lunedì 4 aprile 2016

Giovedì trippa


Corrado Bevilacqua
Giovedì trippa
Considerazioni sullo stato della morale pubblica




Credo possiamo essere tutti d'accordo sul fatto che se ci troviamo in una situazione politica di merda ciò dipende dal fatto che la nostra politica vivealla giornata perché le manca il  concetto di prospettiva. Come scrisse il grande Albrecht Durer, la parola prospettiva vuole dire guardare attraverso (E. Panofsky La prospettiva come forma simbolica, Feltrinelli). Per Durer un quadro era una finestra aperta sul mondo. Al pittore era assegnato il compito di rappresentarlo (E. Panowsky Durer, Feltrnelli).
Se noi poniamo a confronto le opere di Giotto e di Piero della Francesca ci rendiamo conto dell'importanza della scoperta della prospettiva matematica applicata alla pittura. (R. White La rinascita dello  Dignitate, in E. Garin Società e vita civile nel Rinascimento, Laterza).
Tale scoperta avvenne in epoca umanisitico-rinascimentale. Il suo scopritore fu Filippo Brunelleschi. (J. Chastel Storia dell'arte italiana, Laterza, id: La grade officina, Rzzoli Arte). L'affermazione nel campo pittorico della prospettiva matematica faceva parte di una rivoluzione culturale che aveva posto l'uomo al centro del cosmo (E. Cassirer Individuo e cosmo nel Rinascimento, La Nuova Italia).
La riflessione sul destino dell'uomo toccò l'apice nella Orazione sulla dignità dell'uomo di Giovanni Pico della Mirandola. Per Pico, l'uomo non era né angelo né demonio, ma era libero di diventarlo (G. Pico della Mirandola Horatio De Hominis Dignitate, in E. Garin La cultura filosofica del Rinascimento, La Nuova Italia) .
Contemporeneamente, s'era sviluppata l'idea, come scrisse il  fisico austriaco Kurt Mendelshoon, che le nostre azioni potessero essere pianificate al fine di raggiungere determinati obiettivi (K. Mendelsshon La scienza e il dominio dell'Occidente, Editori Riuniti). 
In tempi recenti, questa concezione ha portato alla invenzione della ricerca operativa, dell'analisi dei costi-benefici, della programmazione lineare, delll'analisi delle attività, a valutazione di impatto ambientale (F. Caffè, a cura di, Il pensiero economico contemporaneo, vol. III, L'impiego delle risorse, Angeli; F. Caffè Economisti moderni, Laterza; V. Bettini L'analisi d'impatto ambientale, Cluep; Id L'analisi ambientale. cluep).
In altre parole, assieme alla prospettiva come forma simbolica nacque il moderno concetto di efficienza ottenibile organizzando in modo razionale le risorse disponibili. Per dirla schietta nacque il capitalismo il quale si fonda fra e alte cose, come spiegava Max Weber, sul calcolo economico razionale. (M. Weber Storia economica", Donzelli).
La Rivoluzione bolscevica alimentò l'illusione che fosse possibile per l'uomo progettare il proprio futuro. Il crollo del comunismo ha distrutto quel sogno e ci ha posti di fronte alla realtà: la vita non era pianificabile. La globalizzazione ha liquefatto la società (Z. Bauman Modernità liquida, Laterza) e ha trasformato la nostra vita in uno “stagno delle ninfee” rendendo l'individuo più solo ed isolato che mai (Z. Bauman La solitudne dell'individuo globale, Feltrinelli). Ciò crea un  senso di spaesamento, di anomia, di sradicamento che sta mettendo a dura prova le "strutture elementari della società". La globalizzazione infatti non ha eliminato le disuguaglianze sociali; le ha rese  "non di classe"”o, per meglio dire le ha "trasverzzalizzate" (U. Beck La società del rischio, Carocci; Id Humana conditio, Laterza).
Come scrisse il Nobel Paul Krugman, è vero che la globalizione ha reso il modo più ricco; ma è anche vero che i suoi benefici  non ono stati istribuiti in modo egualitario. Nella società capitalistica dell'era industriale le relazioni di classe erano basate sulla dialettica servo-padrone. (R. Aron La lotta di classe, Comuiutà, id.La società industriale, Coimuità )Nelle società del consumo dell'era post-industriale è diventato sempre più difficile individuare il nemico; mentre, gettata alle ortiche la vecchia "cultura del lavoro" è diventato sempre più difficile individuare dei valori comuni e fondare su di essi un nuovo genere di ordine sociale (U. Beck Potere e contropotere nell'età globale, Laterza).
Nessuno parla di "programmazione economca" o di "piano del capitale"(V. Foa Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, in QR, n1; M. Tronti, La fabbrica e la società, in Q, n 2; Id. Il piano del capitale, in QR, n 3; D. Lanzardo Temi della programazione sociale dello sviluppo" in QR ul cit.; G. Greppi  A. Pedirolli Prduzione e programmaziome territoriale, in QR ult. cit).
Questa tematica , sviluppata da Raniero Panzieri nella Relazione sul neocaptalismo tenuta al convegno di Agape del 1962, diventò, per una certa sinistra, una specie di "chiave universale" che apriva tutte le porte e spiegava qualunque fenomeno economico, sociale, politico e culturale.(R. Panzieri Relazione sul neo capitalismo, in id La rinascita del marxismo teorico in Italia, Sapere).
Lo stesso Keynes venne considerato un sostenitore dell'economic planning, magari  targato Manchester. Nulla di più sbagliato. Egli era sia un avversario del manchesterismo come egli aveva scritto nel 1926 in La fine del lasciar fare, che un avvesario del socialismo e dell'economic planning. Egli pensava che, come aveva scritto nel 1923 in La riforma monetaria, che era troppo facile per un economista tirarsi fuori dalla mischia affermando che, passata la tempesta, sarebbe ritornato il sole. Per Kyenes l'economista doveva imparare a sporcarsi le mani con la politica (A. Negri Keynes su ciclon crisi, in AAVV . Operai e stato, Feltrinelli).
Fu così che nel 1933, non appena Roosevelt si fu insediato a White House, Keynes chiese un incontro con lui. Roosevelt glielo concesse. Keynes e Roosevelt parlarono a lungo, ma non si capirono. Colpa della lingua? George Bernard Shaw amava dire che inglesi e americani erano un unico popolo diviso dalla lingua. Io credo che l'incomprensione fosse più profonda. Essa riguardava il rapporto fra economia e politica. Al termine del colloquio, Roosevelt confessò ad un suo collaboratore che Keynes gli aveva parlato per un'ora di matematica. Keynes confessò a un suo collaboratore che Roosevelt non capiva un accidente di economia.

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All'inizio degli anni settanta coppiò quella che venne chiamata “crisi fiscale dello stato” (J. O'Connor La crisi fiscale dello stato. Einaudi). Essa causò la débacle dello stato socile (G. Ritter Storia dello stato sociale, Laterza). Esso nacque in Germania al tempo del cancelliere Otto von Bismark. Il suo teorico fu Lorenz von Stein. Otto von Bismark aveva messo fuori legge i socialdemocratici della SPD perché li temeva, ma temeva ancor di più il mostro dell' ingovernabilità. La concessione della “social card” ai lavoratori gli sembrava un'ottmo mezzo di scambio. In questo modo vennero poste le basi per la Mitbestimmung, ovvero, per la cogestione, vero e proprio hub  del sindacalismo tedesco e simbolo del "capitalismo renano".

