere universale.
Dal punto di vista teorico, come aveva spiegato Hilferding in “il capitale finanziario”, l’avvento del capitale finanziario aveva portato ad una rottura del processo D-M-M’-D’ e alla creazione di un nuovo ramo D-D’ che rappresentava il processo in base al quale il denaro si auto-valorizzava in virtù della sola speculazione finanziaria che generava un nuovo genere di crisi di carattere finanziario destinata a trasformarsi in crisi bancaria ed industriale n virtù degli stretti collegamenti esistenti tra banca e industria.

Inflazione e costo della vita. Inflazione significa aumento del livello generale dei prezzi. Essa riguarda tutti i beni e servizi. Altra cosa è l’indice del costo della vita che riguarda l’andamento dei prezzi di beni e servizi contenuti in un paniere che dovrebbe rappresentare i consumi medi di un famiglia media calcolato sui prezzi medi. Ciò significa che esso non ha alcun significato economico, poiché l’inflazione varia da regione a regione, da città a città.

Le cause dell’inflazione sono molte. Si parla infatti di inflazione da costi, inflazione da domanda, inflazione da profitti, inflazione importata. Si parla di inflazione da domanda quando l’economia si trova in una situazione prossima alla piena occupazione. Si parla di inflazione da costi quando essa è provocata da aumenti improvvisi dei prezzi delle materie prime o dei salari. Si parla di inflazione da profitti quando essa è causata dall’applicazione nel processo di formazione dei prezzi di un aumento del margine di profitto in assenza di aumenti dei costi di produzione.

Prezzo unitario = costo primo unitario+margine unitario di impresa

dove il costo primo rappresenta il costo delle materie prime, dell’energia e
dei salari ed il margine di impresa è uguale alla quota di spese generali alla quale è aggiunto il margine di profitto

Si parla di inflazione importata quando essa è provocata da un aumento nel prezzo dei beni di importazione. Tipico è il caso di un aumento del prezzo del petrolio il quale fa lievitare direttamente o indirettamente i prezzi di tutte le merci.

Tradizione vuole che si distingua fra inflazione strisciante, inflazione galoppante, iperinflazione. L’inflazione strisciante è quella odierna. Inflazione galoppante fu quella che si ebbe in Italia negli anni ’80 del secolo scorso. Iperinflazione è quella che si ebbe in Germania dopo la Grande guerra quando i prezzi cambiavano di ora in ora.

Secondo quanto ci insegna l’esperienza, l’inflazione può essere battuta in un solo modo: stringendo i cordoni della borsa, cioè, tagliando la spesa pubblica ed i consumi della popolazione. Ciò, a rigore, dovrebbe provocare una caduta dei prezzi. In realtà, l’esperienza ci insegna che non è sempre così e che può crearsi una situazione di stagnazione + inflazione a causa del meccanismo di formazione dei prezzi a livello di impresa che consente alle imprese di farsi beffe della legge della domanda e dell’offerta. [B. Jossa Macroeconomia. Teorie per la politica economica, La Nuova Italia].

Ciò comporta un taglieggiamento ai danni delle classi popolari nella migliore tradizione del capitalismo di rapina.

Costo. valore, prezzo. In un’economia di mercato, c’è stato insegnato,  i  prezzi sono determinati dal “gioco” della domanda e dell’offerta. In un’economia socialista i prezzi sono determinati dall’autorità preposta alla pianificazione [C. Bettelheim Problemi teorici e pratici della pianificazione, Savelli]. Ciò, secondo Ludwig von Mises renderebbe l’economia di mercato più efficiente dell’economia socialista [L. von Mises Socialismo, Rusconi. F. A. von Hayek, a cura di, La pianificazione nell'economia collettivista, Einaudi].

In realtà, come abbiamo visto, anche in un’economia di mercato, i prezzi sono pianificati. Ciò non avviene a livello generale, ma avviene livello di impresa. Il metodo, abbiamo visto anche questo, è quello di calcolare il prezzo aggiungendo un margine di profitto al costo primo. Secondo Michal Kalecki l’ammontare di questo margine dipende dal grado di monopolio di cui godono le imprese [M. Kalecki, Teoria della dinamica economica, Einaudi].

Paolo Sylos Labini dimostrò che la logica in base alla quale il prezzo d’un bene viene fissato a livello di impresa è molto più complessa di quello che Kalecki immaginasse dipendendo dalla strategia complessiva di impresa, ma l’effetto finale è il medesimo: il mercato, la legge della domanda e dell’offerta, e tutto quello che è legato ad essi vengono messi in soffitta [P. Sylos Labini Elementi di dinamica economica, Laterza]

Noi continuiamo, però ad essere oggetto d’una battente campagna di stampa sulle meravigliose virtù dell’economia di mercato. Polemiche a parte, non posiamo non porci una domanda. Se i prezzi vengono determinati nel modo anzidetto, che fine ha fatto il valore dei classici, l’utilità dei neoclassici? [C. Napoleoni Valore, Isedi].

Per Marx, come per Ricardo, il costo d’un bene era determinato dal suo contenuto in lavoro. Ciò richiedeva il possesso d’una misura invariabile del valore calcolato, pure esso, in termini di lavoro contenuto. David Ricardo, il fondatore della moderna Economica, spese le sue energie migliori nella ricerca di questa misura invariabile del valore [C. Napoleoni Smith, Ricardo, Marx, Boringhieri].
Essa venne trovata da Sraffa e fu da lui illustrata nella forma di “merce tipo” nel 1960 Produzione di merci e mezzo di merci. Così facendo, Sraffa risolveva uno dei più intricati problemi che avessero angustiato l’economia classica [R. Faucci, a cura di, L'economia classica, Feltrinelli], ma distruggeva l’intera impalcatura della economia classica trasformando il problema del valore-lavoro in un “problema ingegneristico” [G. Lunghini La crisi dell'economia politica e la teoria valore-lavoro, Feltrinelli].

Non era così per Marx. A un primo sguardo la ricchezza borghese appare come una enorme raccolta di merci e la singola merce come sua esistenza elementare. Ma ogni merce si presenta sotto il duplice punto di vista di valore d’uso e di valore di scambio”, scrisse Marx in Per la critica della economia politica. Ciò che consentiva loro di essere equiparate era il loro contenuto in termini di lavoro socialmente necessario che era stato impiegato nella loro produzione. Per Marx era fondamentale ribadire il ruolo svolto dal lavoro nel processo di produzione. Il problema della misura del valore non era infatti solo un problema “ingegneristico”, ma era un problema politico che era connesso alla sua teoria del capitale inteso avanti tutto come un rapporto sociale [K. Marx Capitolo VI inedito, La Nuova Italia.]

Non è così per gli economisti ortodossi. Per essi, il capitale è o una somma di denaro o un insieme di macchine. [H. G. Harcourt La teoria del capitale, Isedi. I. Kregel Teoria del capitale, Liguori]. In questo modo, essi pregiudicano in modo determinante la possibilità di risolvere il problema della valutazione del capitale come fattore della produzione in un modo meno banale di quello prev isto dalla cd. formula trinitaria [K. Marx Storia delle dottrine economiche, Einaudi].

Secondo questa formula che risale a Adam Smith, il prezzo di un bene si risolve nella somma dei redditi percepiti dai possessori dei fattori della produzione impiegati nella sua produzione:

P = W+P+R

Ciò innesta, però un cerchio vizioso dal momento che, per conoscere il prezzo di un bene occorre sapere a quanto ammonta il saggio del profitto il quale può essere determinato solo dopo che è stato determinato il valore dei singoli beni di cui consta il capitale [P. Garegnani Il capitale nelle teorie della distribuzione, Giuffrè. Prezzi relativi e distribuzione del reddito, a cura di P. Sylos Labini, Boringhieri].

Adesso, vediamo in esteso ciò che pensava Marx di questo problema. “A prima vista, scrisse Marx in Il capitale, una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi, risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici”.

Finché è valore d’uso, non c’è nulla di misterioso in essa, sia che la si consideri dal punto di vista che soddisfa, con le sue qualità, bisogni umani, sia che riceva tali qualità soltanto come prodotto di lavoro umano. E’ chiaro come la luce del sole che l’uomo con la sua attività cambia in maniera utile a se stesso le forme dei materiali naturali. P. es. quando se ne fa un tavolo, la forma del legno viene trasformata. Ciò non di meno, il tavolo rimane legno, cosa sensibile e ordinaria.

Ma appena si presenta come merce, il tavolo si trasforma in una cosa sensibilmente sovrasensibile. Non solo sta coi piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, si mette a testa in giù, e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare. Dunque, il carattere mistico della merce non sorge dal suo valore d’uso. E nemmeno sorge dal contenuto delle determinazioni di valore. Poiché: in primo luogo, per quanto differenti possano essere i lavori utili o le operosità produttive, è verità fisiologica che essi sono funzioni dell’organismo umano, e che tutte tali funzioni, quale si sia il loro contenuto e la loro forma, sono essenzialmente dispendio di cervello, nervi, muscoli, organi sensoriali, ecc. umani. In secondo luogo, per quel che sta alla base della determinazione della grandezza di valore, cioè la durata temporale di quel dispendio, ossia la quantità del lavoro: la quantità del lavoro è distinguibile dalla qualità in maniera addirittura tangibile. In nessuna situazione il tempo di lavoro che costa la produzione dei mezzi di sussistenza ha potuto non interessare gli uomini, benché tale interessamento non sia uniforme nei vari gradi di sviluppo. Infine, appena gli uomini lavorano in una qualsiasi maniera l’uno per l’altro, il loro lavoro riceve anche una forma sociale. Di dove sorge dunque il carattere enigmatico del prodotto di lavoro appena assume forma di merce? Evidentemente, proprio da tale forma.

L’eguaglianza dei lavori umani riceve la forma reale di eguale oggettività di valore dei prodotti del lavoro, la misura del dispendio di forza-lavoro umana mediante la sua durata temporale riceve la forma di grandezza di valore dei prodotti del lavoro, ed infine i rapporti fra i produttori, nei quali si attuano quelle determinazioni sociali dei loro lavori, ricevono la forma d’un rapporto sociale dei prodotti del lavoro. L’arcano della forma di merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma rimanda agli uomini come uno specchio i caratteri sociali del loro proprio lavoro trasformati in caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, in proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi rispecchia anche il rapporto sociale fra individui.

Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose sensibilmente sovrasensibili cioè cose sociali. Proprio come l’impressione luminosa di una cosa sul nervo ottico non si presenta come stimolo soggettivo del nervo ottico stesso, ma quale forma oggettiva di una cosa al di fuori dell’occhio. Ma nel fenomeno della vista si ha realmente la proiezione di luce da una cosa, l’oggetto esterno, su un’altra cosa, l’occhio: è un rapporto fisico fra cose fisiche. Invece la forma di merce e il rapporto di valore dei prodotti di lavoro nel quale essa si presenta non ha assolutamente nulla a che fare con la loro natura fisica e con le relazioni fra cosa e cosa che ne derivano. Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato fra gli uomini stessi. Quindi, per trovare un’analogia, dobbiamo involarci nella regione nebulosa del mondo religioso. Quivi, i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini. Così, nel mondo delle merci, fanno i prodotti della mano umana. Questo io chiamo il feticismo che s’appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci.

Come l’analisi precedente ha già dimostrato, tale carattere feticistico del mondo delle merci sorge dal carattere sociale peculiare del lavoro che produce merci. Gli oggetti d’uso diventano merci, in genere, soltanto perché sono prodotti di lavori privati, eseguiti indipendentemente l’uno dall’altro. Il complesso di tali lavori privati costituisce il lavoro sociale complessivo. Poiché i produttori entrano in contatto sociale soltanto mediante lo scambio dei prodotti del loro lavoro, anche i caratteri specificamente sociali dei loro lavori privati appaiono soltanto all’interno di tale scambio. Ossia, i lavori privati effettuano di fatto la loro qualità di articolazioni del lavoro complessivo sociale mediante le relazioni nelle quali lo scambio pone i prodotti del lavoro e, attraverso i prodotti stessi, i produttori. Quindi a questi ultimi le relazioni  sociali dei loro lavori privati appaiono come quel che sono, cioè, non come rapporti immediatamente sociali fra persone nei loro stessi lavori, ma anzi, come rapporti materiali fra persone e rapporti sociali fra le cose.

Solo all’interno dello scambio reciproco i prodotti di lavoro ricevono un’oggettività di valore socialmente eguale, separata dalla loro oggettività d’uso, materialmente differente. Questa scissione del prodotto del lavoro in cosa utile e cosa di valore si effettua praticamente soltanto appena lo scambio ha acquistato estensione e importanza sufficienti affinchè cose utili vengano prodotte per lo scambio, vale a dire affinché nella loro stessa produzione venga tenuto conto del carattere di valore delle cose. Da questo momento in poi i lavori privati dei produttori ricevono di fatto un duplice carattere sociale. Da un lato, come lavori utili determinati, debbono soddisfare un determinato bisogno sociale, e far buona prova di sè come articolazioni del lavoro complessivo, del sistema naturale spontaneo della divisione sociale del lavoro; dall’altro lato, essi soddisfano soltanto i molteplici bisogni dei loro produttori, in quanto ogni lavoro privato, utile e particolare è scambiabile con ogni altro genere utile di lavoro privato, e quindi gli è equiparato. L’eguaglianza di lavori toto coelo differenti può consistere soltanto in un far astrazione dalla loro reale diseguaglianza, nel ridurli al carattere comune che essi hanno, di dispendio di forza-lavoro umana, di lavoro astrattamente umano. Il cervello dei produttori privati rispecchia a sua volta questo duplice carattere sociale dei loro lavori privati, nelle forme che appaiono nel commercio pratico, nello scambio dei prodotti, quindi rispecchia il carattere socialmente utile dei loro lavori privati, in questa forma: il prodotto del lavoro deve essere utile, e utile per altri, e rispecchia il carattere sociale dell’eguaglianza dei lavori di genere differente nella forma del carattere comune di valore di quelle cose materialmente differenti che sono i prodotti del lavoro.

Gli uomini dunque riferiscono l’uno all’altro i prodotti del loro lavoro come valori, non certo per il fatto che queste cose contino per loro soltanto come puri involucri materiali di lavoro umano omogeneo. Viceversa. Gli uomini equiparano l’un con l’altro i loro differenti lavori come lavoro umano, equiparando l’uno con l’altro, come valori, nello scambio, i loro prodotti eterogenei. Non sanno di far ciò, ma lo fanno. Quindi il valore non porta scritto in fronte quel che è. Anzi, il valore trasforma ogni prodotto del lavoro in un geroglifico sociale. In seguito, gli uomini cercano di decifrare il senso del geroglifico, cercano di penetrare l’arcano del loro proprio prodotto sociale, poiché la determinazione degli oggetti d’uso come valori è loro prodotto sociale quanto il linguaggio. La tarda scoperta scientifica che i prodotti di lavoro, in quanto son valori, sono soltanto espressioni materiali del lavoro umano speso nella loro produzione, fa epoca nella storia dello sviluppo dell’umanità, ma non disperde affatto la parvenza oggettiva dei carattere sociale del lavoro. Quel che è valido soltanto per questa particolare forma di produzione, la produzione delle merci, cioè che il carattere specificamente sociale dei lavori privati indipendenti l’uno dall’altro consiste nella loro eguaglianza come lavoro umano e assume la forma del carattere di valore dei prodotti di lavoro, appare cosa definitiva, tanto prima che dopo di quella scoperta, a coloro che rimangono impigliati nei rapporti della produzione di merci: cosa definitiva come il fatto che la scomposizione scientifica dell’aria nei suoi  elementi ha lasciato sussistere nella fisica l’atmosfera come forma corporea.

Quel che interessa praticamente in primo luogo coloro che scambiano prodotti, è il problema di quanti prodotti altrui riceveranno per il proprio prodotto, quindi, in quale proporzione si scambiano i prodotti. Appena queste proporzioni sono maturate     raggiungendo una certa stabilità abituale, sembrano sgorgare dalla natura dei prodotti del lavoro, cosicché p. es. una tonnellata di ferro e due once d’oro sono di egual valore allo stesso modo che una libbra d’oro e una libbra di ferro sono di egual peso nonostante le loro differenti qualità chimiche e fisiche. Di fatto, il carattere di valore dei prodotti del lavoro si consolida soltanto attraverso la loro attuazione come grandezze di valore. Le grandezze di valore variano continuamente, indipendentemente dalla volontà, della prescienza, e dall’azione dei permutanti, pei quali il loro proprio movimento sociale assume la forma d’un movimento di cose, sotto il cui controllo essi si trovano, invece che averle sotto il proprio controllo. Occorre che ci sia una produzione di merci completamente sviluppata, prima che dall’esperienza stessa nasca la cognizione scientifica che i lavori privati – compiuti indipendentemente l’uno dall’altro, ma dipendenti l’uno dall’altro da ogni parte come articolazioni naturali spontanee della divisione sociale del lavoro – vengono continuamente ridotti alla loro misura socialmente proporzionale. perché nei rapporti di scambio dei loro prodotti, casuali e sempre oscillanti trionfa con la forza, come legge naturale regolatrice, il tempo di lavoro socialmente necessario per la loro produzione, così come p. es. trionfa con la forza la legge della gravità, quando la casa ci capitombola sulla testa.

La determinazione della grandezza di valore mediante il tempo di lavoro è quindi un arcano, celato sotto i movimenti appariscenti dei valori relativi delle merci. La sua scoperta elimina la parvenza della determinazione puramente casuale delle grandezze di valore dei prodotti del lavoro, ma non elimina affatto la sua forma oggettiva. In genere, la riflessione sulle forme della vita umana, e quindi anche l’analisi scientifica di esse, prende una strada opposta allo svolgimento reale. Comincia post festum e quindi parte dai risultati belli e pronti del processo di svolgimento. Le forme che danno ai prodotti del lavoro l’impronta di merci e quindi sono il presupposto della circolazione delle merci, hanno già la solidità di forme naturali della vita sociale, prima che gli uomini cerchino di rendersi conto, non già del carattere storico di queste forme, che per essi anzi sono ormai immutabili, ma del loro contenuto.

Così, soltanto l’analisi dei prezzi delle merci ha condotto alla determinazione della grandezza di valore; soltanto l’espressione comune delle merci in denaro ha condotto alla fissazione del loro carattere di valore. Ma proprio questa forma finita – la forma di denaro – del mondo delle merci vela materialmente, invece di svelarlo, il carattere sociale dei lavori privati, e quindi i rapporti sociali dei lavoratori privati. Quando dico: abito, stivali, ecc. si riferiscono alla tela come incarnazione generale del lavoro umano astratto, la stravaganza di questa espressione salta agli occhi. Ma quando i produttori dell’abito, degli stivali, ecc. riferiscono queste merci alla tela – o all’oro e argento, il che non cambia niente alla sostanza – come equivalente generale, la relazione dei loro lavori privati col lavoro complessivo sociale si presenta loro appunto in quella forma stravagante.

Tali forme costituiscono appunto le categorie dell’economia borghese. Sono forme di pensiero socialmente valide, quindi oggettive, per i rapporti di produzione di questo modo di produzione sociale storicamente determinato, per i rapporti di produzione della produzione di merci, concluse Marx.

