lunedì 31 ottobre 2016

Intellettuali contro

Corrado Bevikacqua
Opere scdeltr, vol secondo

Intellettuali contro


Piero Gobetti aveva venticinque anni quando nel 1926 morì a Parigi vittima del fascismo. Lasciò la giovane moglie, Ada; un figlio piccolo Paolo e un libro, “La rivoluzione liberale” che era stato pubblicata da Gobetti nell’aprile del 1924.

Il fascismo era al potere da un anno e mezzo. Le cronache raccontano che il 28 ottobre 1922 Mussolini attese nel suo quartiere generale di Milano l’esito della marcia su Roma. Mussolini sapeva, infatti, che se il re avesse dato all’esercito l’ordine di fermare la marcia, per lui sarebbe stata la fine. La sua precauzione era, perciò, motivata. Il re non diede all’esercito l’ordine temuto da Mussolini e Mussolini ricevette il mattino del 29 novembre il telegramma con il quale il re lo convocava a Roma per conferirgli ufficialmente l’incarico  di formare il nuovo goveno, ma attese la sera per partire in treno per Roma su un vagone di prima classe. (G. Amenfola Fascicmo e movimento operaio, Editori riuniri)
Mussolini arrivò a Roma il mattino del 30 ottobre. La sua prima dichiarazione  fu che entro poche ore la nazione non avrebbe avuto soltanto un ministero. Avrebbe avuto un governo. Mezz’ora più tardi, Mussolini venne ricevuto dal re al quale si presentò pronunciando la frase: “Maestà, vi porto l’Italia di Vittotio Veneto”.
Ricevuto l’incarico di formare un nuovo governo di coalizione, Mussolini si mise al lavoro e la sera del 31 ottobre il governo era già formato. Il 16 novembre Mussolini si presentò alla Camera dove pronunciò un discorso nel quale affermò che avrebbe potuto fare di quell’aula “sorda e grigia” un “bivacco” per i suoi manipoli. Non l’aveva fatto, ma, aggiunse, nulla gli poteva impedire di farlo in futuro.
Ottenuta la fiducia con 306 voti a favore e 116 contro, Mussolini, il 24 novembre del 1922, ottenne dalla Camera, con 275 voti a favore e 90 contro, il conferimento dei pieni poteri.
Ciò non era ancora il regime. La svolta verso il regime avvenne tra il 1925 e il 1926. Il punto di svolta può essere individuato nel discorso pronunciato da Mussolini alla Camera il 3 gennaio del 1925 nel corso del quale egli dichiarò di assumersi la responsabilità “storica, politica e morale” dell’assassinio del leader socialista Giacomo Matteotti e sfidava i suoi avversari a chiedere la sua messa in stato d’accusa.