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La storia dello stato sociale, come scrisse Giuseppe Garofalo dell'università della Tuscia, è caratterizzata da diverse fasi.
Pima fase. Una  prima elementare fora di stato sociale o, per dirlo in più esattamente, di Stato assistenziale venne introdotta nel 1601 in Inghilterra con la promulgazione delle leggi sui poveri (PoorLaw). Queste leggi ccontenuto filantropico, prendevano le mosse da considerazioni secondo cui, riducendo il tasso di povertà, si riducevano fenomeni negativi connessi come la criminalità.
Sempre in Inghilterra, fu compiuto un ulteriore passo avanti con l'istituzione delle workhouse, case di lavoro e accoglienza che si proponevano di combattere la disoccupazione e di tenere, così, basso il costo della manodopera. Tuttavia queste si trasformarono di fatto in luoghi di detenzione forzata; la permanenza in questi centri pubblici equivaleva alla perdita dei diritti civili e politici in cambio dell'assistenza governativa.
Seconda fase
La seconda fase, ispirata da monarchie costituzionali conservatrici o pensatori liberali, si riconduce alla prima rivoluzione industriale ed alla legislazione inglese del 1834 (estesa al continente europeo solo tra il 1885 ed il 1915) . Anche in questo caso le forme assistenziali sono da ritenersi individuali e sono rivolte unicamente agli appartenenti ad una classe sociale svantaggiata (minori, orfani,poveri ecc.): in questo contesto nacquero le prime “assicurazioni sociali”che garantivano i lavoratori nei confronti di incidenti sul lavoro, malattie e vecchiaia; in un primo momento queste erano su base volontaria, in seguito divennero obbligatorie per tutti i lavoratori. •Le motivazioni della svolta furono la ricerca della pace socialeconciliando le rivendicazioni di maggior protezione da parte dei lavoratori proletari (si può parlare di ceti medi solo a partire dalla seconda rivoluzione industriale, dal 1870 al 1914) e dalla richiesta di una manodopera a basso costo da parte degli industriali. •Nel 1883 nacque, in Germania, l'«assicurazione sociale», introdotta dal cancelliere Otto von Bismarck per favorire la riduzione della mortalitàe degli infortuni nei luoghi di lavoro e per istituire una prima forma di previdenza sociale.Secondo alcuni studiosi fu il "capitale" a spingere per i versamenti obbligatori dei propri operai, al fine di non doversi piùaccollare per intero il costo della sicurezza sociale dei lavoratori.
Terza fase
La terza fase, quella dell'attuale Welfare, ha inizio nel dopoguerra. Nel 1942, nel Regno Unito, la sicurezza sociale compì un decisivo passo avanti con il cosiddetto Rapporto Beveridge, stilato dall'economista William Beveridge, che introdusse e definìi concetti di sanità pubblica e pensione sociale per i cittadini. Tali proposte vennero attuate dal laburista Clement Attlee, divenuto Primo ministro nel 1945.
La Svezia nel 1948 fu il primo paese ad introdurre la pensione a tutto il popolo fondata sul diritto di nascita. Il Welfare divenne cosìuniversale, rendendo tutti i cittadini portatori di uguali diritti civili e politici per l’intero ciclo di vita. L’affermazione del neonato Stato sociale con il forte incremento della spesa pubblica portò ad una crescita esponenziale del PIL.
La situazione riuscì a mantenersi in sostanziale equilibrio per qualche decennio. Infatti nel periodo che va dagli anni 50 fino agli anni 80 e anni 90 la spesa pubblica crebbe notevolmente, specialmente nei Paesi che adottarono una forma di Welfare universale, ma la situazione rimase tutto sommato sotto controllo grazie alla contemporanea sostenuta crescita del Pil diffusa nella generalitàdelle economie.In questo periodo si ha un rafforzamento della classe media.
Già a partire dagli anni 80-90 i sistemi di Welfare sono entrati in crisi per ragioni economiche, politiche, sociali e culturali, tanto da parlare, da allora, di una vera e propria crisi del Welfare State.Molte furonole cause. Il calo dell’importanza dell’industria, soprattutto di quella tradizionale, e l’espandersi del settore delle alte tecnologie tendono a disgregare la classe mediadando origine da un lato ad un certo numero di operatori specializzati ad alto livello di conoscenza (capitale umano), caratterizzata da redditi medio alti, e dall’altro ad una massa di lavoratori meno formati, inseriti nell’industria tradizionale o nei servizi, con redditi piùbassi, ma che riesce comunque in qualche modo a salvaguardare il proprio tenore di vita ed accedere a beni e servizi che fino a pochi anni fa erano prerogativa dei ceti più elevati. Una terza fascia della popolazione, infine, è colpita sempre più dalla povertà (operai, pensionati, alcuni tipi di dipendenti pubblici).
Il ceto medio che si era sviluppato ponendosi per un lungo periodo di tempo come principale blocco di domanda per beni e servizi e politicamente come classerappresentativa, viene meno perchéi consumatori di paesi emergenti(come India e Cina) costituiscono oggi i maggiori bacini di domanda ed èvenuto meno il ricatto rappresentato dalle spinte proletarie.
I meccanismi di protezione sociale entrano in crisi: in primo luogo non è più praticabile un Welfare costoso ed ampio perché si deteriora progressivamente la possibilitàdi finanziarlo tassando i ceti medi, che si stanno avviando principalmente verso redditi medio bassi; d’altra parte le aziende occidentali non riescono a sostenere forme di tutela nei confronti dei propri lavoratori e, allo stesso tempo, competere con agguerriti concorrenti dei paesi in via di sviluppo che non hanno questi costi.
Aggravano il quadro l’aumento della vita media della popolazione e del costo delle cure mediche (sempre più avanzate), ai quali si somma lo scarso rendimento dei mercati azionariche mette in difficoltà le assicurazioni sanitarie, che devono così ridurre la propria offerta creando problemi specialmente nei sistemi che si basano su di esse loro.
La fine del ceto medio europeo coincide con una fase in cui gli Stati non possono più pensare di utilizzare il prelievo fiscale per creare benessere: da un lato si restringe il bacino di popolazione a cui attingere, d’altra parte la struttura tradizionale del Welfare mostra di avere bisogno d’essere innovata.
La riduzione del prelievo fiscale deve, secondo molti osservatori, procedere di pari passo con un ammodernamento dei servizi offerti dallo Statoi quali devono essere piùa basso costo e di natura essenziale, ma non per questo di minor qualità.Le logiche che possono essere messe in atto sono le stesse che vengono attuate dalle imprese low cost, che si basano su economie di scala, forte ricorso alle tecnologie per i processi gestionali, idee innovative, servizi essenziali e razionalizzati. Questo dovrebbe accompagnarsi con un tetto massimo di tassazione più contenuto possibile in modo tale da incrementare consumi, investimenti e crescita economica. L’Europa mostra resistenza ad abbandonare i vecchi modelli per ragioni storiche ed ideologiche, rallentando, secondo alcuni, per questo la propria crescita.
L’importante è il costo della mediazione pubblica (confronto tra servizi erogati e prelievo fiscale): esso è in relazione a “efficienza”ed “efficacia”dell’intervento pubblico, due questioni che andrebbero analizzate con serietà. Tagli fiscal. Tagli ai servizi
Ciò ci pone una domanda: Dobbiamo considerare il  Welfare state una forma superata di paternalismo o una tutela contro i rischi, indispensabile nell’era dell’incertezza? “Tutti gli uomini sono stati creati uguali”, si legge nella Dichiarazione americana di Indipendenza. Thomas Jefferson fu il primo ad usare questa frase nella Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti (1776) come rifiuto della teoria del diritto divino dei re.
Il 28 agosto 1963 Martin LutherKing cita il motto di Jefferso nel suo famoso discorso I Have a Dream: «E quindi, anche se ci troviamo ad affrontare le asperitàdell'oggi e del domani, io ho ancora un sogno. Èun sogno profondamente radicato nel sogno americano. Io sogno che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso autentico del suo credo: "noi riteniamo queste verità ovvie, che tutti gli uomini sono stati creati uguali"»
Ricordato ciò, va anche ricodato che esistono differenti generi di welfare. C'è un  welfare“residuale” tipico dei paesi anglosassoni (Australia, Nuova Zelanda, Canada, Gran Bretagna e Usa) caratterizzato dalla predominanza del mercato. I diritti sociali derivano dalla dimostrazione dello stato di bisogno. Il sistema è fondato sulla precedenza ai poveri meritevoli (teoria della lesseligibility) e sulla logica del "cavarsela da soli". Pertanto i servizi pubblici vengono forniti solamente a chi è povero di risorse, previo accertamento dello status di bisogno; in virtùdi questo, tale meccanismo viene spesso definito residuale, in quanto concernente una fascia di destinatari molto ristretta. Per la maggior parte degli individui, tali servizi sono acquistabili sul mercato privato dei servizi. Quando l'incontro tra domanda e offerta non ha luogo, per l'eccessivo costo dei servizi e/o per l'insufficienza del reddito, si assiste al «fallimento del mercato», cui pongono rimedio programmi destinati alle fasce di maggior rischio; negliUsa, ad esempio, il Medicaid per i poveri, il Medicareper gli anziani e l'AFDC per le madri sole. Tale regime riflette una teoria politica secondo cui è utile ridurre al minimo l'impegno dello Stato, individualizzando i rischi sociali. Il risultato è un forte dualismo tra cittadini non bisognosi e cittadini assistiti
 Regime conservatore di Welfare “particolaristico” tipico degli Stati dell’Europa continentale e meridionale, tra cui l’Italia (in una prima fase) I diritti derivano dalla professione esercitata: le prestazioni del Welfare sono legate al possesso di determinati requisiti, in primo luogo l'esercitare un lavoro. In base al lavoro svolto si stipulano delle assicurazioni sociali obbligatorie che sono all’origine della copertura per i cittadini. I diritti sociali sono quindi collegati alla condizione del lavoratore. Una variante del modello particolaristico èil cosiddetto Welfare aziendale che si èdiffuso in alcuni paesi occidentali ed in Giappone che si basa su contributi dei dipendenti e della stessa azienda, eventualmente come forma di partecipazione agli utili da parte dei dipendenti.
Regime socialdemocratico di Welfare “universalistico” tipico dei Paesi scandinavi e dell'Italia I diritti derivano dalla cittadinanza: vi sono quindi dei servizi che vengono offerti a tutti i cittadini dello Stato senza nessuna differenza. Tale modello promuove l’uguaglianza di status passando cosìdal concetto di assicurazione sociale a quello di «sicurezza sociale», fornendo un Welfare che si propone di garantire a tutta la popolazione standard di vita qualitativamente più elevati.
Di fronte alla crisi dello Stato sociale e dei ceti medi (visibili in questi anni) alcuni economisti sostengono la necessità di diminuire la spesa pubblica ed il prelievo fiscale, sostenendo allo stesso tempo nuove forme di socialità basate su servizi più efficienti e meno costosi grazie ad una gestione che sappia sfruttare le «economie di scala» ed al ricorso alle tecnologie informatiche dei servizi erogati al cittadino. Si sostiene allo stesso tempo l'idea di affidare (in tutto o in parte) a gestori privati, ritenuti piùefficienti, servizi come le pensioni (fondi pensione privati), la sanitàe l'istruzione.
Tuttavia i problemi di giustizia ed «equità»sociale, nonché il ridotto ruolo dello Stato nella redistribuzione della ricchezza, che deriverebbero da simili scelte, per molti non sono affatto trascurabili, specie alla luce di quanto emerso nell'attuale crisi.
Il problema delle pensioni
Un settore chiave del Welfare è rappresentato, soprattutto in Italia, dal sistema pensionistico. In Italia il prelievo pro capite è di circa il 33% a fronte di prestazioni in calo, soprattutto per le nuove generazioni. Si parla di sostenere il sistema pensionistico con ulteriori contributi privati obbligatori (di categoria o aziendali) ed eventualmente con contributi facoltativi a carico dei lavoratori[cosiddetti “3 pilastri”]. Negli USA spesso nell’affidamento ad apposite agenzie pubbliche della gestione dei trattamenti, aggravando la situazione del comparto della previdenza pubblica e peggiorando molto la qualità dell’assistenza erogata. Alcuni Paesi hanno attuato riforme del sistema pensionistico chedestano un certo interesse: in particolare Cile, Polonia e Svezia. L’esperimento cileno è stato attuato ai tempi di Pinochet(negli anni 80), con conti di risparmio individuali che hanno avuto alto rendimento e hanno finanziato la ripresa economica del paese. Oggi però un simile modello appare di difficile attuazione perché i mercati azionari ed obbligazionari non sono più capaci di rendimenti come quelli di quegli anni. In Poloniail settore dell’assistenza pensionistica è stato ceduto a ventuno gestori privati nel 1999 generando una gran confusione (molti sono diventati agenti venditori di polizze pensionistiche e hanno proliferato truffe di ogni tipo). In Svezia, grazie alla vigilanza di una Authority appositamente creata per controllare la gestione dei fondi pensione privati, le cose vanno meglio, salvo il fatto che il sistema dovrànecessariamente nei prossimi anni intensificare il prelievo suilavoratori per mantenere gli standard pensionistici attuali.
Due settori chiave: istruzione e sanità
In un quadro in cui domina la società della massa, relativamente patrimonializzata e desiderosa di accedere sempre a più servizi, l’istruzione diventa lo strumento base da parte dei lavoratori occidentali per creare il proprio vantaggio rispetto ai “colleghi” dei paesi emergenti e per guadagnarsi un posto di lavoro dignitoso. Il settore ha inoltre un’importanza strategica per il benessere dell’intero sistema economico.
La sanità da un lato vede crescere il costo delle cure e dei macchinari che diventano sempre più sofisticati, dall’altro deve offrire nuovi servizi e di maggior qualità rispetto al passato come l’attenzione alla soddisfazione del paziente e la sua gestione psicologica, interventi di chirurgia estetica, consulenze dietologiche ecc.
Molti sostengono la necessitàdi trasferire la gestione di questi servizi al settore privato, ritenuto anche capace di organizzarli in maniera piùefficiente, lasciando allo Stato la capacità di regolamentare e vigilare in maniera anche piuttosto severa. Alla base di queste proposte sta il convincimento che, nel caso di gestione privata dei servizi, i costi sarebbero ridotti grazie ad una più efficiente gestione delle risorse, e la qualità migliorerebbe grazie alla concorrenza tra gli offerenti dei vari servizi.
Il rischio da evitare. Una società ingiusta …. Una distribuzione del reddito troppo iniqua mina le basi della convivenza civile e può essere dannosa per le prospettive economiche. Una società si fonda su un “patto intergenerazionale”che va garantito. L’ascensore sociale non funziona più? Il tutto deriva da una falsa interpretazione dell’«efficienza» vista in contrapposizione con il requisito dell’«equità». Occorre, in realtà, tener conto sia dell’una sia dell’altra.
 Una distribuzione del reddito poco egualitaria
Negli anni 70 l’1% degli americani più ricchi assorbiva il 9% del reddito complessivo Nel 2007, alla vigilia della crisi, l’1% degli americani più ricchi assorbiva il 23% del reddito complessivo [come nel 1928]
In Italia, il reddito mediano (quello che divide esattamente in due la popolazione) e il reddito del decile piùpovero è il piùbasso tra i paesi considerati e la media OCSE, il reddito del decile più ricco risulta più alto rispetto alla media OCSE, e anche rispetto al dato della Francia.
Misura la probabilità che i figli mantengano lo stesso reddito dei padri (piùbasso èil valore e piùalta èla probabilitàche i redditi cambino di generazione in generazione). Il sogno americano, la possibilità per ciascuno di migliorare indipendentemente dalle condizioni di nascita, sembra realizzarsi piùnei paesi dell’Europa continentale che in quelli anglosassoni. L’Italia ha una bassa probabilità di ascesa sociale rispetto a Francia e Germania.
Quanto abbiamo finira detto pone alcune domande: L’Italia non è un paese per giovani?  E' equo questo modello sociale? Affidare alla famiglia un ruolo vicario rispetto alle politiche pubbliche significa ammettere che vi è una rete di protezione differenziata a seconda della famiglia d'origine …La maggior dipendenza dalla famiglia d'origine limita la capacitàdei giovani di proseguire progetti di vita autonomi, la loro partecipazione economia e sociale, la loro propensione ad abbandonare la condizione di "figlio" e assumere il ruolo di genitore. Questi sono costi per i singoli e per la collettivitàche nessuno ha ammortizzato"
“In tale contesto, scrive Bankitalia si ribadisce il fenomeno tristemente inedito di un Paese dove i figli non possono guardare a prospettive socio-economiche migliori rispetto a quelle dei genitori: tra il 2008 e il 2009 il tasso di occupazione della popolazione tra i 15 e i64 anni ècalato di 1,2 punti percentuali e questa flessione èascrivibile ai figli per 0,9 punti e ai capifamiglia per solo 0,3. "In altri termini, nonostante i figli rappresentino circa un quinto del totale degli occupati,hanno contribuito per quasi il 70% alla variazione negativa del tasso di occupazione complessivo".