La merce è in primo luogo, nel linguaggio degli economisti inglesi, “qualsiasi cosa necessaria, utile o gradevole alla vita”, oggetto di bisogni umani, mezzo di sussistenza nel senso più ampio della parola. Questo esistere della merce come valore d’uso e la sua esistenza naturale tangibile coincidono. Il grano ad esempio è un valore d’uso particolare, differente dai valori d’uso cotone, vetro, carta, ecc. Il valore d’uso ha valore solo per l’uso e si attua soltanto nel processo del consumo. Un medesimo valore d’uso può essere sfruttato in modo diverso. La somma delle sue possibili utilizzazioni si trova però racchiusa nel suo esistere quale oggetto dotato di determinate qualità. Questo valore d’uso, inoltre, è determinato non solo qualitativamente, bensì anche quantitativamente. Valori d’uso differenti hanno misure differenti secondo le loro naturali peculiarità, ad esempio un moggio di grano, una libbra di carta, un braccio di tela, ecc.
Qualunque sia la forma della ricchezza, i valori d’uso costituiscono sempre il suo contenuto, che in un primo tempo è indifferente nei confronti di questa forma. Gustando del grano, non si sente chi l’ha coltivato, se un servo della gleba russo, un contadino particellare francese o un capitalista inglese. Sebbene sia oggetto di bisogni sociali e quindi si trovi in un nesso sociale, il valore d’uso non esprime tuttavia un rapporto di produzione sociale. Questa merce come valore d’uso sia ad esempio un diamante. Guardando il diamante, non si avverte che è merce. Là dove serve come valore d’uso, esteticamente o meccanicamente, al seno di una ragazza allegra o in mano a chi mola i vetri, è diamante e non merce. L’essere valore d’uso sembra presupposto necessario per la merce, ma l’essere merce sembra pel valore d’uso una definizione indifferente. Il valore d’uso in questa sua indifferenza verso la definizione della forma economica, ossia il valore d’uso quale valore d’uso, esula dal campo d’osservazione dell’economia politica. Vi rientra solo là dove è esso medesimo definizione formale. In modo immediato, il valore d’uso è la base materiale in cui si presenta un determinato rapporto economico, il valore di scambio.
Il valore di scambio appare in primo luogo come un rapporto quantitativo, entro il quale valori d’uso sono intercambiabili. Entro questo rapporto essi costituiscono la medesima grandezza di scambio. Così, un volume di Properzio e 8 once di tabacco da fiuto possono essere un medesimo valore di scambio, nonostante la disparità dei valori d’uso tabacco ed elegia. Come valore di scambio, un valore d’uso vale esattamente quanto l’altro, purchè sia presente nella dovuta proporzione. Il valore di scambio di un palazzo può essere espresso in un determinato numero di scatole di lucido da scarpe. Viceversa, i fabbricanti di lucido londinesi hanno espresso in palazzi il valore di scambio delle scatole sempre più numerose del loro prodotto. Astraendo quindi del tutto dal loro modo d’esistenza naturale e senza tener conto della natura specifica del bisogno per il quale sono valori d’uso, le merci si equivalgono in determinate quantità, si sostituiscono le une alle altre nello scambio, sono considerate equivalenti e in tal modo rappresentano la medesima unità malgrado la loro variopinta apparenza.
I valori d’uso sono direttamente mezzi di sussistenza. Ma viceversa questi mezzi di sussistenza sono essi stessi prodotti della vita sociale, sono risultato di forza umana spesa, sono lavoro oggettivato. In quanto materializzazione del lavoro sociale, tutte le merci sono cristallizzazioni di una medesima unità. Quello che ora dobbiamo considerare è il carattere determinato di questa unità, ossia del lavoro che si esprime nel valore di scambio.
Un’oncia d’oro, una tonnellata di ferro, un quarter di grano e venti braccia di seta siano, poniamo, valori di scambio uguali. In quanto sono tali equivalenti, in cui è cancellata la differenza qualitativa dei loro valori d’uso, essi rappresentano un volume uguale di uno stesso lavoro. Il lavoro che in essi uniformemente si oggettiva dev’essere esso stesso lavoro semplice, uniforme, indifferenziato, per il quale sia indifferente apparire nell’oro, nel ferro, nel grano, nella seta, allo stesso modo che è indifferente per l’ossigeno trovarsi nella ruggine del ferro, nell’atmosfera, nel succo dell’uva o nel sangue dell’uomo. Ma scavare oro, portar alla luce ferro, coltivare grano e tessere seta, sono tipi di lavoro che differiscono qualitativamente l’uno dall’altro. Infatti, ciò che oggettivamente appare come diversità dei valori d’uso, appare nel corso del processo come diversità dell’attività che produce i valori d’uso. Perciò, il lavoro che crea valore di scambio, in quanto è indifferente nei riguardi della particolare materia dei valori d’uso, lo è anche nei confronti della forma particolare del lavoro stesso. I differenti valori d’uso sono inoltre prodotti dell’attività di individui differenti, sono dunque il risultato di lavori individualmente differenti. Ma come valori di scambio rappresentano un lavoro uguale, indifferenziato, ossia lavoro in cui è cancellata l’individualità di chi lavora. Il lavoro che crea valore di scambio è quindi lavoro astrattamente generale.