Il libro di Gobetti è un capolavoro di polemica politica.
Le sue definizioni sono folgoranti. “Il fascismo è l’autobiografia della nazione… Il nostro antifascismo prima che un’ideologia è un istinto…”
I suoi giudizi sono senza appello: “Gli scrittori del liberalismo”, scrive, “non hanno saputo fare i loro conti con il movimeno operaio…Lo schema dominante anche dei sedicenti liberali si appagò di uno sterile sogno di unità sociale e non volle riconoscere altri valori… Il Croce ubbidiva a una logica conservatrice e prescindeva da ogni esperienza pratica”.
E, a proposito dei socialisti, scrive: “Il marxismo, dottrina della iniziativa popolare diretta, preparazione di un’aristocrazia operaia capace, nell’esperimento della lotta quotidiana, di promuovere l’ascensione delle classi lavoratrici è stato ripensato in Italia con qualche originalità soltanto da pochi solitari come Antonio Labriola e Rodolfo Mondolfo… L’esperimento torinese dell’Ordine nuovo fu la sola iniziativa di popolo alimentata dal marxismo”.
Le sue analisi sono taglienti: “Il suffragio universale e la rappresentazione proporzionale [da realizzarsi con un ariforma del sistema elettorale] avrebbero potuto, esperiementati spregiudicatamente, preparare un’atmosfera di serenità per l’affermarsi di queste discussioni di queste esigenze [Gobetti si riferisce alla riforma di cui sopra]. Invece, il liberalismo non seppe dare la parola d’ordine alle forze nuove:  gli industriali parvero costituire una banda misteriosa con nascoste funzioni sacerdotali…”.
La sua narrazion è fluida: “Dopo il 1870 il partito liberale, risultante delle debolezze teoriche ed obbiettive sin qui descritte, è svuotato della sua funzione innovatrice perché privo di una dominante passione libertaria e si riduce a partito di governo… La pratica giolittiana fu liberale solo in questo senso conservatore, e la politica collaborazionista non salvava il liberalismo ma le istituzioni, tenendo conto non del movimento operaio ma dello spirito piccolo-borghese del partito socialista”.
I suoi ritratti sono magistrali. Ecco come Gobetti descrive Gramsci: “La preparazione e la fisionomia di Antonio Gramsci apparivano profondamente diverse da queste tradizioni [Gobetti si riferisce al socialismo torinese dell'inizo del Novecento] già negli anni in cui egli compiva i suoi studi letterari all’università di Torino e si era iscritto al partito socialista, probabilmente per ragioni umanitarie maturate nel pessimismo della sua solitudine di sardo immigrato. Pare venuto dalla campagna per dimenticare le sue tradizioni, per sostituire l’eredità malata dell’anacronismo sardo con uno sforzo chiuso e inesorabile verso la modernità del cittadino. Porta nella persona fisica il segno di questa rinuncia alla vita dei campi e la sovrapposizione quasi violenta d’un programma costruito e ravvivato dalla forza della disperazione, dalla necessità spirituale di chi ha respinto e rinnegato l’innocenza nativa. Antonio Gramsci ha la testa di un rivoluzionario; il suo ritratto sembra costruito dalla sua volontà, tagliato rudemente e fatalmente per una necessità intima che dovette essere accettata senza senza discussione; il cervello ha soverchiato il corpo. Il capo dominante sulle membra malate sembra costruito secondo i rapporti logici necessari per un piano sociale… La voce è tagliente come la critica dissolutrice, l’ironia s’avvelna nel sarcasmo, il dogma vissuto con la tirannia della logica toglie la consolazione dell’umorismo…”
La sua ricostruzione storica del Risorgimento è effettuata attraverso penetranti insights: “Il motivo vitale del federalismo si ebbe nella critica di Cattaneo, il solo realista tra tanti romanntici e teorici. La fisionomia speculativa di Cattaneo si  rivela tutta in una professione di cultura… L’impopolarità del Cattaneo derivava necessariamente dallo spirito della sua polemica e constatava il tramomto del nazionalismo…La sua filosofia è la prova che la originalità speculativa italiana si suol eaffermare dopo le parentesi di misticismo, nel riconoscere i valori più gelosi della personalità. La sua finezza è attestata dal suo atteggiamento antiromantico, libero da ogni peccato di sensismo. Il suo rigorismo morale, dall’opposizione inesorabile contro i demagogismi unitari e le illusioni patriottiche”.
 E, a proposito di Cavour, scrive: “Fu gran ventura per un popolo che non sapeva distinguere fra Cattaneo e il giobertismo, che si trovasse a guidarlo Cavour, il Cattaneo della diplomazia, che seppe evitare l’isterilirsi della rivoluzione in una tirannide… Il ministro piemontese sovrasta i suoi contemporanei perchè guarda gli stessi problemi con gli occhi dell’uomo di stato”. Genio della diplomazia, la cui “singolare virtù” era “la franchezza della sua astuzia”, Cavour seppe “incominciare il processo moderno di una rivoluzione liberale, pur disponendo soltanto di un esercito e di una dinastia… La libertà economica fu il perno educativo su cui egli impostò la sua azione popolare…Il liberismo di Cavour mirava a far entrare nella vita nazionale nuove forze operose”..
L’opera riformatrice di Cavour era, però, destinta a infrangersi contro lo scoglio della cultura politica italiana che non era liberale, ma individualistica e che si
oppose alla vitalità della libera iniziativa. In questo quadro, scrive Gobetti, “il trasformismo di Depretis fu l’espressione più evidente di un’Italia che si pasceva di conciliazioni e di unanimità e non riusciva ad affrontare i terribili doveri della fondazione dello stato…Solo una pronta soluzione del problema elettorale e del problema burocratico avrebbe potuto porre rimedio a questa situazione parassitaria; ma non si osava discorrere di  autonomie regionali per non compromettere l’unità e si voleva mantenere  il diritto elettorale a una ristretta oligarchia. Quando gli italiani furono stanchi delle astuzie e delle lusinghe di Depretis si  abbandonarono alle facili seduzioni della megalomania di Crispi, e nel fallimento africano tutta la nazione fu compromessa”.
A quel punto, entrò in scena Giolitti. “Con Giolitti, la ripresa dei metodi di governo di Depretis ha una serietà nuova”, scrive Gobetti. Malgrado ciò, Giolitti era un uomo di stato e “l’uomo di stato riconosce il suo compito nel creare un’atmosfera di tolleranza nei confronti dei conflitti sociali” che permise all’Italia dieci anni di “pace sociale di onesta amministrazione” che finirono con la guerra mondiale. “La guerra mondiale”, nota Gobetti, “ci coglie im piena crisi unitaria e interrompe ascesi di ordinaria amministrazione e di serietà economica a cui il giolittismo ci aveva iniziati”.
La sua individuazione delle cause del fallimento dell’Italia liberale è impeccabile: “Il liberalismo perdette la sua efficacia perché si dimostrò incapace di intendere il problema dell’unità… Il socialismo rivelò la povertà delle sue attitudini nel momento della realizzazione, ed espresse in Turati la sua impotenza di partito di governo. Accettò l’eredità della corrotta democrazia invece di mantenersi coerente a una logica rivoluzionaria. Rivoluzionari furono in Italia solo i coministi che agitando il mito di Lenin videro nella rivoluzione il cimento della capacità politica delle classi lavoratrici”.
Per Gobetti, “c’era implicita nel movimento socialista, fuori degli astratti programmi di socializzazione, la possibilità di una nuova economia che risolvesse finalmente l’antinomia insolubile della politica economica italiana: protezionismo-libero scambio. Il consiglio di fabbrica poteva essere il punto di partenza di un’economia nuova”.
Non fu così. L’esperienza dei consigli di fabbrica fallì. Gobetti non escludeva, tuttavia, che “un movimento operaio intransigente contro tutti i riformismi potrebbe segnare l’inizio della revisione e offrire i quadri per la lotta inevitabile… Ora”, conclude,”è nostra ferma convinzione che l’ardore e lo spirito di iniziativa che portarono gli operai all’occupazione delle fabbriche non possano considerarsi spenti per sempre”.