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Secondo la tradizione, l’economia politica nacque in Scozia nel 1776 con la pubblicazione di Indagine sulla natura e sull’origine della ricchezza delle nazioni di Adam Smith la quale diede i natali al moderno concetto di uomo economico [L. Dumont Homo aequalis, Adelphi], ovvero, al  rappresentante di una nuova visione del mondo, oggi definita come borghese: la nascita della economia politica coincide con la nascita del capitalismo moderno. [A. Hirschman Le passioni e gli interessi.  Feltrinelli]. L'homo oeconomicus è l’uomo borghese [W, Sombart Il borghese, Guanda], l’uomo che, prima di compiere le sue scelte siano esse economiche o di altra natura, soppesa attentamente profitti e perdite, costi e benefici, utilità e disutilità. L’uomo economico è una sorta di Robinson Crusoe, prototipo del borghese [S. Hymer Robinson Crusoe e i segreti dell'accumulazione originaria, in Monthly Review, sett. 1971].
I precursori. Fra i precursori di Smith spiccano i nomi di sir William Petty e di François Quesnay. Petty può essere ritenuto il fondatore della moderna statistica economica. Le sue opere più note sono Aritmetica politica, Anatomia politica di Irlanda, Trattato delle imposte. Petty visse nel XVII secolo. Petty era medico militare e amava ragionare con i numeri. Chi  ama ancor oggi ragionare con i numeri non può non sentirsi attratto dalla sua opera. Petty è noto per aver pronunciato la famosa frase: “Il lavoro è il padre e la terra è la madre di ogni ricchezza”. Quesnay è famoso per aver declassato a lavoro sterile il lavoro degli artigiani. Per Quesnay solo il lavoro agricolo era produttivo. Quesnay inoltre è celebre per la sua concezione dell’ordine naturale delle cose. Smith riabilitò il lavoro degli artigiani e sbeffeggiò preti, saltimbanchi e altri onorati ordini della società [J. A. Schumpeter Storia dell'analisi economica, Boringhieri]

Da tempo, non si parla più di Economia politica, ma si parla di Economica  – Economics in inglese – oppure di Analisi economica, volendo sottolineare il carattere scientifico e, per questo, neutrale della Economica [M. Dobb Economia politica e capitalismo, Boringhieri]. La verità è che la visione del mondo che sta dietro l’Economica è altrettanto ideologica della visione del mondo che stava dietro la Economia politica. [P. Samuelson Economica, Utet] Come Marx scrisse in Miseria della filosofia,

"Gli economisti esprimono i rapporti della produzione borghese, la divisione del lavoro, il credito, la moneta, ecc., come categorie fisse, immutabili, eterne… Gli economisti ci spiegano come avviene la produzione entro questi rapporti dati, ma ciò che non ci spiegano è come questi rapporti si producano, vale a dire non ci spiegano il movimento storico che li ha generati.

Il capitalismo è una formazione economico-sociale storica (I. Wallestein Il capitalismo storico, Einaudi) che si basa sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e scambio; sulla libertà di iniziativa, su un mercato del lavoro governato dalla legge della domanda ed offerta, su imprese che fanno uso del calcolo economico-razionale. [M. Weber Storia economica, Donzelli]. Il capitalismo comparve in un ben determinato periodo storico ed è destinato a scomparire come tutto ciò che attiene alla storia [M. Dobb Problemi di storia del capitalismo, Editori Riuniti]

E’ famosa tesi di Max Weber sull’origine protestante dell’etica capitalistica. Tale tesi fece molto discutere. Vedi le opere di Richard Tawney, di Ernst Troelsch e di Amintore Fanfani. Oggi, quello che oggi possiamo dire in merito a questa tesi è che il rapporto fra economia ed etica è un rapporto molto complesso [A. Sen Economia ed etica, Laterza] e che se vi sono aspetti del protestantesimo che possono aver favorito l’affermarsi dello spirito del capitalismo, è altrettanto vero, come dimostrò Fanfani, che altri aspetti non meno importanti sono presenti nel cristianesimo. [L. Gallino Dizionario di sociologia, Utet]

E’ nota pure la tesi di Marx che individuò l’origine del capitalismo nella comparsa del moderno proletariato di fabbrica. In realtà, sia la tesi di Weber che la tesi di Marx colgono degli aspetti importanti del problema inerente l’origine del capitalismo, ma non lo risolvono. [A. Cavalli, a cura di, Le origini del capitalismo, Loescher] La stessa cosa può essere detta del dibattito che si aprì a suo tempo in campo marxista in merito alla transizione dal feudalesimo al capitalismo cui parteciparono Maurice Dobb e Paul Sweezy.  [La transizione dal feudalesimo al capitalismo, a cura di Angelo Bolaffi, Savelli].
Un dibattito altrettanto acceso fu quello che ebbe come oggetto del contendere le cosiddette condizioni dell’industrializzazione [P. Bairoch Rivoluzione industriale e sottosviluppo, Einaudi] e i cosiddetti vantaggi del ritardo [A. Gerschenkron Il problema storico dell'arretratezza economica, Einaudi]. Un fatto, comunque, è certo. Tutti i paesi oggi considerati sviluppati presentano alcuni aspetti economici, sociali, politici e culturali comuni. [D. Landes Ricchezza e povertà delle nazioni, Garzanti].
Inoltre, non dobbiamo dimenticare, da un lato, il ruolo fondamentale svolto dallo sviluppo della della scienza e della tecnica. [D. Landes Prometeo liberato, Einaudi]; dall’altro lato, il fatto che ogni paese ha seguito una via all’industrializzazione diversa da quella degli altri paesi e che  esiste una quantità di modelli di industrializzazione. [T. Kemp Modelli di industrializzazione, Laterza. Id L'industrializzazione in Europa nell'Ottocento, Il mulino].

Nella pubblicistica corrente, capitalismo è considerato sinonimo di economia di mercato. Non è esatto. Esiste anche il capitalismo di stato o, come scrivevano gli economisti marxisti, il capitalismo monopolistico di stato, cioè quella forma di capitalismo in cui lo stato viene a svolgere un ruolo fondamentale nel processo di accumulazione del capitale [F. Pollock teoria e prassi dell'economia di piano, De Donato, C. Offe Lo stato nel capitalismo maturo, Etas Libri. J. Habermas La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, Laterza, M. Horkheimer Lo stato autoritario, in La società di transizione, Einaudi].