Per misurare i valori di scambio delle merci in base al tempo di lavoro in esse contenuto, i differenti lavori dovranno essi stessi essere ridotti a lavoro semplice, indifferenziato e uniforme, in breve al lavoro che qualitativamente è sempre uguale e si differenzia solo quantitativamente.
Questa riduzione sembra un’astrazione, ma è un’astrazione che nel processo sociale della produzione si compie ogni giorno. La riduzione di tutte le merci a tempo di lavoro è un’astrazione non maggiore, ma allo stesso tempo non meno reale, della riduzione di tutti i corpi organici in aria. Il lavoro, così misurato mediante il tempo, non appare infatti come lavoro di soggetti differenti, bensì i differenti individui che lavorano appaiono invece come semplici organi del lavoro. Ossia il lavoro, come si rappresenta in valori di scambio, potrebbe essere espresso come lavoro generalmente umano. Questa astrazione del lavoro generalmente umano esiste nel lavoro medio che ogni individuo medio può compiere in una data società, è un determinato dispendio produttivo di muscoli, nervi, cervello, ecc. umani. E’ lavoro semplice al quale ogni individuo medio può essere addestrato e che esso deve compiere in una forma o nell’altra. Il carattere di questo lavoro medio varia esso stesso in paesi differenti e in epoche di civiltà differenti, ma si presenta come dato in una società esistente. Il lavoro semplice costituisce la massa di gran lunga maggiore di tutto il lavoro delle società borghesi, come ci si potrà convincere da tutte le statistiche. Che A durante 6 ore produca ferro e durante 6 ore tela, e che B allo stesso modo produca durante 6 ore ferro e durante 6 ore tela, o che A produca durante 12 ore ferro e B durante 12 ore tela, è evidente che si tratta semplicemente di un uso differente di un medesimo tempo di lavoro. Ma come si fa per il lavoro complesso che si eleva al di sopra del livello medio in quanto lavoro di più alta intensità, di maggiore peso specifico? Questo tipo di lavoro si riduce a lavoro semplice messo insieme, a lavoro semplice a potenza più elevata, cosicchè ad esempio una giornata di lavoro complesso sarà uguale a tre giornate di lavoro semplice. Non è questo ancora il luogo di trattare delle leggi che regolano questa riduzione. Ma è chiaro che questa riduzione ha luogo: infatti, come valore di scambio, il prodotto del lavoro più complesso è in una determinata proporzione equivalente del prodotto del lavoro medio semplice, e quindi pari a un determinato quantitativo di questo lavoro semplice.
La determinazione del valore di scambio mediante il tempo di lavoro presuppone inoltre che in una determinata merce, ad esempio in una tonnellata di ferro, sia oggettivato lo stesso quantitativo di lavoro, non importa che sia il lavoro di A o di B o che individui differenti impieghino, per la produzione di uno stesso valore d’uso determinato qualitativamente e quantitativamente, un tempo di lavoro di uguale durata. In altre parole, si presuppone che il tempo di lavoro contenuto in una merce sia il tempo di lavoro necessario per la sua produzione, vale a dire il tempo di lavoro richiesto per produrre in date condizioni generali di produzione un nuovo esemplare di quella stessa merce.
Le condizioni del lavoro che crea valore di scambio, come risultano dall’analisi del valore di scambio, sono determinazioni sociali del lavoro oppure determinazioni del lavoro sociale, ma non sono sociali senz’altro, lo sono in un modo particolare. Si tratta di un modo particolare di socialità. In primo luogo la semplicità indifferenziata del lavoro è uguaglianza dei lavori di individui differenti, un reciproco riferirsi dei loro lavori l’uno all’altro come a lavoro uguale, e ciò mediante una reale riduzione di tutti i lavori a un lavoro di uguale specie. Il lavoro di ogni individuo, in quanto si presenta in valori di scambio, ha questo carattere sociale di uguaglianza, e si presenta nel valore di scambio solo in quanto è riferito al lavoro di tutti gli altri individui come a lavoro uguale.
Inoltre, nel valore di scambio, il tempo di lavoro del singolo individuo si presenta immediatamente come tempo di lavoro generale, e questo carattere generale del lavoro individuale si presenta come carattere sociale di quest’ultimo. Il tempo di lavoro rappresentato nel valore di scambio è tempo di lavoro del singolo, ma del singolo indifferenziato dall’altro singolo, da tutti i singoli in quanto compiono un lavoro uguale, e quindi il tempo di lavoro richiesto per la produzione di una determinata merce è il tempo di lavoro necessario, che ogni altro impiegherebbe per la produzione di quella stessa merce. E’ il tempo di lavoro del singolo, il suotempo di lavoro, ma solo come tempo di lavoro comune a tutti, per il quale è indifferente di quale singolo individuo esso sia il tempo di lavoro. Come tempo di lavoro generale, esso si esprime in un prodotto generale, in un equivalente generale, in un determinato quantitativo di tempo di lavoro oggettivato; e quest’ultimo, astraendo dalla forma determinata del valore d’uso in cui appare immediatamente come prodotto dell’uno, è traducibile a piacere in qualsiasi altra forma di valore d’uso in cui si esprima come prodotto di qualsiasi altro. E’ grandezza sociale soltanto in quanto è una tale grandezza generale. Per risultare valore di scambio, il lavoro del singolo deve risultare equivalente generale, ossia rappresentazione del tempo di lavoro del singolo come tempo di lavoro generale o, ancora, rappresentazione del tempo di lavoro generale come tempo di lavoro del singolo. E’ come se i diversi individui avessero messo insieme i loro tempi di lavoro e avessero espresso in valori d’uso diversi quantitativi diversi del tempo di lavoro a loro comune disposizione. Infatti, il tempo di lavoro del singolo è in tal modo il tempo di lavoro di cui la società ha bisogno per la espressione di un determinato valore d’uso, ossia per il soddisfacimento di un determinato bisogno. Ma qui si tratta soltanto della forma specifica in cui il lavoro acquisisce carattere sociale. Poniamo che un determinato tempo di lavoro del filatore si oggettivizzi per esempio in cento libbre di filato di lino; e che cento braccia di tela di lino, prodotte dal tessitore, rappresentino un quan- titativo uguale di tempo di lavoro. In quanto questi due prodotti rappresentano un quantitativo uguale di tempo di lavoro generale e sono quindi equivalenti per ogni valore d’uso che contenga un tempo di lavoro di uguale durata, essi sono equivalenti l’uno dell’altro. Solo per il fatto che il tempo di lavoro del filatore e il tempo di lavoro del tessitore si presentano come tempo di lavoro generale e i loro prodotti si presentano quindi come equivalenti generali, il lavoro del tessitore diventa qui per il filatore e il lavoro del filatore per il tessitore il lavoro dell’uno per il lavoro dell’altro, vale a dire per entrambi l’esistenza sociale dei loro lavori. Nell’industria contadina patriarcale invece, in cui filatore e tessitore abitavano sotto lo stesso tetto, in cui la parte femminile della famiglia filava e quella maschile tesseva, diciamo per il solo fabbisogno della famiglia, filato e tela erano prodotti sociali, filatura e tessitura erano lavori sociali entro i limiti della famiglia. Ma il loro carattere sociale non consisteva nel fatto che il filato si scambiava come equivalente generale con la tela come equivalente generale o entrambi reciprocamente come espressioni indifferenti ed equivalenti di uno stesso tempo di lavoro generale. Il nesso familiare, anzi, con la sua naturale e spontanea divisione del lavoro, imprimeva al prodotto del lavoro il suo peculiare timbro speciale. Oppure, prendiamo i servizi in natura e le prestazioni in natura del Medioevo. I determinati lavori dei singoli nella loro forma naturale, la particolarità, non la generalità del lavoro costituiscono qui il legame sociale. Oppure prendiamo infine il lavoro in comune nella sua forma naturale spontanea, come lo troviamo alle soglie della storia di tutti i popoli civili [4] . Qui il carattere sociale del lavoro evidentemente non è dato dal fatto che il lavoro del singolo assume la forma astratta della generalità o che il suo prodotto assume la forma di equivalente generale. E’ la comunità, il presupposto della produzione, ad impedire che il lavoro del singolo individuo sia il lavoro privato e il suo prodotto privato a far apparire invece il lavoro singolo direttamente come funzione di un membro dell’organismo sociale. Il lavoro che si esprime nel valore di scambio è presupposto come lavoro del singolo preso singolarmente: diventa sociale assumendo la forma del suo diretto opposto, la forma dell’astratta generalità.
Caratteristico del lavoro che crea valore di scambio è infine che il rapporto sociale delle persone si rappresenta per così dire rovesciato, cioè come rapporto sociale delle cose. Soltanto in quanto un valore d’uso si riferisce all’altro quale valore di scambio, il lavoro di persone diverse è riferito l’uno all’altro come a lavoro uguale e generale. Quindi, se è esatto dire che il valore di scambio è un rapporto fra persone, bisogna tuttavia aggiungere: un rapporto celato sotto il velo delle cose. Allo stesso modo che una libbra di ferro e una libbra d’oro rappresentano lo stesso quantitativo di peso malgrado le loro qualità fisiche e chimiche diverse, due valori d’uso di merci, in cui sia contenuto lo stesso tempo di lavoro, rappresentano lo stesso valore di scambio. Il valore di scambio appare in tal modo come determinazione naturale sociale dei valori d’uso, come determinazione che spetta a questo in quanto cose, e a causa della quale nel processo di scambio essi si sostituiscono a vicenda secondo determinati rapporti quantitativi, costituiscono equivalenti, allo stesso modo che le sostanze chimiche semplici si combinano secondo determinati rapporti quantitativi, costituendo equivalenti chimici. E’ soltanto l’abitudine della vita quotidiana che fa apparire come cosa banale, come cosa ovvia che un rapporto di produzione sociale assuma la forma di un oggetto, cosicchè il rapporto fra le persone nel loro lavoro si presenti piuttosto come un rapporto reciproco fra cose e fra cose e persone. Nella merce questa mistificazione è ancor molto semplice. Tutti più o meno capiscono vagamente che il rapporto delle merci quali valori di scambio è piuttosto un rapporto fra le persone e la loro reciproca attività produttiva. Nei rapporti di produzione di più alto livello questa parvenza di semplicità si dilegua. Tutte le illusioni del sistema monetario derivano dal fatto che dall’aspetto del denaro non si capisce che esso rappresenta un rapporto di produzione sociale, se pure nella forma di una cosa naturale di determinate qualità. Presso gli economisti moderni i quali sdegnano sghignazzando le illusioni del sistema monetario, fa capolino questa medesima illusione, non appena essi maneggino categorie economiche superiori, ad esempio il capitale. Essa irrompe nella confessione di ingenuo stupore quando ora appare come rapporto sociale ciò che essi goffamente ritenevano di fissare come cosa, e ora li stuzzica di nuovo come cosa ciò che avevano appena finito di fissare come rapporto sociale.
Il valore di scambio delle merci, essendo infatti null’altro che il rapporto reciproco fra i lavori dei singoli individui come lavori uguali e generali, null’altro che l’espressione oggettuale di una forma specificamente sociale del lavoro, è una tautologia dire che il lavoro è l’unica fonte del valore di scambio e quindi della ricchezza in quanto consiste di valori di scambio. E la stessa tautologia è dire che la materia naturale come tale non contiene valore di scambio perchè non contiene lavoro e che il valore di scambio come tale non contiene materia naturale. Ma quando William Petty chiama “il lavoro il padre e la terra la madre della ricchezza”, oppure quando il vescovo Berkeley domanda “se i quattro elementi e il lavoro dell’uomo applicato ad essi non siano la vera fonte della ricchezza”, o quando l’americano Th. Cooper spiega volgarizzando: “Togli da una pagnotta il lavoro applicatovi, il lavoro del fornaio, mugnaio, affittuario, ecc., e che cosa rimane? Alcuni granelli di erbe che crescono allo stato selvatico, inservibili ad ogni uso umano”, allora, in tutte queste vedute, non si tratta del lavoro astratto come fonte del valore di scambio, bensì del lavoro concreto come fonte di ricchezza materiale, in breve del lavoro in quanto produce valori d’uso. Pel fatto che il valore d’uso della merce sia presupposto, è presupposta la particolare utilità, la determinata finalità del lavoro consumato in essa, ma con ciò, dal punto di vista della merce, è allo stesso tempo esaurita ogni considerazione del lavoro come lavoro utile. Nel pane, come valore d’uso, ci interessano le sue qualità come mezzo alimentare, non ci interessano affatto i lavori dell’affittuario, del mugnaio, del fornaio. Qualora per mezzo di qualche invenzione i 19/20 di questi lavori venissero meno, la pagnotta farebbe lo stesso servizio di prima. Qualora cadesse bell’e pronta dal cielo, non perderebbe un atomo del suo valore d’uso. Mentre il lavoro che crea valore di scambio si attua nell’uguaglianza delle merci come equivalenti generali, il lavoro, come attività produttiva conforme al fine, si attua nell’infinita varietà dei suoi valori d’uso. Mentre il lavoro che crea valore di scambio è lavoro astrattamente generale e uguale, il lavoro che crea valore d’uso è lavoro concreto e particolare che si scinde in modi di lavoro infinitamente vari a seconda della forma e della materia.