Occorsero vent’anni di fascismo, una guerra mondiale e un numero incalcolato di caduti nella lotta contro il fascismo per creare le condizioni che rendesseor possibile la rinascita di quello spirito d’iniziativa. Fra i caduti, ci fu anche Carlo Rosselli. Indomito antifascista e infaticabile organizzatore, Carlo Rosselli c’ha lasciato un numero elevato di scritti politici ed economici fra i quali spicca “Socialismo liberale”.
Scritto da Rosselli tra il 1928 e il 1929 durante il suo confino a Lipari, “Socialismo liberale” offre ancor oggi materiale per una discussione. Come scrive Rosselli, “il liberalismo si è investito progressivamente del problema sociale e non sembra più necessariamente legato ai principii dell’economia classica, manchesteriana. Il socialismo si va spogliando, sia pure faticosamente, del suo utopismo ed è venuto acquistando una sensibilità nuova per i problemi della libertà e dell’autonomia”.
“E’ in nome della libertà, è per assicurare una effettiva libertà a tutti gli uomini, e non solo a una minoranza privilegiata”, scrive Rosselli, “che i socialisiti chiedono la fine dei privilegi borghesi e la effettiva estensione all’universale delle libertà borghesi; è in nome della libertà che chiedono una più equa distribuzione della ricchezza e l’assicurazione in ogni caso a ogni uomo d’una vita degna di questo nome; è in nome della libertà che parlano di socializzazione, di abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, della sostituzione del criterio di socialità, dell’utile collettivo, la criterio egoistico dell’utile personale nella direzione della vita sociale”.
“Il movimento socialista”, scrive Rosselli, “è dunque il concreto erede del liberalismo, il portatore di questa dinamica idea di libertà che si attua nel moto drammatico della storia. Liberalismo e socialismo, ben lungi dall’opporsi, secondo una vieta polemica, sono legati da un intimo rapporto di connessione. Il liberalismo è la forza ideale ispiratrice, il socialismo è la forza pratica realizzatrice”.
Poi, Rosselli annota: “Il liberalismo borghese tenta di arrestare il processo storico allo stadio attuale, di eternare il suo dominio, di trasformare in privilegio quello che fu un tempo un diritto derivante da una incontestabile opera innovatrice; e si oppone all’ingreso nella storia delle nuove forze sociali preminenti”. Per Rosselli, si tratta, però, d’una battaglia di retroguuardia. “Solo alcune frazioni della borghesia esercitano ancora una utile funzione progressista. E quali? Quelle che, indipendentemente dal privilegio della nascita, realizzano nella vita nuovi valori nella sfera della intelligenza pura e del lavoro di direzione”.
“Dove vive e dove si attua dunque il liberalismo?”, si chiede Rosselli. “In tutte le forze attive, rivoluzionarie della storia; in tutte le forze sociali che esercitano una funzione rinnovatrice; in tutte le forze che intendono superare lo stato sociale attuale e aprire alla libertà e al progresso sempre nuoiterritori, sempre nuovi orizzonti” in concomitanaza con un movimento analogo che interessa il socialismo che “da problem astratto di giustizia sta trasformandosi ogni giorno di più in un problema di capacità”.
Quinidi, conclude Rosselli: “Il socialista liberale, fedele alla grande lezione che sgorga dal pensiero critico moderno, non crede alla dimostrazione scientifica, razionale, della bontà delle empiriche soluzioni socialiste e neppure alla necessità dell’avvento della società socialista; non si illude di possedere il segreto dell’avvenire… Il suo motto è: il regime socialista sarà, ma potrebbe anche non essere. Sarà se noi lo  vorremo, se le masse vorranno che sia, attraverso un consapevole sforzo creatore”.