Il concetto di economico. Il moderno concetto di economico nacque all’inizio dell’era moderna con l’avvento al potere della borghesia ed ebbe la sua consacrazione nella “Ricchezza delle nazioni” di Adam Smith. Come scrisse infatti Albert Hirschman, “il fine principale de ‘La ricchezza delle nazioni’ consiste nell’affermare un solenne principio economico che giustificasse il libero perseguimento del personale interesse da parte di ciascuno”. [A. Hirschman Le passioni e gli interessi, Feltrinelli]

In realtà, come dimostrò Thomas Nagel nel suo saggio intitolato Possibilità dell’altruismo, esiste anche l’altruismo, ovvero, esistono anche delle motivazioni non egoistiche dell’agire umano. [B. Frey Non solo per denaro, Mondadori].
 Capitalismo per von Hayek, icona del neoliberismo, significa libertà, libertà di giocare con la propria vita e la vita degli altri. (D. Harvey Storia del neoliberismo, ll saggiatore). Il punto di vista di von Hayek è l’esatto opposto del punto di vista di Max Weber. Infatti, laddove Weber metteva in luce la presenza di una morale dell’impegno e della responsabilità dovuta all’origine riformatrice dello spirito del capitalismo [M. Weber L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, Sansoni]; von Hayek enfatizza l’aspetto ludico dell’attività economica in regime capitalistico. Chi svolge un’attività economica in regime capitalistico, per von Hayek è completamente irresponsabile delle conseguenze delle sue azioni, ammesso che egli non abbia compiuto quache reato. [F. A. von Hayek Legge, legislazione, libertà, Il saggiatore]
Il capitalismo per  Milton Friedman è sinonimo di efficienza, libertà e democrazia. In realtà, le cose stanno in modo affatto opposto. La concezione friedmaniana del capitalismo postula infatti una società fondata su un’economia di concorrenza perfetta nella quale esiste una miriade di piccole imprese che ricevono i prezzi dal mercato e che, date le loro piccole dimensioni non sono in grado di condizionare il funzionamento del mercato. [M. Friedman Capitalismo e libertà, Studio Tesi. Id Liberi di scegliere, Longanessi.]

L’economia contemporanea è tutto meno che di concorrenza perfetta ed è caratterizzata da forme non-concorrenziali di mercato che consentono alle grandi imprese non solo di controllare il mercato dei loro prodotti e servizi, ma consentono loro anche di controllare i giornali, le emittenti televisive, le produzioni cinematografiche; in altre parole, consentono loro di plasmare la società a propria immagine e somiglianza, creando i consumatori dei propri prodotti e servizi con pubblicità più o meno occulte, condizionando l’azione dei governi attraverso l’azione di potenti lobby. [R. Reich Supercapitalismo. Fazi. B. Barber Consumati, Einaudi].

 Chiunque legga le “Lezioni di politica sociale” di Luigi Einaudi non può non rimanere colpito dalla vivacità con la quale l’autore descrive il funzionamento di un’economia di mercato. Il libro venne dettato da Einaudi nel 1944 e, a quell’epoca, con tutto il rispetto che è dovuto al suo autore, il mercato descritto nel libro apparteneva ormai al mondo delle favole. L’economia di mercato, ovvero, se vogliamo chiamarla con il suo nick name, il capitalismo, aveva imboccato la strada della monopolizzazione e i governi dei paesi capitalistici avanzati avevano cominciato ormai da tempo a mettere in atto delle misure anti-trust.

Ancora nel 1910 l’economista marxista austriaco Rudolf Hilferding aveva dato alle stamape “Il capitale finanziario” nel quale analizzava il modo di funzionamento del nuovo capitalismo nato dalla fusione fra capitale industriale e capitale bancario.

Nel 1933, Joan Robinson aveva pubblicato il saggio sull’economia della concorrenza imperfetta e Edward Chamberlein aveva pubblicato il saggio sulla concorrenza monopolistica. Gardiner Means e Adolf Berle avevano dato alle stampe “Proprieà privata e società per azioni” nel quale analizzavano il modo di funionaamento delle moderne società per azioni basato sulla separazione fra proprietà e controllo.

Il 1933 fu anche l’anno in cui in America venne lanciato il New Deal basato sull’idea che si era entrati in un’epoca che rendeva necessaria l’instaurazione di nuovi rapporti fra stato e economia; e fu sulla base di questa idea che venne elaborata la teoria dei poteri contrapposti esposta da John K. Galbraith nel 1957 in “American Capitalism”.

L’anno prima, il nostro Paolo Sylos Labini aveva pubblicato la prima edizione di “Oligopolio e progresso tecnico” che diventò un classico dell’argomento per la complessità e l’acutezza dell’analisi.

Sono trascosi sessant'anni d’allora. Le biblioteche si sono riempite di libri sull’argomento. Nuove leggi anti-trust sono state emanate; il problema, però, non è stato risolto, né potrà mai essere risolto perché è la logica che governa il modo di funzionamento del capitalismo che porta inevitabilmente alla monopolizzazione della economia e fa piazza pulita delle “robinsonate” alla Friedman.

In questo quadro, penso che un libro come “Il capitale monopolistico” di Baran e Sweezy, malgrado i suoi errori, abbia ancora molte cose da insegnarci, ad esempio in materia di spese militari e della relativa militarizzazione dell’economia e della società. Come dire che non è solo per amore della democrazia e della pace che noi abbiamo fatto guerra alla Jugoslavia, all’Iraq e che noi samo oggi in Afghanistan, ma perchè a far politica è, oggi come ieri, il complesso militare-industriale.

 [L. Einaudi "Lezioni di politica sociale", Einaudi, R. Hilferding "Il capitale finanziario", Feltrinelli, A. Berle G. Means "Società per azioni e proprietà privata", Einaudi, J. K. Galbraith "Il capitalismo americano", Comunità, P. Sylos Labini "Oligopolio e progresso tecnico", Einaudi, M. Friedman "Capitalismo e libertà", Studio tesi, P. Baran P. Sweezy "Il capitale monopolistico", Einaudi]

Secondo Veblen. In principio fu il branco. I nostri antenati, dai tratti somatici ancora scimmieschi, si muovevano a gruppi, alla ricerca di qualcosa da mangiare e di femmine da razziare. Come ricordava Veblen in Teoria della classe agiata, la lotta per il possesso dei beni seguì la lotta per il possesso delle donne e la facilitò.
Thorstein Veblen non è mai stato considerato un grande economista. Il suo nome compare appena nelle più famose storie del pensiero economico. Egli infatti è sempre stato considerato più un sociologo che un economista, più uno psicologo che un analista economico. La lettura della sua opera ci aiuta a capire però il capitalismo meglio di quello che fanno le opere dei suoi più famosi colleghi.

Veblen ci parla infatti del capitalismo in carne e ossa, ci illumina sui vari aspetti della concorrenza capitalistica; mostra i lati oscuri  della accumulazione capitalistica; ci introduce ai misteri del “consumo vistoso”; evidenzia l’istinto di rapina della società capitalistica. In altre parole, ci parla di ciò di cui non si parla mai e che costituisce invece il basamento sul quale è costruito il capitalismo. [T. Veblen Teoria della classe agiata, Il saggiatore]

Per Weber capitalismo significava razionalità – calcolo razionale, impresa gestita con criteri razionali, diritto razionale. [M. Weber Economia e società, Comunità] Tale razionalità era l’altra faccia dell’ascesi protestante. [M. Weber Etica protestante e spirito del capitalismo, Sansoni]. Ne derivava, per Weber che, una volta che l’elemento ascetico d’origine protestante fosse svanito, il capitalismo  si sarebbe trasformato in una fredda “gabbia d’acciaio”. [M. Weber Economia e società, Comunità].

Karl Marx, l’autore che più d’ogni altro fu acerrimo critico del capitalismo, non possedeva il concetto di capitalismo e perderemmo il nostro tempo a cercare la parola capitalismo fra le migliaia di pagine della sua opera. Per Marx, il capitalismo era una formazione economico-sociale caratterizzata dalla proprietà privata dei mezzi di produzione e scambio. Essa era comparsa in una determinata epoca della storia ed era destinata ad essere sopraffatta dalla contraddizione fra sviluppo delle forze produttive e i rapporti capitalistici di produzione.[K. Marx Prefazione a Per la critica dell'economia politica, Editori Riuniti]

I soggetti economici che ci interessano sono lo stato, le famiglie, le imprese, le banche. Le famiglie, secondo una classica definizione sono le cellule della società. Sono l’istituzione che si cura delle condizioni di vita della popolazione. Le famiglie tenendo conto del reddito percepito dai loro componenti decidono quanto del loro reddito deve essere consumato e quanto deve essere risparmiato. I risparmi sono normalmente tenuti in banca. Con il loro reddito, le famiglie pagano i beni e i servizi da esse acquistati – luce, acqua e gas – e pagano le imposte, le tasse ed i contributi volontari.

Le imprese producono beni e servizi, assumono i loro dipendenti, pagano loro stipendi e salari, pagano le imposte e tasse, prendono denaro a prestito dalle banche e pagano loro gli interessi.

Le banche prendono il denaro proveniente dalle famiglie e lo prestano alle imprese. Senza banche l’attività economica sarebbe impossibile, da qui le recenti polemiche sulla riottosità delle banche e concedere denaro alle imprese venendo così ad aggravare la situazione economica del paese.

Lo stato gestisce la cosa pubblica utilizzando il denaro proveniente dalla attività fiscale. Altre fonti di entrata per lo stato sono l’emissione di moneta e la vendita di titoli sul mercato. Ciò è quanto succede in condizioni normali. Come vedremo, tali condizioni possono mutare per diverse ragioni.

Le crisi sopravvengono quando succede qualcosa che impedisce ai flussi di denaro e di beni e di servizi di scorrere liberamente entro i loro argini. Facciamo il caso di un’economia che sta per raggiungere la frontiera della piena occupazione. Ciò comporta un surriscaldamento dei circuiti economici che provoca un innalzamento dei prezzi e dei salari. A questo punto, il governo, ovvero, l’autorità monetaria possono assecondare il processo in modo da consentire all’economia un “rientro morbido”; oppure, possono stringere i cordoni della borsa, con la conseguenza di strangolare il processo e di farlo morire per asfissia, come è accaduto in Italia nel 1963, quando la stretta monetaria effettuata dalla Banca d’Italia pose fine al cosiddetto Miracolo economico. [M. Salvati Economia e politica in Italia dal dopoguerra ad oggi, Garzanti]
Una crisi può scoppiare anche per eventi esterni, come accadde con l’oil shock del 1973. Allora si ebbe un’impennata dei prezzi del petrolio che si accompagnò ad una caduta della produzione e dell’occupazione che causò una situazione di stagflation, stagnazione abbinata a inflazione.
In termini generali, le cause delle crisi, secondo gli economisti marxisti  sono riconducibili da un lato all’anarchia della produzione capitalistica, dall’altra alla ricerca del massimo profitto. [M. Dobb Economia politica e capitalismo, Boringhieri] Non esiste in Marx una teoria delle crisi. Dagli schemi della riproduzione allargata del Capitale è possibile ricavare una teoria delle crisi da sovrapproduzione, da sproporzione, da realizzo. [P. Sweezy La teoria dello sviluppo capitalistico, Boringhieri].