E’ sbagliato dire che il lavoro, in quanto produce valori d’uso, sia l’unica fonte della ricchezza da esso prodotta, ossia della ricchezza materiale. Siccome il lavoro è l’attività svolta per adattare il materiale a questo o a quello scopo, il lavoro ha bisogno della materia come presupposto. In valori d’uso differenti la proporzione fra lavoro e materia naturale è molto differente, pure il valore d’uso contiene un sostrato naturale. Come attività conforme allo scopo di adattare l’elemento naturale in una forma o nell’altra, il lavoro è condizione naturale dell’esistenza umana, è una condizione del ricambio organico fra uomo e natura. Il lavoro che crea valore di scambio è per contro una forma specificamente sociale del lavoro. Il lavoro del sarto ad esempio, nella sua proprietà materiale di particolare attività produttiva, produce l’abito, ma non il valore di scambio dell’abito. Quest’ultimo lo produce non in quanto lavoro di sarto, bensì in quanto lavoro astrattamente umano, e questo rientra in un nesso sociale che non è stato infilato dal sarto. In questo modo, nell’antica industria domestica le donne producevano l’abito, senza produrre il valore di scambio dell’abito. Il lavoro come fonte di ricchezza materiale era noto tanto a Mosè legislatore quanto all’impiegato di dogana Adam Smith.
Consideriamo ora alcune determinazioni più particolari che risultano dalla riduzione del valore di scambio a tempo di lavoro.
Come valore d’uso la merce agisce causalmente. Il grano ad esempio agisce come mezzo alimentare. Una macchina sostituisce il lavoro in determinate proporzioni. Quest’azione della merce, per la quale soltanto essa è valore d’uso, oggetto di consumo, può essere chiamata il suo servizio, il servizio che essa presta come valore di uso. Ma come valore di scambio la merce è sempre considerata soltanto dal punto di vista del risultato. Non si tratta del servizio che presta, bensì del servizio [10]  che è stato prestato alla merce stessa durante la sua produzione. Così dunque il valore di scambio di una macchina, ad esempio, non è determinato dal quantitativo di tempo di lavoro che viene da essa sostituito, bensì dal quantitativo di tempo di lavoro che è stato consumato nella sua produzione ed è perciò richiesto per produrre una nuova macchina dello stesso tipo.
Se quindi il quantitativo di lavoro richiesto per la produzione di merci rimanesse costante, il loro valore di scambio sarebbe invariabile. Ma la facilità e la difficoltà della produzione variano costantemente. Se la forza produttiva del lavoro cresce, essa produrrà lo stesso valore d’uso entro un tempo più breve. Se la forza produttiva del lavoro diminuisce, si richiederà un tempo maggiore per la produzione di quello stesso valore d’uso. La grandezza del tempo di lavoro contenuto in una merce, quindi il valore di scambio di questa, varia dunque, aumenta o diminuisce in proporzione inversa dell’aumento o della diminuzione della forza produttiva del lavoro. La forza produttiva del lavoro che è impiegata nell’industria manifatturiera a un grado prestabilito, è condizionata, nell’agricoltura e nell’industria estrattiva, da condizioni naturali incontrollabili. Uno stesso lavoro darà un prodotto maggiore o minore di metalli differenti, a seconda della presenza relativamente più rara e più frequente di questi metalli nella crosta terrestre. Uno stesso lavoro potrà oggettivarsi con il favore della stagione in due bushel di grano, con lo sfavore della medesima in un busheldi grano. Rarità o abbondanza come condizioni naturali sembrano qui determinare il valore di scambio delle merci poichè determinano la forza produttiva di un particolare lavoro reale, vincolata a condizioni naturali.
Valori d’uso differenti contengono, in volumi disuguali, lo stesso tempo di lavoro ossia lo stesso valore di scambio. Quanto minore è il volume del valore d’uso in cui, a paragone di altri valori d’uso, una merce contiene un determinato quantitativo di tempo di lavoro, tanto maggiore è il suo valore di scambio specifico. Se in epoche di civiltà differenti, lontane l’una dall’altra, troviamo che certi valori d’uso costituiscono tra di loro una serie di valori di scambio specifici i quali, se pur non conservano il rapporto numerico esattamente uguale, conservano tuttavia l’uno nei confronti dell’altro il rapporto generale della superiorità e della inferiorità, come ad esempio oro, argento, rame, ferro, o grano, segala, orzo, avena, ne consegue semplicemente che il progressivo sviluppo delle forze di produzione sociali agisce uniformemente o quasi sul tempo di lavoro richiesto per la produzione di quelle differenti merci.
Il valore di scambio di una merce non si manifesta nel valore d’uso di questa merce. Ma come oggettivazione del tempo di lavoro generalmente sociale, il valore d’uso di una merce è posto in rapporto con i valori di uso di altre merci. Il valore di scambio di una delle merci si manifesta in tal modo nei valori d’uso delle altre merci. Un equivalente è infatti il valore di scambio di una merce espresso nel valore d’uso di un’altra merce. Se dico per esempio che un braccio di tela vale due libbre di caffè, il valore di scambio della tela è espresso nel valore d’uso caffè, e cioè in un determinato quantitativo di questo valore d’uso. Data questa proporzione, potrò esprimere in caffè ogni quantitativo di tela. E’ chiaro che il valore di scambio di una merce, ad esempio della tela, non si esaurisce nella proporzione in cui un’ altra merce particolare, p. es. il caffè, costituisce il suo equivalente. Il quantitativo di tempo di lavoro generale, la cui espressione è il braccio di tela, è contemporaneamente attuato in volumi infinitamente diversi di valori d’uso di tutte le altre merci. Nella proporzione in cui il valore d’uso di ogni altra merce rappresenta un tempo di lavoro di uguale grandezza, esso costituisce un equivalente del braccio di tela. Il valore di scambio di questa singola merce è perciò espresso esaurientemente soltanto nelle infinite equazioni nelle quali i valori d’uso di tutte le altre merci costituiscono il suo equivalente. Soltanto nella somma di queste equazioni o nella totalità delle differenti proporzioni in cui una merce è scambiabile con qualsiasi altra merce, essa è espressa esaurientemente come equivalente generale. Ad esempio, la serie delle equazioni:
1 braccio di tela
=
1/2 libbra di tè,
1 braccio di tela
=
2 libbre di caffè,
1 braccio di tela
=
8 libbre di pane,
1 braccio di tela
=
6 braccia di cotone,
può essere espressa come: 1 braccio di tela = 1/8 libbra di tè + 1/2 libbra di caffè + 2 libbre di pane + 1 1/2 braccio di cotone.
Quindi, se avessimo dinanzi a noi l’intera somma delle equazioni nelle quali il valore di un braccio di tela è espresso esaurientemente, potremmo raffigurare il suo valore di scambio in forma di serie. In realtà questa serie è infinita, poichè l’ambito delle merci non è mai chiuso in via definitiva, bensì si allarga costantemente. Ma misurando così una data merce il proprio valore di scambio nei valori d’uso di tutte le altre merci, i valori di scambio di tutte le altre merci, viceversa, si misurano nel valore d’uso di questa data merce che si misura in essi [11] . Se il valore di scambio di un braccio di tela si esprime in mezza libbra di tè o in due libbre di caffè o in sei braccia di cotone o in otto libbre di pane, ecc., ne consegue che caffè, tè, cotone, pane, ecc. sono uguali fra di loro nella proporzione in cui sono uguali a un terzo valore d’uso, alla tela, e che quindi la tela serve da misura comune dei loro valori di scambio. Ogni merce, come tempo di lavoro generalmente oggettivato, vale a dire come determinata quantità di tempo di lavoro generale, esprime il proprio valore di scambio in una serie di determinate quantità dei valori d’uso di tutte le altre merci, e i valori di scambio di tutte le altre merci si misurano, viceversa, nel valore d’uso di quest’unica merce esclusa.
Ma come valore di scambio, ogni merce è tanto la merce unica esclusa, che serve da misura comune dei valori di scambio di tutte le altre merci, quanto, d’altra parte, è semplicemente una delle numerose merci nel cui ambito complessivo ogni altra merce esprime in modo immediato il proprio valore di scambio.
La grandezza di valore di una merce non risente del fatto che all’infuori di essa esistano poche o molte merci di altra specie. Ma che la serie delle equazioni in cui il suo valore di scambio si attua, sia maggiore o minore, dipende dalla maggiore o minore varietà di altre merci. La serie delle equazioni in cui si esprime per esempio il valore del caffè esprime la sfera della sua scambiabilità, i limiti entro i quali funziona da valore di scambio. Al valore di scambio di una merce in quanto oggettivazione del tempo di lavoro generale sociale corrisponde l’espressione dell’equivalenza della merce in valori d’uso infinitamente differenti.
Abbiamo visto che il valore di scambio di una merce varia con il variare della quantità del tempo di lavoro contenuto in essa. Il suo valore realizzato, ossia espresso nei valori d’uso di altre merci, deve a sua volta dipendere dalla proporzione in cui varia il tempo di lavoro impiegato nella produzione di tutte le altre merci. Se ad esempio rimanesse uguale il tempo di lavoro necessario alla produzione di un moggio di grano, mentre il tempo di lavoro necessario alla produzione di tutte le altre merci raddoppiasse, il valore di scambio del moggio di grano, espresso nei suoi equivalenti, sarebbe diminuito della metà. Praticamente il risultato sarebbe uguale a quello che si avrebbe se il tempo di lavoro necessario alla produzione del moggio di grano fosse diminuito della metà e il tempo di lavoro necessario alla produzione di tutte le altre merci fosse rimasto invariato. Il valore delle merci è determinato dalla proporzione in cui possono essere prodotte entro il medesimo tempo di lavoro. Per vedere a quali possibili variazioni sia esposta questa proporzione, poniamo il caso di due merci, A e B. Primo: supponiamo che il tempo di lavoro richiesto per la produzione di B rimanga invariato. In questo caso il valore di scambio di A, espresso in B, diminuisce o aumenta nella stessa proporzione in cui diminuisce o aumenta il tempo di lavoro necessario per la produzione di A. Secondo: Il tempo di lavoro richiesto per la produzione di A rimanga invariato. Il valore di scambio di A, espresso in B, diminuisce o aumenta nella proporzione inversa della diminuzione o dell’aumento del tempo di lavoro richiesto per la produzione di B.Terzo: Il tempo di lavoro richiesto per la produzione di A e B diminuisca o aumenti nella medesima proporzione. In tal caso l’espressione di equivalenza di A in B rimarrà invariata. Se a causa di una circostanza qualsiasi la forza produttiva di tutti i lavori diminuisse nella stessa misura, di modo che tutte le merci richiedessero in ugual proporzione un aumento del tempo di lavoro necessario alla loro produzione, sarebbe salito il valore di tutte le merci, l’espressione reale del loro valore di scambio sarebbe rimasta invariata, e la ricchezza reale della società sarebbe diminuita, poichè quest’ultima avrebbe bisogno di un tempo di lavoro maggiore per creare la medesima massa di valori d’uso. Quarto: Il tempo di lavoro richiesto per la produzione di A e B aumenti o diminuisca per entrambi, ma in grado disuguale, oppure aumenti il tempo di lavoro necessario per A mentre diminuisca quello per B, o viceversa. Tutti questi casi possono essere ridotti semplicemente al fatto che il tempo di lavoro richiesto per la produzione di una merce rimane invariato, mentre quello delle altre aumenta o diminuisce.