Tutt’altro che dogmatica era anche la posizione di Eugenio Colorni. “E’ evidente, perciò che se la vera democrazia non può realizzarsi che in una società socialista e questa presuppone la soppressione delle classi e perciò anche del proletariato, tale soppressione non può intendersi se non nel senso che il proletariato assorba progressivamente in sé, nel suo ordine sociale, tutte le classi, e distruggendole se le assumi. Alla creazione di questo mondo il proletariato non può convocare un movimento ‘popolare’ sulla base generica della libertà – poichè la libertà che i ceti piccoli e medi borghesi chiedono non è la libertà cui tende la classe operaia con la sua azione rivoluzionaria, ma una libertà borghese -: può soltanto conquistarli alla lotta di rivendicazioni concrete contro il grande capitalismo, e neutralizzarlo nella conquista del potere”, scrsse Eugenio Colorni sul “Nuovo Avanti” del 27 febbraio 1937. “La presa del potere non annulla ipso facto i rapporti di classe; la realizzazione d’una democrazia socialista non può essere che il termine di un lungo, organico processo di trasformazione della struttura economica e dei rapporti politici del nuovo mondo. Di questo processo la classe operaia non può cessare di essere, attraverso l’azione sindacale come attraverso l’azione politica, la forza direttiva”.
“Quando si parla di rivoluzione, allo stato attuale delle cose, occorre tener conto di alcuni fattori che rendono la situazione profondamente diversa da quella che si era venuta creando alla fine della scorsa guerra”, scrisse Colorni poco prima di venire ucciso da una pattuglia fascista nell strade di Roma nel maggio del 1944. “Allora, gli stati vincitori, pur intromettendosi profondamente nella vita interna dei vinti, li lasciarono però essenzialmente liberi di scegliersi il regime interno che preferivano… Oggi questo principio non vale assolutamente più… Oggi, gli elementi in gioco si sono allargati, i legami di interdipendenza si sono moltiplicati”. Ciò, secondo Colorni non eliminava l’azione di massa. La trasformava da azione per abbattere un regime in azione per costruire un nuovo regime attraverso lo sviluppo di quella che Gramsci avreva chiamato “egemonia culturale”.
Poi, c’è il Colorni filosofo; c’è lo studioso di Leibniz e di Kant: c’è l’autore degli splendidi “Dialoghi di Commodo”: “Per me, una volta compiuta, la cosa ha il supremo interesse di esserci, di esistere, e allora, io posso morire tranquillamente; o meglio, posso vivere senza paura di morire”. E c’è lo scienziato che s’interroga memore dell’insegnamento di Kant, sui limiti della conoscenza scientifica:”Lo scienziato lavora, insomma, su qualche cosa che egli ha di fronte a sé e della quale sono elementi costituenti alcune forme, o categorie che provengono dalla sua mente, incorniciano la realtà e gliela rendono comprensibile e afferrabile”.
“Kant, scrisse Colorni, “ha ammonito sull’impossibilità di uscire dalle forme dell’intelletto, per attingere la cosa in sé… La scienza conosce un’altro tipo di conoscenza, diverso da quello chella filosofia. E’ la conoscenza intesa come padronanza di un processo. Si conosce una cosa quando si è capaci di costruirla, cioè di scomporla e ricomporla. Di fronte al problema kantiano, la scienza non si è domandatase si potesse o meno uscire dal mondo delle categorie, ma se tale mondo fosse modificabile…”.

II

La Seconda guerra mondiale finì e scoppiò la Guerra fredda [Lewis Gaddis, Fontaine, Bongiovanni,  a, b. Benvenuti, Traverso]. Tre furono le sue caratteristiche principali: oscurò qualunque rivalità che non fosse quella esitente fra capitalismo e comunismo; congelò la situazione politica internazionale; riempì il mondo d’armi atomiche in nome della teoria della deterrenza che trovò la sua formulazione più compiuta nella teoria della Mutually assured destruction, il cui acronimo MAD, considerato come una parola intera, nella “lingua dell’impero” significa pazzo da cui deriva madness, in italiano, follia [Hobsbawm].
La teoria della MAD eliminò la possibilità dello scoppio d’una guerra fra le due superpotenze, ma alimentò, nello stesso tempo, una nutrita serie di “guerre per procura” che insanguinarono il Terzo mondo. A queste “guerre per procura”, vanno aggiunte: la guerra di Corea, la guerra di Indocina, la guerra d’Algeria, la guerra del Vietnam.[Black, Di Nolfo].
Molti furono gli eventi della Guerra fredda che meriterebbero d’essere ricordati: il blocco sovietico di Berlino, la crisi di Suez, la rivoluzione cubana, la crisi dei missili, la crisi del’U2… [Galli della Loggia].  Io credo, tuttavia, che l’evento più significativo della Guerra fredda fu la rivoluzione ungherese [Argentieri, Sebesteyn].
Essa, infatti, non fu signficativa solo per quello che rappresentò come evento, ma essa fu significativa anche per il contesto nel quale avvenne: “l’indimenticabile 1956″, l’anno del XX congresso del Pcus e del “rapporto segreto” di Chruðèëv sui crimini di Stalin il quale aprì una drammatica crisi all’interno del mondo comunista [Flores].
Va anche detto, però, che gli anni della Guerra fredda non furono soltanto gli anni della corsa agli armamenti e della paura d’una guerra atomica. Essi furono anche gli anni del più lungo boom della storia dei paesi capitalistici avanzati i quali, tra gli anni ’50 e ’60 conobbero elevati tassi di occupazione, moderati tassi di inflazione, alti tassi di crescita acompagnati da un notevole miglioramento del tenore di vita delle loro popolazioni [Kidron, Postan, Aldcroft, Glyn]. Questo fatto creò un clima di generalizzato ottimismo che favorì la creazione del mito economico della “crescita senza fine” [Vedi Appendice].
Gli anni della Guerra fredda furono, inoltre, gli anni nei quali vennero gettate le fondamenta sulle quali venne costruita l’Unione Europea (UE): settembre del 1950, istituzione della Unione europea dei pagamenti (UEP); aprile del 1951, costituzione della Comunità del carbone e dell’acciaio (CECA); maggio del 1952, firma del trattato istitutivo della Comunità europea di difesa (CED) che costituì, come scrisse Martin Gilbert, “la più ampia cessione di sovranità fatta dai paesi dell’Europa occidentale fino al trattato di Maastricht nel 1992″;  marzo del 1957 firma del trattato di Roma che istituì la Comunità economica europea [Gilbert]. In questo quadro, va inserita la vicenda italiana.