Eccentrica rispetto a questo gruppo di teorie, è l’elaborazione di Rosa Luxemburg, secondo la quale il capitalismo non potrebbe esistere senza la esistenza di un ambiente non capitalistico [R. Luxemburg Accumulazione del capitale, Einaudi].

Secondo una scuola di pensiero di carattere trasversale, sarebbe insita nel capitalismo una tendenza a sviluppare la capacità di produrre più della capacità di consumare. Questa tendenza creerebbe una situazione di sottoconsumo alla quale il capitalismo ovvierebbe con l’investimento estero, il consumo di lusso, le spese militari e le spese pubblicitarie. [P. Baran P. Sweezy Il capitale monopolistico. Einaudi]

Secondo un’altra scuola di pensiero di carattere trasversale, il passaggio dal capitalismo concorrenziale al capitalismo organizzato, eliminando l’anarchia della produzione, avrebbe dovuto rendere più difficile la creazione di situazioni di crisi. [F. Pollock Teoria e prassi dell'economia di piano, De Donato] L’esperienza ha dimostrato che non era così e che la monopolizzazione dell’economia ha reso ancora più ampia la divergenza fra capacità di produrre e capacità di consumare. [P. Baran Note sul sottoconsumo, in Id. Saggi marxisti, Einaudi].

Economisti e crisi economica. C’è una domanda che si pone a chi rifletta sulla crisi del 2007-8: “Perché gli economisti non hanno saputo prevederla? Sono in grado di dirci di quanto crescerà l’economia da oggi in avanti, e non sono in grado di prevedere una crisi come quella del 2007-8? Che razza di economisti sono? “.

Risposta. Sono degli economisti, ma sono anche degli uomini e come a tutti gli uomini, anche agli economisti succede di innamorarsi di certe idee. In particolare, essi si sono innamorati dell’idea che l’economia di mercato possieda dei meccanismi automatici di regolazione della propria attività. Ciò escluderebbe la possibilità di crisi di carattere generale, perché tali meccanismi automatici entrerebbero in funzione nel momento opportuno in modo da riportare l’economia in condizioni di normalità: in altre parole, non si tratta che della cosiddetta “mano invisibile” di cui parlò Adam Smith in Ricchezza delle Nazioni. Tale mano, scrisse Smith, fa sì che ognuno di noi, mirando solo al proprio guadagno, sia condotto, grazie a tale mano, a perseguire un fine che non rientra nelle sue intenzioni.

Ora, il funzionamento di tali meccanismi è sottoposto all’esistenza di ben determinate condizioni che sono poi quelle relative all’esistenza della concorrenza perfetta, come le piccole dimensioni delle imprese, la perfetta elasticità delle curve di offerta, la perfetta sostituibilità dei fattori della produzione… Ora, nessuna di tali condizioni esiste in economie mono-oligopolistico come le nostre.

Più complesso è il discorso per quello che riguarda le cause della crisi. A questo riguardo s’è molto discusso sul modello di crisi finanziaria elaborato a suo tempo dall’economista americano Hjman Minsky. Ridotto all’osso, il discorso d Minsky può essere così sintetizzato.

Le condizioni favorevoli del mercato finanziario generano ottimismo, l’ottimismo induce gli operatori ad abbassare la guardia; ciò indebolisce progressivamente il sistema finanziario che si viene così a trovare esposto a possibili condizioni avverse, le quali, una volta realizzatesi, creano una corsa alle vendite…

Gli economisti hanno parlato a questo proposito di “euforia irrazionale”, di “spiriti animali”. In realtà, si tratta di puro e semplice capitalismo. Che cos’è, infatti, il capitalismo se non un “modo di produzione” fondato sulla ricerca del “massimo profitto”? [C. Kindleberger Euforia e panico, R. Shiller Euforia irrazionale, G. Akelrof R. Shiller Spiriti animali, C. Reinhart K. Rogoff Questa volta è diverso, N. Ferguson Ascesa e declino del denaro. N. Roubini La crisi non è finita, Feltrinelli. P. Krugman La crisi del 2008 e il ritorno dell'economia della depressione. J. Stiglitz Bancarotta. R. Dore Finanza pigliatutto. M. Onado I nodi al pettine, Laterza].

 L’economia non è una “scienza esatta” nel senso che gli eventi economici non sono sottoposti a leggi che s’impongono con cieca necessità. Il mondo economico non funziona come un orologio. Il mondo economico è un mondo di propensioni – per il consumo, per il risparmio, per l’investimento – e di preferenze – preferenza per la liquidità – nel quale le decisioni sono prese da singoli individui in base a criteri che non sono riconducibili a quelli previsti da una logica freddamente economica. [G. Ackelrof  R. Shiller Spiriti animali, Rizzoli].

Per renderci conto di questo fatto, possiamo pensare alla crisi finanziaria del 2008. La speculazione finanziaria aveva creato quella che in gergo si chiama bolla speculativa che aveva gonfiato oltre ogni misura il valore dei titoli. Ciò significava che, prima o poi, la bolla sarebbe scoppiata: malgrado ciò, la gente continuava a comperare cercando di guadagnare in questo modo il più possibile nel minor tempo possibile.[M. Onado I nodi al pettine, Laterza]

Oppure, possiamo pensare alla vicenda della New Economy. Salutata come una nuova Età dell’oro [J. Rifkin L'età dell'accesso, Mondadori], essa finì per crollare su se stessa, a causa dei propri successi il cui segreto stava nell’aver trasformato il capitalismo in una sorta di casinò nel quale l’attività economica era diventata un gioco d’azzardo dove vinceva chi era più bravo a bluffare. [G. Rossi Mercato d'azzardo, Adelphi).

Il mezzo comunemente usato dagli amministratori delle imprese era quello della manipolazione dei libri contabili, in americano “to cook the books”. Le imprese della New Economy erano diventate delle maestre nell'arte di manipolare i libri contabili, ovvero, nel cooking the books.

Ciò divenne evidente con il fallimento di Enron, la grande utility americana che in combutta con la società che doveva certificare i suoi bilanci, gonfiò le proprie attività in modo da attrarre sempre nuovi investitori i quali affidavano alla Enron i propri risparmi non tenendo conto del fatto che solo “sound firms” danno “sound profits”.

Il fallimento di Enron pose all'attenzione dell'opinione pubblica un problema che è vecchio come il capitalismo: si tratta del problema della responsabilità delle imprese. Tale problema è venuto ad aggravarsi nel corso del tempo con il passaggio dall'impresa gestita individualmente dal singolo imprenditore a quella che Paul Baran e Paul Sweezy chiamarono “società per azioni gigante”. In essa, la proprietà  della impresa è scissa dalla gestione, affidata a un consiglio d'amministrazione, il quale nomina un amministratore delegato. [P. Baran P. Sweezy Il capitale monopolistico, Einaudi].

Con lo sviluppo di questa forma di società, già studiata negli anni ’30  la proprietà e venuta sempre più a separarsi dalla gestione dell’impresa  e i consiglieri di amministrazione son diventati sempre più potenti e arroganti; tant’è vero che sono essi che stabiliscono l’ammontare delle proprie remunerazioni e decidono l’attribuzione a se stessi di azioni della società da essi amministrata. [A. Berle Gardiner Means Società per azioni e proprietà privata Einaudi]

Questa trasformazione dell’impresa ha aperto un dibattito sulla logica aziendale e sugli obiettivi da essa perseguiti. Tale dibattito è ben rappresentato da due testi pubblicati alla metà degli anni ’60: Il nuovo stato industriale di John K. Galbraith e Il capitale monopolistico di Paul Baran e Paul Sweezy che furono recensiti con la consueta acutezza da Federico Caffè [F. Caffè Temi e problemi di politica sociale, Laterza].

Si vennero così a creare, per farla breve, due scuole di pensiero: una scuola di pensiero per la quale tale trasformazione dell’impresa avrebbe portato al superamento della logica economica basata sulla ricerca del massimo profitto; e la scuola di pensiero per la quale l’avvento di tale trasformazione a livello d’impresa avrebbe mantenuto inalterato l’obiettivo della ricerca del massimo profitto come punto di riferimento della gestione dell’impresa.

La crescente finanziarizzazione dell’economia ha accresciuto il potere dei CEOs i quali son diventati dei moderni mandarini del capitale, per usare una bella definizione dell’economista africano Samir Amin, autore di alcuni illuminanti saggi sulla globalizzazione pubblicati sulla Monthly Review.

Sono loro, i CEOs delle società per azioni giganti che decidono le politiche aziendali avendo come obiettivo, da un lato, quello di impinguare il portafoglio dei soci della società; dall’altro lato, quello di incrementare i propri guadagni con succose opzioni azionarie.
Tutto ciò toccò l’acme alla fine dei “ruggenti Novanta”, [J. Stigltz I ruggenti Novanta, Einaudi] allorché parve  d’essere entrati nell’Era di Cuccagna.
A chi obiettava che, prima o poi, l’euforia per la continua ascesa del corso dei titoli si sarebbe sgonfiata e sarebbe subentrata un’Era del Cordoglio si rispondeva che egli non aveva capito che il mondo era cambiato e che il capitalismo, grazie alla teoria delle “aspettative razionali”, aveva trovato il modo di crescere senza incorrere nel rischio di precipitare in crisi simili a quelle del passato. [Per una critica della teoria delle aspettative razionali vedi J. Tobin Problemi di economia contemporanea, Laterza]

Scempiaggini. La crisi sopravvenne e sopravvenne pure il cordoglio. Nessuno, però, pagò per aver recato danno all’immagine del capitalismo. Perché di questo si tratta. In borsa c’è chi specula al rialzo e chi specula al ribasso; cioè, c’è chi compra oggi per vendere domani e c’è chi vende oggi per comprare domani. Ciò che gli uni perdono è guadagnato dagli altri. Noi veniamo informati su chi perde. Nulla ci viene detto su chi guadagna, anche se i nomi sono noti.

Polemiche a parte, resta il fatto che a comperare ed a vendere, siamo tutti noi; nel senso che siamo tutti noi attraverso i nostri risparmi, gli accantonamenti per la pensione che vengono investiti in borsa dai nostri fondi pensione, a portare acqua al mulino del Finanzkapital. [L. Gallino Finanzkapital, Einaudi]

Ne deriva, che non usciremo dalla crisi finché non ci saremo liberati di questa mentalità; finché non avremo tolto gli scheletri dai nostri armadi; finché non saremo pronti ad abbracciare un nuovo modo di vedere le cose di questo mondo. In altre parole, finché non avremo smesso d’essere consumatori e saremo ritornati ad essere dei cittadini.