Il valore di scambio di ogni merce si esprime nel valore d’uso di ogni altra merce, sia in unità di questo valore o in sue frazioni. In quanto valore di scambio, ogni merce è altrettanto divisibile quanto lo stesso tempo di lavoro che in essa è oggettivato. L’equivalenza delle merci è indipendente dalla loro divisibilità come valori d’uso, allo stesso modo che per l’addizione dei valori di scambio delle merci non ha importanza quale reale mutamento di forma subiscano i valori d’uso di queste merci nella loro rifusione in una sola merce nuova.
Finora la merce è stata considerata da un duplice punto di vista, come valore d’uso e come valore di scambio, entrambe le volte unilateralmente. Ma come merce essa è immediatamente unità di valore d’uso e di valore di scambio; allo stesso tempo è merce soltanto in relazione alle altre merci. L’effettiva relazione reciproca delle merci è il loro processo di scambio. E’ questo un processo sociale che gli individui stabiliscono indipendentemente l’uno dall’altro, ma lo stabiliscono soltanto come possessori di merci; la loro vicendevole esistenza dell’uno per l’altro è l’esistenza delle loro merci, e perciò in realtà non si presentano che come titolari consapevoli del processo di scambio.
La merce è valore d’uso, grano, tela, diamante, macchina, ecc., ma come merce allo stesso tempo non è valore d’uso. Se pel suo possessore fosse valore d’uso, ossia mezzo immediato per il soddisfacimento dei suoi bisogni, non sarebbe merce. Per lui la merce è invece non valore d’uso, cioè semplicemente depositario materiale del valore di scambio ossia semplice mezzo di scambio; come depositario attivo del valore di scambio, il valore d’uso diventa mezzo di scambio. Per il possessore la merce, è ormai valore d’uso soltanto in quanto valore di scambio [12] . Valore d’uso essa deve quindi cominciar a divenire, in primo luogo per altri. Siccome non è valore per il suo possessore, è valore d’uso per i possessori di altre merci. Se non lo è, il lavoro del possessore è stato inutile, il suo risultato quindi non è merce. D’altra parte, deve diventare valore d’uso per lui stesso, poichè al di fuori di essa, nei valori d’uso di merci altrui, esistono i suoi mezzi di sussistenza. Per diventare valore d’uso la merce deve trovarsi di fronte quel particolare bisogno pel quale essa è oggetto di soddisfacimento. I valori d’uso delle merci diventano quindi valori d’uso cambiando posto in tutte le direzioni, passando dalla mano in cui sono mezzi di scambio alla mano in cui sono oggetti d’uso. Solo mediante questa generale alienazione delle merci, il lavoro in esse contenuto diventa lavoro utile. In questo progressivo riferirsi delle merci l’una all’altra in quanto valori d’uso, esse non acquisiscono alcuna nuova determinazione di forma economica. Scompare, anzi, la determinazione formale che le caratterizzava come merci. Il pane, ad esempio, passando dalla mano del fornaio in quella del consumatore, non muta la propria esistenza come pane. Viceversa, il consumatore è il primo che vi si riferisca come a valore d’uso, come a quel determinato mezzo alimentare, mentre nella mano del fornaio il pane era l’espressione di un rapporto economico, una cosa sensibilmente extrasensibile. L’unico mutamento formale, che le merci subiscono nel loro divenire come valori d’uso, è dunque l’abolizione della loro esistenza formale, in cui erano non valore d’uso per il loro possessore, valore d’uso per il loro non-possessore. Il divenire delle merci come valori d’uso presuppone la loro generale alienazione, il loro entrare nel processo di scambio, ma la loro esistenza per lo scambio è la loro esistenza come valori di scambio. Per attuarsi quindi come valori d’uso, devono attuarsi come valori di scambio.
Se, dal punto di vista del valore d’uso, la singola merce in origine ci appariva come cosa autonoma, come valore di scambio era invece considerata fin da principio in relazione a tutte le altre merci. Questa relazione era però solo una relazione teorica, ideale. Solo nel processo di scambio essa si attua. D’altra parte, la merce è bensì valore di scambio in quanto in essa è consumata una determinata quantità di tempo di lavoro ed in quanto essa è quindi tempo di lavoro oggettivato. Ma, in modo immediato, è soltanto tempo di lavoro oggettivato individuale, di contenuto particolare, non è tempo di lavoro generale. Perciò non è valore di scambio in modo immediato, bensì deve divenire tale. In un primo tempo non può essere che oggettivazione del tempo di lavoro generale, alla maniera in cui esprime il tempo di lavoro in una determinata applicazione utile, dunque in un valore d’uso. Era questa la condizione materiale alla quale soltanto il tempo di lavoro contenuto nelle merci era presupposto come tempo di lavoro generale, sociale. Se dunque la merce può divenire, come valore d’uso, soltanto attuandosi come valore di scambio, d’altra parte può attuarsi come valore di scambio soltanto affermandosi come valore d’uso al momento della sua alienazione. Una merce può essere ceduta come valore d’uso solo a colui pel quale essa è valore d’uso, ossia oggetto di un particolare bisogno. D’altra parte la merce viene ceduta solo in cambio di un’altra merce, ossia, ponendoci dalla parte del possessore dell’altra merce, anche costui può alienare la sua merce, realizzata, soltanto mettendola in contatto con il particolare bisogno di cui essa sia l’oggetto. Nell’alienazione generale delle merci come valori d’uso, esse vengono riferite l’una all’altra a seconda della loro disparità materiale, in quanto cose particolari, le quali in virtù delle loro qualità specifiche soddisfano particolari bisogni. Ma in quanto tali semplici valori d’uso, le merci sono esistenze indifferenti l’una per l’altra, sono anzi prive di reciproche relazioni. In quanto valori d’uso possono essere scambiate soltanto in relazione a particolari bisogni. Ma sono scambiabili solo come equivalenti, e sono equivalenti solo come uguali quantitativi di tempo di lavoro oggettivato, cosicchè ogni considerazione delle loro qualità naturali come valori d’uso, e quindi del rapporto delle merci con particolari bisogni, è cancellata. Come valore di scambio una merce funziona invece sostituendo come equivalente una quantità comunque determinata di qualsiasi altra merce, non importa se pel possessore dell’altra merce essa sia valore d’uso o no. Ma per il possessore dell’altra merce essa diventa merce solo in quanto per lui è valore d’uso, e per il proprio possessore diventa valore di scambio solo in quanto è merce per l’altro. Questa relazione sarà quindi relazione delle merci in quanto grandezze essenzialmente uguali, differenti solo quantitativamente, sarà la loro equiparazione come materializzazione del tempo di lavoro generale e sarà allo stesso tempo la loro relazione come cose differenti qualitativamente, come valori d’uso particolari per bisogni particolari, in breve sarà la relazione che le differenzia come reali valori d’uso. Ma questa equiparazione e differenziazione si escludono a vicenda. Così appare non soltanto un circolo vizioso di problemi, presupponendo la soluzione dell’uno la soluzione dell’altro, bensì una somma di esigenze contraddittorie, essendo l’adempimento di una condizione vincolato immediatamente all’adempimento della condizione opposta.
Il processo di scambio delle merci deve essere sia lo svolgimento sia la soluzione di queste contraddizioni che in esso non possono tuttavia essere espresse in questo modo semplice. Abbiamo solo osservato come le merci stesse sono riferite reciprocamente l’una all’altra come valori d’uso, cioè come le merci entro il processo di scambio si presentano come valori d’uso. Il valore di scambio invece, come lo abbiamo considerato sin qui, era presente nella nostra astrazione soltanto, o, se si vuole, nell’astrazione del singolo possessore di merce che ha in magazzino la merce come valore d’uso e l’ha sulla coscienza come valore di scambio. Ma le merci stesse entro il processo di scambio devono esistere l’una per l’altra non soltanto come valori d’uso, bensì come valori di scambio, e questa loro esistenza apparirà come la loro propria relazione reciproca. La difficoltà in cui subito abbiamo inciampato era questa: per potersi esprimere come valore d’uso, come lavoro oggettivato, la merce deve prima essere alienata come valore d’uso, dev’essere spacciata a qualcuno, mentre la sua alienazione come valore d’uso presuppone viceversa la sua esistenza come valore di scambio. Ma poniamo che questa difficoltà sia risolta. Poniamo che la merce si sia disfatta del proprio particolare valore d’uso e alienandolo abbia adempiuto la condizione materiale di essere lavoro socialmente utile invece che lavoro particolare di un uomo singolo per se stesso. Così dovrà poi, nel processo di scambio, come valore di scambio diventare equivalente generale, tempo di lavoro generale oggettivato, per le altre merci ed in tal modo acquisire non più soltanto l’effetto limitato di un particolare valore d’uso, bensì l’immediata capacità di essere espressa in tutti i valori d’uso quali suoi equivalenti. Ma ogni merce è la merce che in questo modo, mediante l’alienazione del proprio particolare valore d’uso, deve presentarsi come materializzazione diretta del tempo di lavoro generale. Ma d’altra parte nel processo di scambio si trovano di fronte soltanto merci particolari, lavori di individui privati, incarnati in particolari valori d’uso. Lo stesso tempo di lavoro generale è un’astrazione che come tale non esiste per le merci.
Se consideriamo la somma delle equazioni in cui il valore di scambio di una merce trova la sua espressione reale, ad esempio:
1 braccio di tela
=
2 libbre di caffè,
1 braccio di tela
=
1/2 libbra di tè,
1 braccio di tela
=
8 libbre di pane, ecc.,
queste equazioni enunziano soltanto, è vero, che un tempo di lavoro sociale generale di uguale grandezza si oggettiva in un braccio di tela, 2 libbre di caffè, 1/2 libbra di tè, ecc. Ma in realtà i lavori individuali che si esprimono in questi particolari valori d’uso, diventano lavoro generale e, in questa forma, lavoro sociale, soltanto scambiandosi realmente reciprocamente in proporzione della durata del lavoro in essi contenuto. Il tempo di lavoro sociale esiste per così dire solo allo stato latente in queste merci e si manifesta soltanto nel processo del loro scambio. Non si parte dal lavoro degli individui in quanto lavoro comune, ma, viceversa, da lavori particolari di individui privati, lavori che soltanto nel processo di scambio, con l’abolizione dell’oro carattere originale, si affermano come lavoro sociale generale. Il lavoro generalmente sociale non è quindi il presupposto bell’e pronto, è bensì risultato in divenire. E così risulta la nuova difficoltà: da un lato le merci devono entrare nel processo di scambio come tempo di lavoro generale oggettivato, dall’altro lato l’oggettivazione del tempo di lavoro degli individui, come tempo di lavoro generale, è essa stessa null’altro che il prodotto del processo di scambio.
Mediante l’alienazione del proprio valore d’uso, quindi della originale esistenza, ogni merce deve acquisire la sua corrispondente esistenza come valore di scambio. Nel processo di scambio la merce deve dunque raddoppiare la propria esistenza. D’altra parte la sua seconda esistenza come valore di scambio, a sua volta, non può essere che un’altra merce, poichè nel processo di scambio si stanno di fronte soltanto merci. Come rappresentare una merce particolare quale tempo di lavorogenerale oggettivato o, il che è la stessa cosa, come dare direttamente al tempo di lavoro individuale, oggettivato in una merce particolare, il carattere della generalità? L’espressione reale del valore di scambio di una merce, vale a dire di ogni merce in quanto equivalente generale, appare in una somma infinita di equazioni, come:
1 braccio di tela
=
2 libbre di caffè,
1 braccio di tela
=
1/2 libbra di tè,
1 braccio di tela
=
8 libbre di pane,
1 braccio di tela
=
6 braccia di cotone,
1 braccio di tela
=
ecc.
Questa espressione era teorica in quanto la merce era soltanto pensata come un quantitativo determinato di tempo di lavoro generale oggettivato. L’esistenza di una merce particolare come equivalente generale diventa per mera astrazione risultato sociale del processo di scambio stesso, mediante la semplice inversione della serie di equazioni sopra annotata. Quindi p. es.:
2 libbre di caffè
=
1 braccio di tela,
1/2 libbra di tè
=
1 braccio di tela,
8 libbre di pane
=
1 braccio di tela,
6 braccia di cotone
=
1 braccio di tela,