Come scrisse, infatti, lo storico inglese, Paul Ginsborg, “Italy in the mid 1950s was still in many respects an underveloped country. Its industrial sectors could boast of some advanced elements in the production of steel, cars, electrical energy and artificial fibres, but these were limited both geographically and in their weight in national economy as a whole”, [Ginsborg]. Dieci anni dopo, l’Italia era “in many respects” un paese sviluppato.
Che cos’era accaduto? Era accaduto che gli italiani avevano imparato a sfruttare le proprie risorse, le quali erano le proprie braccia e la propria inventiva. Il segreto del “miracolo economico” è riconducibile ad una combinazione fortuita di bassi salari, di esportazioni basate su prodotti a tecnologia matura e di inventiva [Graziani].
Il dato interessante fu,io dell’ammontare della circolazione e, volendosi compiere novelle spese l’unico mezzo all’uopo offerto fosse l’aumento della circolazione medesima” [Einaudi a].
La manovra suscitò, come notò Hirschman nell’articolo citato, le critiche sia degli industriali che dei sindacati. La teoria del “momento critico” si basava, infatti, come dimostrò Giorgio  Fuà, in un articolo pubblicato su “Critica economica”, su un puro e semplice sofisma, ovvero, sull’uso improprio d’una formula aritmetica, che Fuà smontò in punta di logica economica [Fuà, a].
Luigi Einaudi, rispose ai suoi critici, con un articolo sul “Corriere della sera” del 19 ottobre 1947 intitolato “Il sofisma”. Nell’articolo, dopo aver ricordato il “baccano sorto attorno alla cosiddetta restrizione del credito”, Einaudi sottolineava che la manovra era stata annunciata con largo anticipo e che le banche avevano avuto modo di adeguarsi anticipatamente ad essa. [Einaudi b].
La verità è, come Pasquale Saraceno affermò in una intervista rilasciata nel 1977, che, considerata la gravità della situazione economica, un’azione monetaria fu certamente necessaria, ma è anche vero che la politica economica del governo fu caratterizzata dalla assenza di qualsiasi obiettivo che non fosse “il ripristino delle strutture preesistenti con le sole modifiche che la guerra aveva imposto” [Saraceno].
Inoltre, non va dimenticato che la “deflazione einaudiana” fu favorita dall’esclusione delle sinistre dal governo, la quale, desiderata dagli Stati Uniti, venne messa puntualmente in atto dal presidente del consiglio, il democristiano Alcide De Gasperi, dopo il suo ritorno da un viaggio compiuto negli Stati Uniti nel mese di gennaio del 1947, a dimostrazione, come scrisse Valerio Castronovo, dello stretto legame esistente fra le opzioni politiche e quelle economiche [Castronovo, a].

La Cgil reagì alla politica deflazionistica del governo con il cosiddetto “Piano del lavoro”. Presentato nel corso della Conferenza economica sul Piano del lavoro del 19-20 febbraio 1950, il piano prevedeva, oltre la nazionalizzazione delle industrie elettriche, la creazione di un ente per le bonifiche e altre iniziative dello stesso genere, un nutrito programma di opere pubbliche volte al miglioramento delle attrezzature economiche del paese e alla realizzazione d’un immediato incremento occupazionale. Per quello che riguardava il finanziamento, il piano prevedeva l’utilizzazione di parte delle risorse valutarie esistenti e di parte del fondo costituito come contropartita della vendita di merci del Piano Marshall [Vianello].
Alberto Breglia, nella relazione letta alla conferenza di presentazione del Piano del lavoro, difese le ragioni del piano affermando che “la produzione nel suo svolgimento, se è produzione, trova il suo finanziamento in se stessa”; perciò, volendo, si sarebbe potuto dire che il piano finanziava il piano. Come spiegò, Breglia, “ciascuna attività economica, se è produttiva socialmente genera in seguito una nuova attività economica e questa crea i suoi mezzi di finanziamento attraverso le normali, conosciutissime vie del credito bancario” [Breglia].
Le argomentazioni di Breglia vennero riprese da Antonio Pesenti in un articolo apparso su “Critica economica” nel quale ironizzò nei confronti della “teoria della coperta” evocata dal professor Piero Battara. Come Pesenti spiegò nel suo articolo, il rendito non andava considerato in “senso statico”, ma in “senso dinamico”. Inoltre, aggiunse Pesenti, il problema del finanziamento del piano poteva essere risolto attingendo alle riserve riserve esistenti [Pesenti].
Una dura critica nei confronti della “teoria della coperta” provenne anche da Sergio Steve, il quale spiegò che tale teoria sarebbe stata vera se tutti i fattori della produzione fossero stati occupati, ma questo, aggiunse Steve, non era il caso dell’Italia. Inoltre, affermò Steve, era ora mandare al macero il “feticcio del bilancio in pareggio”. Come spiegò, infatti, Steve, il criterio del pareggio di bilancio non poteva soddisfare le esigenze della economia italiana [Steve].