La parola capitalismo non è mai entrata nel lessico dell’economia politica. Alla parola capitalismo, gli economisti hanno sempre preferito l’espressione economia di mercato. Come ricordò Pierre Vilar, la parola capitalismo venne usata dagli storici che studiarono le origini del capitalismo, i suoi rapporti con la  religione, come Lujo Brentano, Max Weber, Richard Tawney, Werner Sombart, Ernest Troletsch. [P. Vilar Le parole della storia, Editori Riuniti]

Non dobbiamo stupirci, perciò, se essi non possono aiutarci in alcun modo a capire il funzionamento del capitalismo. Come scrisse infatti Confucio, noi arriviamo a conclusioni sbagliate se usiamo parole sbagliate. Con l’espressione economia di mercato si intende porre l’accento sul fatto che si tratta di un’economia la cui istituzione fondamentale è rappresentata dal mercato.

In realtà, l’istituzione chiave del capitalismo è rappresentata dalla proprietà privata dei mezzi di produzione e scambio. Ciò distingue il capitalismo dal socialismo la cui economia è gestita secondo un piano elaborato dall’autorità addetta alla gestione dell’economia. Tale gestione può essere accentrata o decentrata, ma pur sempre di pianificazione si tratta [W. Brus Il funzionamento dell'economia socialista, Feltrinelli].

Si tratta, cioè. di un sistema economico nel quale vengono fissati  dalla autorità preposta alla pianificazione gli obiettivi del piano, le quantità che devono essere prodotte d’ogni bene, le sue caratteristiche tecniche, il suo prezzo… [M. Ellman La pianificazione socialista, Editori Riuniti]

Teoricamente, ciò può può essere realizzato o mediante il ricorso o al metodo empirico  dei cosiddetti bilanci materiali lungamente in uso in Urss [C. Bettelheim Problemi teorici e pratici della pianificazione, Savelli]; o mediante il ricorso a complesse matrici industriali e a non meno complesse tecniche di calcolo.[V. Marrama Programmazione e sviluppo economico in Urss, Boringhieri]

Ciò non mette al sicuro dalle crisi. Possono infatti pur sempre crearsi delle situazioni di crisi dovute ad inconvenienti tecnici o ad errori di calcolo che possono scatenare delle crisi economiche a causa della creazione di colli di bottiglia oppure a causa della pessima qualità dei beni prodotti delle imprese socialiste. [M. Ellman La pianificazione socialista, Editori Riuniti]

Gli inconvenienti principali del capitalismo sono quelli che sono legati alle sue crisi periodiche. Le crisi capitalistiche sono di diversi tipi, ma le loro cause sono riconducibili, in un modo o nell’altro, alla ricerca del massimo profitto combinata con l’anarchia della produzione capitalistica.

Il socialismo è stato sempre visto dai liberali come la via della servitù. In realtà, non c’è servitù peggiore di quella prodotta dal lavoro salariato. Questo fatto è sempre stato negato dagli economisti borghesi. Per essi, come scrisse Marx, “il capitale può accrescersi solo se si scambia con lavoro”, quindi, ”l’interesse dell’operaio e del capitalista sono gli stessi.”
Fu in questo quadro che venne elaborata la teoria dei cosiddetti fattori della produzione – terra, capitale, lavoro – definita sprezzantemente da Marx come la “formula trinitaria”. Tale “formula” è sopravvissuta alle critiche di Marx e continua ad essere usata da economisti, uomini politici, opinionisti.

In realtà, come scrisse Marx nei “Lineamenti”, la trasformazione del lavoro in capitale è il risultato dello scambio tra capitale e lavoro.  Essa ha luogo nel processo di produzione, perciò, notò Marx, “è dunque assurdo chiedersi se il capitale sia produttivo o no. Il lavoro stesso è produttivo solo in quanto è assunto nel capitale”.

Nei suoi termini generali, la questione si presenta, perciò, in questo modo: ”La produttività del capitale consiste anzitutto, scrisse Marx in “Teorie sul plus-valore”, nella costrizione a fornire plus-lavoro, a lavorare in misura superiore alle necessità immediate, una costrizione che il modo di produzione capitalistico ha in comune con i modi di produzione precedenti ma che esso esercita, realizza in modo più favorevole alla produzione”.

Tale concetto, sviluppato nel “Capitolo VI inedito” dove vennero introdotti i concetti di sussunzione reale e di sussunzione formale del lavoro al capitale, trovò la sua definizione ultima in “Il capitale”. Per Marx infatti il capitale è prima di tutto un rapporto sociale. Ciò pone un problema di importanza capitale.

La democrazia è un bene indivisibile. Essa deve caratterizzare tutte le istituzioni d’uno stato. La fabbrica è una di queste istituzioni. Tale era il senso che si poteva trarre dalla lettura del famose “sette tesi sul controllo operaio” pubblicate da Panzieri e da Libertini nel 1958 sulla rivista socialista Mondo operaio.

La pubblicazione delle tesi di Panzieri e Libertini suscitarono un vivace dibattito sia nel Psi che nel Pci con gli interventi di Francesco De Martino, Rodolfo Morandi, Alberto Caracciolo, Vittorio Foa, Antonio Pesenti, Roberto Guiducci, i quali espressero in genere un notevole imbarazzo, poiché le tesi di Panzierri e Libertini ponevano il problema centrale della via al socialismo. Per Panzieri e Libertini socialismo significava infatti autodeterminazione e tale autodeterminazione non poteva non partire dalla fabbrica.

E’ trascorso mezzo secolo d’allora. Il socialismo è stato messo in soffitta. Resta il problema della democrazia, la quale, come ho detto, non è un bene divisibile, ma deve essere presente in tutte le istituzioni, a cominciare dalla fabbrica.

Il mito della mano invisibile. Secondo la teoria economica oggi dominante, che altro non è che un banale rifacimento della teoria smithiana della mano invisibile, ciascuno di noi, perseguendo il proprio interesse è come condotto da una mano invisibile a realizzare inconsapevolmente il massimo benessere per la collettività nel suo insieme. [A. Roncaglia Il mito della mano invisibile, Laterza]

Domanda è davvero così? No. Non è così. Per renderci conto di questo fatto possiamo pensare agli effetti negativi prodotti da quella che Fred Hirsh chiamò competizione per i beni posizionali che ha portato alla distruzione dei boschi, alla cementificazione delle  coste, all’inquinamento atmosferico. [F. Hirsh I limiti sociali dello sviluppo, Bompiani]

Oppure, possiamo pensare a cosa succederebbe se un’impresa decidesse di abbassare i prezzi dei propri prodotti per battere le concorrenza di altre imprese. Succederebbe che essa indurrebbe le altre imprese a ridurre i prezzi dei loro prodotti innescando in questo modo una corsa al ribasso dei prezzi che porterebbe alla fine ad una riduzione dei profitti [D. Kreps Teoria dei giochi e teoria economica, Il mulino]

Oppure, possiamo pensare a cosa succederebbe se tutti gli imprenditori italiani decidessero di tagliare i salari dei loro dipendenti per potere aumentare i propri profitti. Ciò che otterrebbero sarebbe un crollo della domanda dei loro prodotti che porterebbe ad un crollo dei profitti.

Come scrisse infatti Kalecki, i capitalisti guadagnano ciò che spendono, i lavoratori spendono ciò che guadagnano.  Ciò significa che l’economia funziona finché i capitalisti investono i loro profitti e i lavoratori spendono i loro salari in acquisti per le loro famiglie. [M. Kalecki Saggi sulla dinamica dell'economia capitalistica, Einaudi]

Non solo. Più i salari sono elevati meglio funziona l’economia perché più alti sono i profitti; profitti più alti significa maggiori investimenti; maggiori investimenti significano maggiore occupazione. Il problema, come scrisse sempre Kalecki, è che l’investimento è utile. Cioè, crea capacità produttiva. Ciò, disincentiva, a lungo andare gli investimenti, la riduzione degli investimenti provoca un rallentamento nella crescita dell’economia.

Opposto era il punto di vista di Ricardo. Per Ricardo che scriveva nei primi due decenni dell’Ottocento, il profitto era un residuo, cioè era quello che restava al capitalista dopo che questi aveva pagato i salari dei lavoratori, per cui egli poteva affermare che: se i salari aumentano, ferme restando le altre condizioni, i profitti diminuiscono.

Appunto: ferme restando le altre condizioni. In economia, però, le condizioni non sono mai ferme. Uno di fattori fondamentali per la crescita dell’economia è il progresso tecnico. Con il progresso tecnico aumenta la produttività del lavoro, quindi, aumentano i profitti dei capitalisti. A quel punto, si pone un altro problema, quello della redistribuzione dei profitti che sono aumentati grazie al progresso tecnico che ha aumentato la produttività del lavoro.

Questa redistribuzione del reddito è  tanto più elevata quanto più forti sono i sindacati dei lavoratori; i sindacati dei lavoratori sono tanto più forti quanto più compatti sono i lavoratori e i lavoratori sono tanto più compatti quanto sono concentrati in pochi luoghi di lavoro.

I capitalisti l’avevano sempre saputo, ma avevano dovuto accettare la situazione non avendo alternative. La catena di montaggio, infatti, mentre spezzettava il lavoro rendendo in frantumi la personalità dell’operaio, offriva agli operai la possibilità di colpire al cuore i processo di valorizzazione del capitale.

Bloccare la catena, voleva dire bloccare la fabbrica, mettere in crisi il processo di estrazione del plusvalore, forma originaria del profitto e costringere i capitalisti a scendere a patti con i sindacati.

Come ho detto, i capitalisti avevano sempre saputo che la catena rafforzava il potere dei sindacati, così avevano pensato di indebolire i sindacati indebolendo i lavoratori attraverso l’aumento dei ritmi di produzione: potere come controllo dei corpi in movimento. Foucault più Marx, Babbage più Bentham. In una parola, taylorismo.

Tutto ciò è durato fino alla rivoluzione microelettronica che ha permesso di rivoluzionare la fabbrica. Isole, robot, metodo Toyota. A poco a poco ciò ha indebolito in modo drammatico la classe operaia, ha rotto la tela dei rapporti di lavoro, ha isolato i lavoratori, ha colpito a morte il processo di formazione della coscienza di classe.