Mentre caffè, tè, pane, cotone, in breve tutte le merci, esprimono in tela il lavoro contenuto in esse, il valore di scambio della tela si manifesta, viceversa, in tutte le altre merci in quanto suoi equivalenti, e il tempo di lavoro oggettivato nella tela diventa immediatamente il tempo di lavoro generale che si esprime uniformemente in volumi differenti di tutte le altre merci. La tela diventa in questo caso equivalente generale in virtù dell’azione generale esercitata su di essa da tutte le altre merci. Come valore di scambio ogni merce è diventata misura dei valori di tutte le altre merci. Qui viceversa, misurando tutte le merci il proprio valore di scambio in una merce particolare, la merce esclusa diventa esistenza adeguata del valore di scambio, diventa l’esistenza di quest’ultimo quale equivalente generale. Per contro, la serie infinita ossia le equazioni infinite di numero, in cui si esprime il valore di scambio di ogni merce, si riducono a un’equazione unica di sole due componenti. 2 libbre di caffè = 1 braccio di tela, è ora l’espressione esauriente di valore di scambio del caffè, poichè la tela in questo momento appare direttamente come equivalente di un determinato quantitativo di ogni altra merce. Entro il processo di scambio le merci esistono dunque ora l’una per l’altra, o appaiono l’una all’altra come valori di scambio, nella forma della tela. Il fatto che tutte le merci siano riferite l’una all’altra come valori di scambio, semplicemente come quantità differenti di tempo di lavoro generale oggettivato, si presenta ora nel modo seguente: le merci, come valori di scambio, non rappresentano che quantità differenti di uno stesso oggetto, della tela. Il tempo di lavoro generale a sua volta quindi si esprime come una cosa particolare, una merce accanto e al di fuori di tutte le altre merci. Ma allo stesso tempo l’equazione, in cui una merce si rappresenta come valore di scambio di un’altra merce, p. es. 2 libbre di caffè = 1 braccio di tela, è ancora un’equiparazione da realizzarsi. Solo mediante la propria alienazione come valore d’uso, la quale dipende dal suo affermarsi come oggetto di un bisogno nel processo di scambio, la merce si trasforma realmente dalla sua esistenza come caffè nella sua esistenza come tela, assumendo così la forma di equivalente generale e diventando realmente valore di scambio per tutte le altre merci. Viceversa, trasformandosi tutte le merci, mediante la loro alienazione in quanto valori d’uso, in tela, quest’ultima diventa la esistenza trasformata di tutte le altre merci; e solo come risultato di questa trasformazione di tutte le altre merci in essa tela, quest’ultima diventa direttamente oggettivazione del tempo di lavoro generale, ossia prodotto dell’alienazione generale, superamento dei lavori individuali. Se in questo modo le merci raddoppiano la propria esistenza per apparire come reciproci valori di scambio, la merce esclusa in quanto equivalente generale raddoppia il proprio valore d’uso. Oltre al proprio valore d’uso particolare come merce particolare, acquisisce un valore d’uso generale. Quest’ultimo suo valore d’uso è esso stesso una determinatezza formale, vale a dire risulta dalla funzione specifica che essa esercita nel processo di scambio in virtù dell’azione generale esercitata su di essa dalle altre merci. Il valore d’uso di ogni merce, quale oggetto di un particolare bisogno, ha un valore differente in mani differenti, ad esempio ha valore differente in mano di colui che l’aliena da quello che ha in mano a colui che l’acquista. La merce esclusa in qualità di equivalente generale è ora oggetto di un bisogno generale derivante dallo stesso processo di scambio, e ha per ognuno il medesimo valore d’uso, di essere rappresentante del valore di scambio, cioè mezzo di scambio generale. Così, in quest’unica merce, è risolta la contraddizione racchiusa dalla merce come tale, di essere, come valore d’uso particolare, contemporaneamente equivalente generale e quindi valore d’uso per ognuno, di essere valore d’uso generale. Mentre dunque tutte le altre merci esprimono in un primo tempo il proprio valore di scambio come equazione ideale, non ancora realizzata, con la merce esclusa, in questa merce esclusa il valore d’uso, benchè reale, nel processo stesso appare come una esistenza meramente formale, la quale è da realizzarsi appena compiuta la trasformazione in valori d’uso reali. In origine la merce si presentava come merce in genere, come tempo di lavoro generale, oggettivato in un particolare valore d’uso. Nel processo di scambio tutte le merci si riferiscono alla merce esclusiva come merce in genere, come la merce, esistenza del tempo di lavoro generale in un valore d’uso particolare. Come merci particolari sono quindi in un rapporto antitetico con una merce particolare in qualità di merce generale [13] . Il fatto che i possessori di merci si riferiscono a vicenda ai propri lavori come lavoro sociale generale, appare quindi così: essi si riferiscono alle proprie merci come valori di scambio, la reciproca relazione fra le merci, l’una con l’altra come valori di scambio nel processo di scambio, appare come la loro generale relazione con una merce particolare quale espressione adeguata del loro valore di scambio, il che, viceversa, appare a sua volta come relazione specifica di questa merce particolare con tutte le altre merci, e quindi come carattere sociale di una cosa, determinato e per così dire naturale e spontaneo. La merce particolare che in tal modo rappresenta l’esistenza adeguata del valore di scambio di tutte le merci, ossia il valore di scambio delle merci quale merce particolare, esclusiva, è – il denaro. E’ una cristallizzazione del valore di scambio delle merci che esse determinano nello stesso processo di scambio. Quindi, mentre le merci, entro il processo di scambio, diventano l’una per l’altra, in quanto valori d’uso, liberandosi da ogni determinatezza di forma e riferendosi l’una all’altra nella loro figura materiale immediata, devono assumere una nuova determinatezza formale, devono procedere alla formazione di denaro per presentarsi reciprocamente come valori di scambio. Come non è un simbolo la esistenza di un valore d’uso come merce, così non è simbolo il denaro. Il fatto che un rapporto di produzione sociale si presenti come un oggetto presente al di fuori degli individui, e che le determinate relazioni che questi allacciano nel processo di produzione della loro vita sociale si presentino come qualità specifiche di una cosa, questo rovesciamento, questa mistificazione non immaginaria, bensì prosaicamente reale, caratterizza tutte le forme sociali del lavoro creatore di valore di scambio. Nel denaro questa mistificazione appare semplicemente più evidente che nella merce.
Le qualità fisiche necessarie della merce particolare, nella quale deve cristallizzarsi l’essere denaro di tutte le merci, per quanto derivino direttamente dalla natura del valore di scambio, sono la divisibilità a piacere, l’uniformità delle parti e la identicità in tutti gli esemplari di questa merce. Come materializzazione del tempo di lavoro generale, questa merce deve essere materializzazione uniforme e capace di esprimere differenze puramente quantitative. L’altra qualità necessaria è la durevolezza del suo valore d’uso poichè la merce deve durare entro il processo di scambio. I metalli nobili posseggono queste qualità in misura eminente. Siccome il denaro non è un prodotto di una riflessione o di un accordo, ma è formato quasi istintivamente nel processo di scambio, merci differentissime, più o meno inadatte, si sono alternate nella funzione di denaro. La necessità subentrante a un determinato grado dello sviluppo del processo di scambio, di distribuire polarmente sulle merci le determinazioni di valore di scambio e di valore d’uso in modo che una merce ad esempio figuri come mezzo di scambio, mentre l’altra è alienata come valore d’uso, comporta che dappertutto la merce o anche più merci del più generale valore d’uso abbiano in un primo momento per caso la funzione di denaro. Qualora non siano oggetto di un bisogno esistente direttamente, la loro esistenza come componente più importante della ricchezza dal punto di vista materiale, assicura ad esse un carattere più generale di quel che abbiano gli altri valori d’uso.
Il commercio di scambio immediato, forma spontanea del processo di scambio, rappresenta piuttosto l’iniziale trasformazione dei valori d’uso in merci che non quella delle merci in denaro. Il valore di scambio non acquisisce forma libera, è bensì ancora vincolato direttamente al valore d’uso. Questo risulta in due modi. La produzione stessa in tutta la sua costruzione è diretta al valore d’uso, non al valore di scambio, ed è quindi soltanto per l’eccedenza sulla misura in cui i valori d’uso sono richiesti per il consumo, che essi cessano qui di essere valori d’uso e diventano mezzi di scambio, merce. D’altra parte, diventano propriamente merci solo entro i limiti del valore d’uso diretto, sia pure distribuito polarmente, cosicchè le merci da scambiarsi dai possessori devono essere per entrambi valori d’uso, ma ognuna di esse dovrà essere valore d’uso per il suo non-possessore. In realtà, il processo di scambio delle merci in origine non si presenta in seno alle comunità naturali e spontanee, bensì là dove queste finiscono, ai loro confini, nei pochi punti in cui entrano in contatto con altre comunità. Qui ha inizio il commercio di scambio e da qui si ripercuote sull’interno della comunità, con un’azione disgregatrice. I particolari valori d’uso che nel commercio di scambio fra le diverse comunità diventano merci, come lo schiavo, il bestiame, i metalli, costituiscono quindi per lo più il primo denaro in seno alle comunità stesse. Abbiamo visto come il valore di scambio di una merce si esprima come valore di scambio in un grado tanto più elevato quanto più lunga è la serie dei suoi equivalenti o quanto maggiore è la sfera dello scambio per quella merce. La graduale estensione del commercio di scambio, l’aumento degli scambi e la moltiplicazione delle merci entranti nel commercio di scambio, evolvono quindi la merce in quanto valore di scambio, sollecitano la formazione del denaro e esplicano con ciò un’azione dissolvitrice sul commercio di scambio diretto. Gli economisti sono soliti derivare il denaro dalle difficoltà esterne in cui si imbatte il commercio di scambio ampliatosi, ma così facendo dimenticano che queste difficoltà derivano dallo sviluppo del valore di scambio e quindi risalgono al lavoro sociale quale lavoro generale. Per esempio: le merci, in qualità di valori d’uso, non sono divisibili a piacere, come devono esserlo in qualità di valori di scambio. Oppure, la merce di A può essere valore d’uso per B, mentre la merce di B non è valore d’uso per A. Oppure, i possessori delle merci possono aver bisogno delle loro merci indivisibili, da scambiarsi a vicenda, in proporzioni di valore ineguali. In altre parole, con il pretesto di considerare il commercio di scambio semplice, gli economisti si rendono conto di certi lati della contraddizione avvolta nell’esistenza della merce come unità immediata di valore d’uso e valore di scambio. D’altra parte tengono fermo, coerentemente, al commercio di scambio come forma adeguata del processo di scambio delle merci, il quale sarebbe semplicemente legato a certi disagi tecnici pei quali il denaro sarebbe una via d’uscita intelligentemente escogitata. Da questo punto di vista, del tutto superficiale, un intelligente economista inglese ha quindi sostenuto giustamente che il denaro è uno strumento puramente materiale, come una nave o una macchina a vapore, ma non è l’espressione di un rapporto di produzione sociale e quindi non è una categoria economica. Soltanto abusivamente è trattato quindi nella economia politica, la quale infatti non ha nulla in comune con la tecnologia.
Nel mondo delle merci è presupposta una sviluppata divisione del lavoro, ossia quest’ultima si esprime, piuttosto, direttamente nella molteplicità dei valori d’uso che si stanno dinanzi come merci particolari e nei quali sono incorporati modi di lavoro altrettanto molteplici. La divisione del lavoro, in quanto totalità di tutti i modi particolari dell’occupazione produttiva, è la figura complessiva del lavoro solidale considerato nel suo lato materiale, considerato come lavoro che produce valori d’uso. Ma come tale la divisione del lavoro esiste, dal punto di vista delle merci e entro il processo di scambio, soltanto nel suo risultato, nella particolarizzazione delle merci stesse.
 Lo scambio delle merci è il processo entro il quale il ricambio sociale, ossia lo scambio dei particolari prodotti di individui privati, è allo stesso tempo creazione di determinati rapporti della produzione sociale, nei quali gli individui entrano in questo ricambio. Le relazioni progressive fra le merci nei confronti dell’una con l’altra si cristallizzano come determinazioni differenziate dell’equivalente generale, e in tal modo il processo di scambio è allo stesso tempo processo di formazione del denaro. L’insieme di questo processo, che appare come il decorso di processi differenti, è la circolazione.