In termini keynesiani, il Piano del lavoro della Cgil proponeva era di attivare il “moltiplicatore dell’investimento” [Keynes,a]. John M. Keynes, però, non era di casa in Italia [Mori]. La cultura economica italiana era, infatti, neoclassica e rifiutava non solo la concezione keynesiana della spesa pubblica [Vicarelli], ma rifiutava l’idea stessa di piano [Barucci].
In altre parole, la maggioranza degli economisti italiani pensava come Luigi Einaudi che “il modo migliore di fare il bene dello stato non è di fare, di agire direttamente, ma invece l’azione più efficace per l’avanzamento economico e sociale del paese è quella indiretta” [Einaudi c]. Essi, inoltre, pensavano che la pianificazione non potesse funzionare [Vedi Appendice].
Come affermò, infatti, Giuseppe Di Nardi in un saggio pubblicato nel 1947 sul  “Giornale degli economisti”, “la pianificazione impostata sulla determinazione quantitativa a priori delle posizioni di equilibrio risulta legata a ipotesi non verificabili” e ciò induceva a pensare che “qualunque tentativo volesse farsi per renderla operante in concreto sarebbe votato all’insuccesso” [Di Nardi].
Critico nei confronti della pianificazione fu pure Agostino Lanzillo, il quale, su “L’industria”, scrisse che “l’illusione di poter pianificare è generalmente diffusa nel mondo moderno ed è fatale all’assetto della società. Essa è il prodotto della prevalenza del razionalismo e del tecnicismo. Se tutto oggi è diretto dalla ragione, perché dovrebbe essere sottratta ad una rigorosa disciplina l’attività economica?” [Lanzillo].
All’incontro, Fernando Di Fenizio, dopo aver notato in un articolo su “L’industria”, che l’economia possedeva due schemi per l’interpretazione del funzionamento dei sistemi economici concreti: lo schema dell’economia di concorrenza e lo schema dell’economia diretta dal centro, chiedeva provocatoriamente se vi fosse ancora qualcuno disposto “a credere che gli economisti liberali sian ciechi adoratori del laissez-faire” .
Però, aggiunse Di Fenizio, occorreva stare attenti, perchè “chi  ammette una politica contro le variazioni cicliche è implicito debba ammettere ebba cederne altre, contro, ad esempio, le variazioni stagionali. Accettato, infatti, il principio d’una politica economica attiva, ogni elencazione, come ben si comprende, esemplifica: non tronca l’argomento”.
In ogni caso, concluse Di Fenizio, occorreva tener distinti quelli interventi che, come aveva spiegato Ropke, erano “conformi” alla economia di mercato da quelli che non erano “conformi” e che la danneggiano, ne pregiudicano il funzionamento, ne neutralizzano i riflessi” [Di Fenizio].
Favorevole all’intervento dello stato nell’economia era, invece, Alberto Bertolino, il quale, in un articolo su “Il ponte”, dopo aver affermato che occorreva “combattere il dominio capitalistico come uno dei privilegi più lesivi della dignità umana”, scrisse che “la Costituente dovrà proclamare che compete allo stato la funzione di regolamento dell’economia nazionale” [Bertolino].
La Costituente discusse il problema  e quello cheuscì dalla discussone fu l’articolo 41: “L’iniziativa privata e libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno  alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi  i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali” [Ambrosini] – che è cosa molot diversa da quello che prevedeva il cosiddetto “emendamento Montagnana”.
Recitava l’emendamento Montagnana: “Allo scopo di garantire il diritto al lavoro di tutti i cittadini, lo stato interverrà per coordinare e orientare l’attività produttiva dei singoli e di tutta la Nazione secondo un piano che assicuri il massimo di utilità sociale”.L’emendamento fu discusso dalla Assemblea costituente il 9 maggio 1946.
Intervennero nel dibattito: Luigi Einaudi il quale evidenziò la palese incostituzionalità dell’emendamento; Vittorio Foa che era uno dei firmatari dell’emendamento e Ferruccio Parri. Chiuso il dibattito, l’emendamento venne messo ai voti. I votanti furono 418. I voti a favore furono 174, i contrari furono 244.

Iin questo quadro che va inserita la proposta d’un piano socialista che Rodolfo Morandi avanzò alla Conferenza economica socialista del 1947. Per Morandi, la pianificazione era “un’esigenza naturale e sponatnea dell’economia collettivistica, qualcosa di congenito ad essa”. I socialisti, disse Morandi, erano consapevoli del fatto che “solo in una società socialista sussistono le condizioni perché la pianificazione possa essere attuata”. Il loro piano si fondava, perciò, “sul concetto di un’azione che portata a svolgersi dall’interno degli ordinamenti capitalistici, è indirizzata a dislocare incessantamente l’equilibrio del sistema, fino al completo rovesciamento dei rapporti di classe”. Ne derivava, spiegò Morandi, che il concetto di piano socialista era inseparabile da quello di “riforme di struttura” e di controllo dal basso [Morandi].
L’intervento di Morandi era stato preceduto da quello d’Alessandro Molinari il quale, dopo aver sostenuto che “nell’attuale fase storica del capitalismo, la necessità di un’economia controllata, programmata o pianificata, si è imposta nella maggiore parte parte dei paesi civili”, spiegò che “una programmazione economica richiede innantutto una precisa formulazione degli obiettivi generali ai quali i piani economici debbono informarsi, al di sopra e al di là dei programmi, dei contingenti piani di emergenza o di breve respiro”. Per potere realizzare una cosa del genere, aggiunse Molinari, la pianificazione socialista deve ispirarsi, perciò, a “una idea centrale e a ragionevoli traguardi da raggiungere” [Molinari].
All’intervento di Molinari era seguito l’intervento di Giulio Pietranera il quale aveva spiegato che “la pianificazione socialista consiste tutta in questa affermata e attuata necessità di procedere tenendo presenti, in tutti i loro rapporti di coesistenza e di sviluppo, tutti gli elementi e gli strumenti d’azione, fondandosi su una notevole apertura di sviluppo per le diverse alternative che possono presentarsi” [Pietranera].