Oggi stiamo facendo i conti con l’esito finale di questo processo.  Un processo che come abbiamo visto viene da lontano ed è destinato ad andare lontano. Ciò pone le organizzazioni dei lavoratori di fronte ad un problema di sopravvivenza e possiamo capire, la difesa dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori che è assurto a simbolo d’una lotta di classe di non c’è più, mancando la classe, o meglio mancando le condizioni per la formazione d’una classe sociale nel senso pieno della espressione. [H. Braverman Lavoro e capitale monopolistico, Einaudi, A. De Palma Macchine e grande industria da Smith a Marx, Einaudi, M. Kalecki Saggi sulla dinamica della economia capitalista, Einaudi, L.Pasinetti Sviluppo economico e distribuzione del reddito, Il mulino, P. Garegnani Valore e domanda effettiva, Einaudi. P. Leon Teoria della domanda effettiva, Feltrinelli]

 La microeconomia si occupa dell’analisi dei problemi economici a livello di impresa. La macroeconomia si occupa dell’analisi dei problemi economici a livello nazionale. Non a caso, il suo insegnamento inizia normalmente con l’analisi del processo di formazione del reddito nazionale e della sua ripartizione fra consumi, risparmi investimenti, spese pubbliche, esportazioni:

Y = C+S+I+G+E

In questo contesto è usuale distinguere fra economia positiva e economia normativa, dove l’economia positiva studia le leggi dell’economia e l’economia normativa studia il modo in cui intervenire nell’economia al fine di indirizzarla nel senso voluto nel rispetto delle sue leggi.[P. Samuelson Economica, Utet].

Il fatto è che, come abbiamo visto, le leggi dell’economia non sono leggi di carattere deterministico. Non esiste in economia una relazione fra causa ed effetto simile a quella che si genera quando usiamo una leva. Caso emblematico è quello del funzionamento del mercato borsistico, dove contano più le voci, gli umori, i timori, le aspettative che il freddo calcolo economico basato sui cosiddetti fondamentali. [R.Shiller Euforia irrazionale, Il mulino]

In altre parole, tutto quello che possiamo dire è che se accade A l’esperienza ci dice che potrebbe accadere B; cioè, se il prezzo delle Panda diminuisse potrebbe registrarsi un aumento delle loro vendite, ma potrebbe anche non accadere e Fiat potrebbe registrare addirittura una diminuzione delle vendite delle Panda e un aumento a favore di qualche altro modello della stessa Fiat il cui prezzo è aumentato. In altre parole, le leggi economiche fanno parte di una cassetta di strumenti che vanno usati con la necessaria cautela [C. Kindleberger Leggi economiche e storia, Laterza]

 Secondo la famosa definizione, David Ricardo, l’economia politica studia le leggi che regolano la distribuzione del reddito nazionale fra rendite, profitti, salari. Per Ricardo, le leggi che regolavano la produzione erano immutabili ed eterne. [L. Robbins La teoria della politica economica, Utet]
In realtà, produzione e distribuzione sono, per dirla in parole povere, le due facce della stessa medaglia. A dire. Sono i rapporti sociali che regolano la produzione a determinare il modo in cui il reddito viene distribuito fra rendite, profitti, salari. Ciò significa che nessuna riforma nella distribuzione potrà cambiare la relazione di subordinazione del lavoratore al suo datore di lavoro, cioè il rapporto capitale/lavoro. Come scrisse Marx, il capitale è, prima di tutto, un rapporto sociale. [K. Marx Introduzione del 1857 in Per la critica dell'economia politica, Editori Runiti]

Chiarito ciò, resta da rispondere ad una domanda che l’opinione pubblica si  pone: “Un cambiamento nella distribuzione del reddito può modificare  il saggio di crescita dell’economia?”. La risposta è che l’esperienza ci dice che  tutti i paesi più sviluppati presentano dei livelli di consumi più elevati di quelli esistenti nei paesi meno sviluppati.[D. Landes La ricchezza e la povertà delle nazioni, Garzanti]. Tuttavia, in teoria, è possibile immaginare anche altre vie allo sviluppo
Malthus pensava 1) che nessun imprenditore investe per produrre beni che il mercato non richiede; 2) che – data la legge della popolazione – i salari erano destinati a restare al livello della sussistenza. Ciò significava che essi non avrebbero mai fornito incentivi ad investire ai capitalisti. Ne derivava che tali incentivi potevano provenire solo dai consumi di lusso delle classi elevate. [C. Napoleoni La posizione del consumo nella teoria economica, in Id Dalla scienza all'utopia, Boringhieri]

Problema analogo si pone, in termini keynesiani, per quello che riguarda la funzione del risparmio. Per i keynesiani, com’è noto, capitalisti e operai hanno due diverse propensioni al risparmio e quella dei capitalisti è più alta  di quella degli operai. Il caso limite è rappresentato da una propensione al risparmio degli operai uguale a zero. Ebbene, è stato dimostrato che questo fatto non influenzerebbe negativamente il saggio di crescita dell’economia. [L. Pasinetti Sviluppo economico e distribuzione del reddito, Il mulino]
 Teoricamente, esistono due forme estreme di mercato. Il mercato di concorrenza perfetta e il  mercato in una situazione di monopolio. Nel primo caso, le imprese presenti sul mercato ricevono i prezzi dal mercato dove essi si formano in base alla legge della domanda ed offerta. Nel secondo caso, c’è un’impresa che controlla il mercato e può imporre ai compratori un determinato prezzo, oppure, una determinata quantità. [J. Robinson Che cos'è la concorrenza perfetta, in Prezzi, valore, distribuzione del reddito, Il mulino. J. Hicks Teoria del monopolio, Prezzi cit.]

Fra queste due posizioni estreme, esistono posizioni intermedie, definite dalla teoria come concorrenza imperfetta, concorrenza monopolistica, oligopolio. In ciascuna di queste forme, la concorrenza non viene meno, ma si trasforma; diventa una concorrenza tra pochi i quali possono trovare il modo di giungere a un accordo ponendo fine alla stessa concorrenza. Oppure, possono dar vita a delle vere e proprie guerre economiche. [K. Rothschild Teoria del monopolio, in Economisti moderni, a cura di F. Caffè, Laterza]
Ora, non occorre essere prevenuti nei confronti del capitalismo per vedere nel fenomeno della monopolizzazione dell’economia un elemento che, smorzando o bloccando del tutto lo stimolo della concorrenza, finisce per frenare il processo di crescita dell’economia capitalistica. Emblematica a questo riguardo è la posizione di Joseph Alois Schumpeter.
Parlare di sviluppo economico, per Schumpeter, è parlare di innovazione. E’ il ciclo dell’innovazione, infatti, che determina il ciclo economico. Figura dominante lo scenario economico schumpeteriano è l’imprenditore innovatore. Tale figura, tipica del capitalismo delle origini, secondo Schumpeter, è destinata a scomparire con il procedere dell’accumulazione capitalistica, la trasformazione delle imprese in entità burocratiche che mirano più ad estendere il loro controllo sull’esistente che alla sua  trasformazione. [J. A. Schumpeter La teoria dello sviluppo economico, Sansoni. Id. Il processo capitalistico, Boringhieri, Id. Capitalismo, socialismo, democrazia, Etas Libri, Id. L'imprenditore, Bollati Boringhieri]
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Da un punto di vista esclusivamente lessicale, ha scritto Cino Casson, definire il disagio è abbastanza semplice; si definisce così ogni situazione e/o sensazione penosa, scomoda, imbarazzante, ogni senso di privazione o di inadeguatezza. Ben più complesso è distinguere tra i diversi tipi di disagio e le diverse cause che lo provocano.

A grandi linee - molto sinteticamente, con tutti i limiti delle schematizzazioni - possiamo iniziare a distinguere tra disagio per cause oggettive e disagio per cause soggettive.

Nel primo gruppo possiamo indicare cause di natura economica, di natura sanitaria, di natura sociale; si tratta di condizioni nelle quali un deprivazione ascrivibile ad una di dette cause procura un reale disagio. Una condizione di estrema povertà è, oggettivamente, causa di disagio per impossibilità di garantirsi un tenore di vita sufficientemente dignitoso (art. 36 Cost.); naturalmente il disagio è aggravato se dal soggetto dipende la vita di uno o più famigliari.

Una condizione di salute patologica causa, oltre al dolore fisico, il disagio di non poter compiere tutti gli atti della vita quotidiana e di eseere, almeno parzialmente, dipendente da aiuto esterno (medico, farmacologico o assistenziale).

Definire il disagio di natura sociale è meno lineare; già le cause precedentemente descritte possono contribuire a crearlo; ad esse si possono sommare diversità etnico-religioso-culturali, oggetto di rifiuto (o, almeno, di diffidenza) da parte del contesto sociale.

In sostanza è un disagio che deriva da un senso di "non accettazione". Queste cause sono oggettive, perché basate su dati fattuali, certo graduabili e interpretabili, ma reali.

Naturalmente queste cause possono essere vissute con un grado maggiore o minore di disagio soggettivo, ma sono, di per sè, produttrici di disagio.
Le cause soggettive di disagio non sono "catalogabili" tanto sono numerose; volendo darne una succinta definizione, possiamo dire che si tratta di condizioni che provocano un disagio solo in alcuni soggetti, mentre la maggior parte degli altri le vive con indifferenza.

Questo non significa che il disagio non sia reale, non sia vissuto con pena e imbarazzo, con sensazioni sgradevoli di emarginazione. I soggetti più esposti a tale tipo di disagio sono, prevalentemente, i più deboli, giovani, anziani, che più facilmente si sentono oggetto di rifiuto.

A puro titolo di esempio, un ragazzo che ha la sensazione di non essere accettato nel gruppo, un anziano che si sente "di peso" per i famigliari, un "imbranato" che teme il dileggio.

In molti casi il disagio soggettivo ha, in realtà, delle concause oggettive, che, però, non provocano, sempre e in tutti i soggetti, la medesima reazione.

Si tratta, come evidente, delle forme di disagio più difficili da affrontare; mentre le cause oggettive possono essere rimosse (o ridotte in termini di gravosità), quelle soggettive richiedono interventi di sostegno psicologico e un'azione sul contesto.

Un caso a parte è il disagio derivante dalla condizione carceraria. Si sommano, in questi casi, cause oggettive - la privazione della libertà, la convivenza forzata, un trattamento spesso degradante - e cause soggettive, la responsabilità derivante da una condotta deviante, che ha imposto alla società l'applicazione di una pena. Ovviamente questa schematica "rassegna" non può "tipizzare" tutte le possibili cause di disagio.

Passando a identificare gli interventi atti a ridurre - eliminare non sembra possibile - le diverse forme di disagio, potremmo dire che vi sono interventi di competenza "istituzionale", che afferiscono a negazione di diritti, da realizzarsi da parte del "pubblico", interventi di competenza "sociale", affidati ad agenzie e soggetti sia pubblici che privati, che operano "ad adiuvandum", seguendo "protocolli" definiti, interventi di natura volontaria, che operano secondo propri "protocolli", dei quali, per altro, deve essere asseverata la serietà scientifica.