In questo modo, Marx risolveva il problema della misura invariabile del valore e rispondeva anticipatamente alla sfida che sarebbe stata lanciata dai teorici marginalisti con la teoria dell’utilità.

Macchine e grande industria. Abbiamo già parlato del ruolo svolto dalla tecnica nello sviluppo del capitalismo. Qui ci soffermeremo sulla “questione delle macchine” e lo faremo sintetizzando il punto di vista di Marx che fu tra i massimi studiosi della “questione delle macchine”.

Nella manifattura la rivoluzione del modo di produzione prende come punto di partenza la forza-lavoro scrisse Marx nel Capitaale; nella grande industria, il mezzo di lavoro. Occorre dunque indagare in primo luogo in che modo il mezzo di lavoro viene trasformato da strumento in macchina, oppure in che modo la macchina si distingue dallo strumento del lavoro artigiano. Qui si tratta soltanto di grandi tratti caratteristici generali, poiché né le epoche della geologia né quelle della storia della Società possono esser divise da linee divisorie astrattamente rigorose.
 I matematici e i meccanici — e qua e là qualche economista inglese ripete la cosa — dichiarano che lo strumento di lavoro è una macchina semplice e che la macchina è uno strumento composto: in ciò non vedono nessuna differenza sostanziale, e chiamano macchine perfino le potenze meccaniche elementari, come la leva, il piano inclinato, la vite, il cuneo, ecc Di fatto tutte le macchine consistono di quelle potenze elementari, qual ne sia il travestimento e la combinazione. Tuttavia dal punto di vista economico la spiegazione non vale niente, perché vi manca l’elemento storico. Da un’altra parte, la distinzione fra strumento e macchina viene cercata nel fatto che nello strumento la forza motrice è l’uomo, nella macchina una forza naturale differente dall’uomo: ad esempio, animali, acqua, vento, ecc. Da questo punto di vista, l’aratro tirato dai buoi, che appartiene alle più differenti epoche della produzione, sarebbe una macchina, e il circular loom (Telaio circolare) del Claussen, che, mosso dalla mano di un solo operaio, esegue novanta- seimila maglie al minuto, sarebbe un semplice strumento. Anzi lo stesso loom sarebbe strumento, se mosso a mano, e macchina, se mosso a vapore. Poichè l’uso della forza animale è una delle più antiche invenzioni dell’umanità, la produzione a macchina precederebbe di fatto quella artigianale. Quando John Wyatt nel 1735 annunciò la sua macchina per filare, e con essa la rivoluzione industriale del secolo XVIII, non accennò neppure con una parola che la macchina non fosse mossa da un uomo ma da un asino; tuttavia questa parte toccò all’asino. Il programma del Wyatt suonava: una macchina « per filare senza dita».
Ogni macchinario sviluppato consiste di tre parti sostanzialmente differenti, macchina motrice, meccanismo di trasmissione, e infine macchina utensile o macchina operatrice. La macchina motrice opera come forza motrice di tutto il meccanismo. Essa o genera la propria forza motrice, come la macchina a vapore, la macchina ad aria calda, la macchina elettromagnetica, ecc., oppure riceve l’impulso da una forza naturale esterna, già esistente, come la ruota ad acqua dalla caduta d’acqua, l’ala d’un mulino a vento dal vento, ecc. Il meccanismo di trasmissione composto di volanti, alberi di trasmissione, ruote dentate, pulegge, assi, corde, cinghie, congegni e apparecchi di ogni genere, regola il movimento, ne cambia, quand’è necessario, la forma, per esempio, da perpendicolare in circolare, lo distribuisce e lo trasmette alle macchine utensili. Queste due parti del meccanismo esistono solo allo scopo di comunicare alla macchina utensile il moto per il quale essa afferra e trasforma come richiesto l’oggetto del lavoro. Da questa parte del macchinario, dalla macchina utensile, prende le mosse la rivoluzione industriale del secolo XVIII; ed essa costituisce ancora sempre di nuovo il punto di partenza tutte le volte che una industria artigianale o manifatturiera trapassa in industria meccanica.
 Se ora consideriamo più da vicino la macchina utensile o macchina operatrice vera e propria, vediamo ripresentarsi, tutto sommato, se pure spesso in forma assai modificata, gli apparecchi e gli strumenti coi quali lavorano l’artigiano e l’operaio manifatturiero; ora però non più come strumenti dell’uomo, ma come strumenti d’un meccanismo o strumenti meccanici. O è tutta la macchina che si riduce a una edizione meccanica, più o meno modificata, del vecchio strumento del mestiere artigiano, come nel telaio meccanico; oppure gli organi operanti applicati allo scheletro della macchina operatrice sono vecchie conoscenze, come i fusi nella filatrice meccanica, come gli aghi nel telaio del calzettaio, le lame dentate nella segheria meccanica, i coltelli nella triturazione meccanica, ecc. La differenza fra questi strumenti e il corpo della macchina operatrice in senso proprio risale alla loro nascita. Infatti essi vengono ancor oggi prodotti per la maggior parte da lavoro di tipo artigiano o manifatturiero, e solo in seguito vengono fissati al corpo della macchina operatrice, che è prodotto a macchina. Dunque la macchina utensile è un meccanismo il quale, dopo che gli sia stato comunicato il moto corrispondente, compie con i suoi strumenti le stesse operazioni che prima erano eseguite con analoghi strumenti dall’operaio. Ora, la sostanza della cosa non cambia, sia che la forza motrice provenga dall’uomo, sia che provenga anch’essa a sua volta da una macchina. Dopo che lo strumento in senso proprio è stato trasmesso dall’uomo ad un meccanismo, al puro e semplice strumento subentra una macchina. Anche se l’uomo stesso rimane ancora primo motore, la differenza balza subito agli occhi. Il numero di strumenti di lavoro coi quali l’uomo può operare contemporaneamente è limitato dal numero dei suoi strumenti naturali di produzione, cioè dei suoi organi corporei. In Germania s’era provato, prima a far muovere due filatrici a ruota da un solo filatore, cioè di farlo lavorare contemporaneamente con le due mani e i due piedi: ciò era troppo faticoso; poi s’inventò una filatrice a pedale con due fusi, ma i virtuosi della filatura che riuscissero a filare due fili allo stesso tempo erano rari quasi quanto gli uomini con due teste. Invece la jenny ha filato fin da principio con dodici fino a diciotto fusi, il telaio da calzettaio ammaglia con molte migliaia di aghi per volta, ecc. Da bel principio il numero degli strumenti coi quali la stessa macchina utensile lavora simultaneamente è emancipato dal limite organico che restringe l’uso dello strumento artigiano da parte dell’operaio.
La distinzione fra l’uomo come pura e semplice forza motrice e l’uomo come operaio che manovra il vero e proprio operatore, possiede una esistenza tangibilmente particolare in molti strumenti artigiani. Per esempio, nel filatoio a mulinello il piede opera soltanto come forza motrice, mentre la mano che lavora al fuso, trae e torce, compie la vera e propria operazione della filatura. La rivoluzione industriale s’impadronisce per prima proprio di quest’ultima parte dello strumento artigiano lasciando all’uomo, oltre al nuovo lavoro consistente nel sorvegliare con l’occhio la macchina e nel correggerne con la mano gli errori, ancora in un primo momento, la funzione puramente meccanica di forza motrice. Invece gli strumenti pei quali l’uomo agisce fin da principio soltanto come semplice forza motrice, come per esempio nel girare il manubrio d’una macina nel pompare, nell’alzare ed abbassare le braccia d’un mantice, nel pestare in un mortaio, provocano certo per primi l’uso di animali, dell’acqua e del vento come forze che danno movimento. In parte entro il periodo manifatturiero, e sporadicamente già molto prima di esso, questi strumenti si stirano fino a diventare macchine, ma non rivoluzionano il modo di produzione. Nel periodo della grande industria si vede che anche nella loro forma di tipo artigianale essi sono già macchine. Per esempio le pompe, con le quali gli olandesi prosciugarono nel 1836-37 il lago di Hariem, erano costruite secondo il principio delle pompe comuni; solo che, invece di braccia umane, erano ciclopiche macchine a vapore a muovere i pistoni. In Inghilterra il mantice comune e molto imperfetto del magnano viene ancora a volte trasformato in pompa pneumatica meccanica per mezzo del semplice collegamento del suo braccio con una macchina a vapore. La stessa macchina a vapore, come è stata inventata alla fine del secolo XVII durante il periodo della mani fattura e come ha continuato ad esistere fino al principio del decennio 1780-1790, non, ha provocato nessuna rivoluzione industriale. È stato piuttosto il fenomeno inverso, la creazione delle macchine utensili, che ha reso necessario rivoluzionare la macchina a vapore. Appena l’uomo agisce ormai soltanto come forza motrice di una macchina utensile invece di agire con il suo strumento sull’oggetto del lavoro, il travestimento della forza motrice in muscoli umani diventa un fatto casuale, e al suo posto può subentrare il vento, l’acqua, il vapore, ecc.
Ciò non esclude naturalmente che tale cambiamento non richieda spesso grandi modificazioni tecniche del meccanismo originariamente costruito per la sola forza motrice umana. Oggi tutte le macchine che debbono ancora cominciare a farsi strada, come le macchine per cucire, le macchine per impastare il pane, ecc., vengono costruite contemporaneamente per forza motrice umana e per forza motrice puramente meccanica quando non escludano fin da principio, per la loro stessa destinazione, d’esser costruite su piccola scala.
 La macchina, dalla quale prende le mosse la rivoluzione industriale, sostituisce l’operaio che maneggia un singolo strumento con un meccanismo che opera in un sol tratto con una massa degli stessi strumenti o di strumenti analoghi, e che viene mosso da una forza motrice unica, qualsiasi possa esserne la forma. Ecco la macchina, ma per il momento solo come elemento semplice della produzione di tipo meccanico.
L’ampliamento del volume della macchina operatrice e del numero dei suoi strumenti che operano contemporaneamente, richiede una macchina motrice più massiccia, e questa richiede a sua volta, per vincere la propria resistenza, una forza motrice più potente di quella umana, astraendo dal fatto che l’uomo è un imperfettissimo strumento di produzione di moto uniforme e continuo. Presupponendo che l’uomo agisca ormai soltanto come semplice forza motrice, e che quindi al posto del suo strumento sia subentrata una macchina utensile, ci sono forze naturali che lo possono sostituire anche come forza motrice. Di tutte le grandi forze motrici tramandate dal periodo della manifattura la peggiore era quella del cavallo, in parte perché il cavallo ha la testa, a modo suo, in parte perché è caro e può essere usato nelle fabbriche solo in misura limitata. Tuttavia il cavallo è stato spesso usato durante l’infanzia della grande industria, come ci attesta già, oltre le lamentele degli agronomi di quell’epoca, l’uso tramandato fino a noi di esprimere la forza meccanica in « cavalli ». Il vento era troppo incostante e incontrollabile; inoltre l’applicazione della forza idraulica predominava già durante il periodo della manifattura in Inghilterra, paese di nascita della grande industria.

La trasformazione del macchinismo industriale dalle macchine utensili ai moderni robot,  ha comportato un mutamento nel'organizzazione del lavoro dalle prime forme rudimentali di divisione del lavoro alla catena di montaggio, dalla catena di montaggio alle “isole” [F. Pollock Automazione, Einaudi. H. Braverman lavoro e capitale monopolistico, Einaudi], dal fordismo al toyotismo al post-fordismo, che hanno visto, da un lato un aumento della produttività del lavoro; dall’altro lato, ha visto aumentare lo sfruttamento cui sono sottoposti i lavoratori, ovvero, ha visto inasprirsi il processo di estrazione del plusvalore relativo.

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