Di tutt’altro avviso era Palmiro Togliatti. Come egli disse, infatti, nel convegno sui problemi della ricostruzione tenuto dal Pci nel 1945, il Pci non chiedeva una pianificazione socialista poichè esso era consapevole del fatto che non esistevano le condizioni per realizzarla: chiedeva, invece, “un controllo della produzione e degli scambi del tipo di quello che esisteva e che esiste tutt’ora in Inghilterra e negli Stati Uniti” [Togliatti a].
Tale posizione fu ribadita da Togliatti nel discorso da lui tenuto il 24 settembre 1946 a Reggio Emilia. Nel discorso, divulgato dalla stampa comunista con il titolo “Ceto medio e Emilia Rossa”, Togliatti sosteneva che il Pci voleva che venisse lasciato “un ampio campo di sviluppo all’iniziativa privata, soprattutto del piccolo e medio imprenditore”, mentre riserva allo stato il compito di “dirigere tutta l’opera di ricostruzione” [Togliatti b].
Togliatti era, quindi, intervenuto sul medesimo tema nella “Relazione sui rapporti sociali” da lui tenuta il 3 ottobre del 1946, nel corso della quale aveva sottolineato “la necessità di un piano economico, sulla base del quale sia consentito allo stato di intervenire per il coordinamento e la direzione dell’attività produttiva”, “il riconoscimento costituzionale di forme di proprietà diverse da quella privata”, la nazionalizzazione di quelle imprese che “per il loro carattere di servizio pubblico o monopolistico debbano essere sottratte alla iniziativa privata” [Togliatti c].

L’Italia riuscì a superare la crisi postbellica e riuscì a avviarsi sulla strada dello sviluppo. I fattori che favorirono la ricostruzione del paese furono: la dimensione relativamente ridotta dei danni di guerra subiti dalle industrie italiane, la collaborazione sindacale nelle fabbriche, il buon utilizzo della capacità produttiva esistente, il varo di riforme agricole, una soluzione innovativa del problema dei vincoli della bilancia dei pagamenti per un paese povero di fonti energia [Sapelli].
Agli anni della ricostruzione fecero seguito gli anni dello sviluppo economico. Gli aspetti fondamentali dello sviluppo economico italiano furono tre: una forte crescita dell’industria manifatturiera che trasformò l’Italia da paese prevalentemente agricolo in paese industrializzato; una crescente apertura ai mercati esteri; la crescita urbana [Graziani].
Tale sviluppo fu oggetto di differenti interpretazioni  [D'Antonio]. Si parlò i “dualismo economico” [Lutz]. Si parlò di sviluppo trascinato dalle esportazioni. Si parlò di distorsione dei consumi a causa dell’effetto di dimostrazione. [Vedi Appendice]. Si parlò di diseguaglianze regionali [Sechi]. Lo sviluppo, comunque, ci fu.
Tra il 1958 e il 1963 il tasso di crescita medio annuo del pil, superò il 6,5%, mentre quello dell’industria superò l’8%. Gli investimenti lordi arrivarono al 26% del pil. Le esportazioni crebbero del 14,5% [Salvati, a]. La crescita economica produsse un notevole cambiamento nel modo di vivere degli italiani [Colarizi, a]. Il benessere che avanzava diede il via a una dilatazione dei consumi e modificò lo stile di vita. Gli italiani scoprirono l’auotmobile, la televisione, gli elettrodomestici.[Crainz].
Al cambiamento a livello economico si accompagnò un cambiamento a livello politico. Nacque, non senza traumi – vedi il caso Tambroni – il Centrosinistra [Lepre a, Colarizi, b, Galli]. Venne varata la politica di programmazione [Carabba]. Infine, si registrò l’avvio di un nuovo ciclo di lotte operaie [Foa b].
Come scrisse, infatti, Vittorio Rieser, gli Anni ’50 non furono “una fase priva di conflitto industriale”. L’inizio del decennio è caratterizzato da grandi lotte e non si trattò soltanto delle lotte per il Piano del lavoro e contro la “legge truffa”, “ma resta vero il fatto”, notò Rieser, che “essi sono anni di pieno controllo padronale sulla forza lavoro” [Rieser].
Questa situazione era ben descritta in un documento Fiom del 1956 relativo alla Fiat. “In questi ultimi anni”, si leggeva nel documento Fiom, “sia in relazione con la politica di investimenti perseguita in alcuni settori Fiat, sia in relazione con la politica del taglio dei tempi e dell’ intensificazione del lavoro, il rendimento operaio è aumentato in misura impressionante. Questa tendenza ha corrisposto naturalmente ad una forte diminuzione del costo del lavoro e, anche in ragione della situazione di monopolio in cui opera la Fiat, un fortissimo aumento dei profitti” [Cgil].
Il processo di razionalizzazione che era in atto in quegli stessi anni nell’industria italiana nel suo insieme venne analizzato, invece, da Silvio Leonardi nella sua relazione al convegno dell’Istituto Gramsci  su “I lavoratori e il progresso tecnico”.
Nella relazione, Leonardi notava che “il processo di razionalizzazione che si è sviluppato nel nostro paese in questo dopoguuerra è partito da una situazione di scarsa utilizazione degli impianti”. Leonardi spiegava, poi, che “il suo sviluppo ha fatto risaltare lo stato di relativa esuberanza del personale” e che era stato possibile raddopiare la produzione manifatturiera senza praticamente aumentare la manodopera occupata. Quindi, aggiungeva che la stasi dell’occupazione aveva fatto sì che i cambiamenti dei rapporti di lavoro non trovassero una sufficiente compensazione nell’inetrno delle singole industrie e del sistema industria e nel suo complesso” [Leonardi a].
Tale situazione cambiò con il “miracolo economico”, quando si creò un mercato del lavoro favorevole al venditore. “Una prima avvisaglia”, scrisse Rieser, “se ne ha nella ripresa delle lotte contrattuali del 1959,  ma il segno inequivocabile del mutamento si ha con gli scioperi contro il governo Tambroni dell’estate 1960″ che si trasformeranno nelle grandi lotte contrattuali del 1962-63. Esse portarono dei notevoli elementi di novità: una forte contrattazione di categoria, una contrattazione aziedale, il tutto entro un quadro di sostanziale unità sindacale [Rieser].