DISAGIO  E SOCIETA'

Quest temi erano stati trattati i modo appprofodito da  Francesco Macaluso del dipartimento di geografia dell'università veneziana di Ca' Foscari. Secondo Macaluso, la prima difficoltà stava nel trovare una definizioe soddisfacente di disagio.  Poi, c'era il poblema di relazionare il disagio e la vita quotidiana che si svolge in città che sono state pensate per tutti meno che per i disabili. Nello stesso tempo, scriveva Macaluso, non dovevamo mancare di sottolineare un aspetto che da sempre connotava lo specifico urbano: la sua capacità di amalgamare le diversità, di trasformare le differenze in valore aggiunto  di far sentire i cittadini parte di un medesimo corpo sociale dando loro il senso della costruzione di un progetto collettivo, coerente con i presupposti di libertà, democrazia, solidarietà, e con  i principi della nostra costituzione. La città è il luogo che fornisce ai suoi cittadini le coordinate geografiche, percettive e programmatiche grazie alle quali possiamo determinare il punto dal quale osservare il mondo circostante. Consente di estendere lo sguardo sul mondo e di formarsi un’idea precisa del posto che si occupa nel sistema di appartenenza. Un punto sul quale anche poter ritornare per vedere sé stessi agire nella speranza che la propria azione quotidiana  si leghi a quella di altri fino ad amalgamarsi in un processo di crescita collettiva. La città agisce in sostanza da mappa mentale collettiva in virtù della quale individui diversi per origine, provenienza, cultura, condividono il medesimo spazio, riescono ad orientarsi nel labirinto dei codici culturali, normativi, linguistici (parlate locali, linguaggi settoriali) e ambientali fino ad identificarsi con i valori costitutivi di una determinata realtà urbana (ed esercitare i propri diritti e doveri di cittadino).  Qualora questa mappa venisse a mancare, con essa cadrebbero pure i punti ai quali ancorare aspirazioni, idealità, prospettive di vita comune. Come uno specchio in frantumi essa non rifletterebbe più l’immagine unitaria del luogo, e lo stesso immaginario collettivo si dissolverebbe. Verrebbe meno il senso stesso della partecipazione alla costruzione di un obbiettivo condiviso.

Tuttavia, sebbene la città rappresenti legittimamente il luogo dell’ordinamento spaziale che disegna i diritti di cittadinanza, ultimamente la sua immagine appare a molti osservatori alquanto appannata. A dispetto di una retorica forse fin troppo generosa di attributi, le tante distopie che pervadono le periferie abbandonate, le stesse zone del centro cittadino solitamente beneficiarie della massima attenzione da parte dei poteri pubblici, sono segno di un certo affaticamento del modello.

In effetti si va sempre più allargando il divario tra i luoghi del benessere per pochi ed i luoghi dell’esclusione o della marginalità per molti, dando origine a sentimenti contrastanti, di slancio da un lato e di chiusura, di insoddisfazione, irrequietezza dall'altro. Il legame sociale si rompe specialmente dove manca il confronto e dove viene meno ogni curiosità di conoscenza tra diversi, che da sempre ha operato da moltiplicatore della crescita collettiva e della comprensione reciproca. 

 Naturalmente, continuava Macaluso, chi può permettersi di sostenere certi costi supplementari trova facile risposta nella formula dell'auto-segregazione, nella proliferazione di enclaves fortificate, di ghetti video-sorvegliati, di quartieri iperprotetti. Il timore di esporsi al rischio di esperienze spiacevoli esorta molti a trovare il conforto desiderato rifugiandosi nel mondo delle consuetudini, nelle routine più familiari, nella ristretta cerchia di gruppo. Disposti anche a sacrificare quelle libertà conquistate con gran fatica solo di recente.


Come contrastare allora rassegnazione, rinuncia, assuefazione, dipendenza da consuetudini, routine, ecc. ? E’ proprio nello scarto tra mappa mentale e realtà effettiva che entra in gioco appunto l'immaginazione. In quella frattura tra aspettative, desiderio di cambiamento e contraddizioni reali, si può aprire dunque lo spazio per non lasciarsi assorbire completamente dalla forza delle pratiche consolidate, per non rinunciare a costruire nuove relazioni, confrontare le esperienze, allargare orizzonti, esplorare altre realtà. 

E’ con questa precisa intenzione che alcuni studiosi hanno ritenuto necessario rilanciare la riflessione sui temi riguardanti i principi organizzativi del contesto sociale urbano. La letteratura ci offre diversi suggerimenti per recuperare le capacità sensoriali, contro le forme di auto-segregazione, l'anestesia dei sentimenti, i paesaggi negati.

Tra gli autori che più si sono dedicati a questi temi ricordo ad esempio l'urbanista statunitense Peter Marcuse. In uno scritto recente egli  rilancia la riflessione proprio "sulle forme organizzative, sui principi sociali, economici e organizzativi che stanno alla base della costituzione della città esistente e che
sono normalmente dati per scontati ".  Nel meditare sulle possibilità della città del futuro, sul fatto che la qualità della vita dei cittadini possa migliorare, egli distingue tra regno della necessità (economia, lavoro, consumo) e regno delle libertà (residenzialità, vita privata, volontariato, accoglienza, relazioni del dono). Si interroga su come essere liberi dalle necessità e su come ampliare il regno delle possibilità, proponendo un elenco dei passaggi da compiere per affrontare i temi caldi come disuguaglianza, alloggio, traffico, spazi pubblici, diritti civili, ecc.


Per quanto gestiti secondo tutti i canoni della modernità gli stessi luoghi hanno una certa responsabilità in tema di disagio.  Il modo stesso in cui le città sono modellate concorre a definirne la loro personalità. Strade, piazze, parchi, spazi verdi, giardini costituiscono i tasselli di un ordito orientato all’incontro, al confronto, alle relazioni, alla vita collettiva, grazie ai quali il cittadino si sente parte integrante di una stessa comunità.  Ma questi stessi dispositivi possono dare viceversa l'immagine di un luogo non del tutto organizzato, che può rendere la convivenza piuttosto problematica.

E' indubbio, sottolineava Macaluso, che ogni attività si svolga con successo all'interno di sedi distinte, separate, destinate a svolgere una specifica funzione urbana. Che si tratti dei luoghi del lavoro, della residenza, dello svago, la città ci cattura al suo interno. Le sue gabbie di vetro (grattacieli, vetrine luminescenti, schermi digitali, tablet, ecc.) modellano i nostri comportamenti, delimitano gli ambiti relazionali, sociali. Ed alla lunga finiscono anche per  alterare la nostra percezione fino a provocare un senso di estraniazione.  

Macaluso citava a questo riguardo,  un recente articolo del sociologo statunitense Richard Sennett, autore di uno studio stimolante sulla cultura del nuovo captalismo. Sennet individuava nella separazione delle funzioni dell'abitare, del produrre, del consumare, nelle aree progettate per ospitare edifici standardizzati, nell’omologazione dello spazio urbano, la costante responsabile della deprivazione sensoriale cui i cittadini sono sottoposti.

Se a ciò aggiungiamo, notava Macaluso, la sistematica espulsione della natura, l'esclusione dei paesaggi visivi, l’omologazione degli ecosistemi, ebbene, ci accorgiamo che non è per nulla azzardato parlare di de-sensorializzazione. In questi vuoti egli individua un preoccupante anestetico della sfera relativa ai sentimenti della popolazione.  Infine, scriveva Macaluso, era da sottolineare che la città va di fretta e respinge chi non sta al passo con i suoi ritmi. La circolazione urbana, ritenuta comunemente segno di dinamismo, oltre certi limiti può dare luogo a costi sociali ed ambientali che induriscono la convivenza civile (incidentalità stradali, congestione da traffico, tempi di attesa, code, inquinamento, cure sanitarie, ecc.). Il modo stesso in cui le varie parti della città sono tra loro collegate concorre ad influenzare le relazioni sociali nello spazio urbano-metropolitano.  Se è pur vero che le reti virtuali riducono notevolmente la domanda di mobilità (per coloro che ad esempio possono svolgere il lavoro a casa) tuttavia la circolazione urbana non sembra indicare un trend in declino, tutt'altro. Gli spostamenti casa-lavoro, buoni indicatori della qualità  dei servizi di trasporto pubblico, segnalano un movimento pendolare ai limiti del sostenibile, che costringe i lavoratori a stressanti tour de force. Se ne sono accorti gli amministratori pubblici di alcune città europee, che hanno deciso di impostare le politiche localizzative ed il trasporto locale in modo da favorire appunto l'avvicinamento dei lavoratori all'abitazione.

Alla lunga questo complesso di contraddizioni rende la città ostile, il suo irrigidirsi alimenterà la diffusione del malessere. L'organizzazione della città che separa, segmenta, ritaglia accessi e costruisce recinti produce effetti che vanno ben al di là della questione gestionale ed amministrativa e si traducono in altrettante forme di discriminazione sociale. Anche le tecnologie della velocità fanno quindi perdere il contatto con il luogo e contribuiscono a deformare (limitare) la percezione dello spazio vissuto. In sintesi tutto ciò che sottrae la funzione coesiva dei luoghi, il contatto diretto, il confronto, rischia di deprimere quelle pratiche della territorialità urbana che sole garantiscono il pieno esercizio dei diritti di cittadinan

Tutto della città sembra cambiare senza che si possa fare granché per preservare gli alti standard di vita promessi e per evitare l’insignificanza dello spazio urbano, dei suoi beni (pubblici, storici, artistici, monumentali). La vita sociale cambia continuamente attorno a noi. Il cittadino che entra nel labirinto delle necessità (del produrre), della soddisfazione individuale, delle pulsioni momentanee (del consumo), finisce per smarrire la via d’uscita.

Così pure sembra cadere quel valore empatico che è alla base di ogni rapporto di prossimità sociale. D’altronde appare necessario riconoscersi parte di un organismo condiviso proprio perché il vicinato è per lo più composto di residenti non abituali, utenti occasionali, frequentatori temporanei, in sostanza di persone che hanno poca dimestichezza con le pratiche locali e che pur desiderosi di conoscere nuove realtà hanno qualche difficoltà ad orientarsi nel labirinto dei codici differenti dai propri. Occorre allora incoraggiare tutte quelle iniziative che tentano di superare i consueti vincoli di gruppo, di coniugare le tradizionali forme di appartenenza con la promozione di originali e coinvolgenti occasioni di incontro, scambio, interazione e partecipazione.

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