Improvvisamente, arrivò la crisi a causa, si disse, d’una stretta creditizia messa in atto dalla Banca d’Italia per evitare i rischi d’una inflazione da salari indotta da un mutamento repentino dei rapporti di forza esistenti nel mercato del lavoro [Salvati a]. La verità è che la crisi sarebbe arrivata ugualmente.
Il boom aveva messo a nudo, da un lato, le “debolezze strutturali” della economia italiana a cominciare dal suo “nanismo” industriale [Nardozzi, Colli]. Dall’altro lato, aveva portato alla luce, come scrisse Claudio Napoleoni, la “mancanza  d’una politica economica alla scala dei problemi italiani” [Napoleoni, e]. In questo senso, il boom fu, per usare le parole di Michele Salvati, una “occasioni mancata” [Salvati, b. Rossi, a, b] dovuta alla mediocrità della classe dirigente italiana [Carboni a, b. Tranfaglia].

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                 
***

La mia intenzione non è quella di rivangare il passato, ma quella di ricordare l’esistenza d’un problema approfittando del cinquantenario della pubblicazione delle “Sette tesi sul controllo operaio” di Raniero Panzieri e di Lucio Libertini: mi riferisco al problema della democrazia. Qualcuno potrebbe chiedermi: “Ma non esiste già la democrazia nel nostro paese?”. No. La democrazia non esiste. Non esiste nella società, dove permane una evidente divisione in classi. Non esiste nelle fabbriche dove gli operai muoiono ogni giorno come su un campo di battaglia. Non esiste nella sanità dove chi ha i soldi può accedere alle visite specialistiche e chi non li ha deve mettersi in coda ed aspettare, sperando di non morire prima di essere visitato dal medico dell’Asl. La democrazia non è, infatti, un bene divisibile: non si è democratici nella politica e non-democratici nella sanità e nelle fabbriche.

Panzieri e Libertini l’avevano capito. Per Panzieri e Libertini, infatti, la “via democratica al socialismo” passava per “la via della democrazia operaia”. Tale via si differenziava, a sua volta, dalla “via parlamentare” al socialismo, anche se essa non disdegnava l’uso degli strumenti del parlamentarismo. Anzi, Panzieri e Libertini consideravano l’uso degli strumenti del parlamentarismo “uno dei compiti più importanti che si pongono al movimento di classe” il quale avrebbe dovuto trasformare gli istituti parlamentari “da sede rappresentativa di diritti meramente politici, formali, ad espressione di diritti sostanziali, politici ed economici nello stesso tempo”. Ciò non doveva fare dimenticare, però, che “la forza reale del movimento di classe si misura dalla quota di potere e dalla capacità di esercitare una funzione dirigente all’interno delle strutture della produzione”. Per Panzieri e Libertini, infatti, “l’autonomia rivoluzionaria del proletariato si concreta nella creazione dal basso, prima e dopo , la conquista del potere, degli istitituti della democrazia socialista.” Così facendo, “la classe operaia, mano a mano che, attraverso la lotta per il controllo, diviene il soggetto attivo di una nuova politica economica” e “assume su di sé la responsabilità di un equilibrato sviluppo della economia, tale da spezzare il potere dei monopoli” [Panzieri, b].

La pubblicazione delle “Sette tesi sul controllo operaio” suscitò un vivace dibattito sia all’interno del Psi che nel Pci. Francesco De Martino osservò che “le tesi muovevano dal presupposto classico che lo stato parlamentare borghese è lo strumento della borghesia capitalista… ma lo stato attuale non è più quello d’un tempo…Perciò, lo stato demmocratico in molti paesi, pur non essendo certo lo stato dei lavoratori, non si può considerare allo stesso modo in cui Marx ed Engels lo consideravano”. Alberto Caracciolo scrisse che “l’impegno e la prospettiva per il controllo operaio della produzione si presentano come qualche cosa di sostanzialmente nuovo nell’odierno panorama di idee del movimento socialista in Italia”. Roberto Guiducci affermò che “non è cosa facile rispondere all’invito alla discussione dagli spinosissimi problemi contenuti nelle sette tesi sulla questione del controllo operaio”. Rodolfo Morandi, in aperta polemica, dichiarò d’essere “più che mai colletivista”. Antonio Pesenti obbiettò che “il capitalista non accetta né accetterà mai di dividere il suo potere”. Nella loro risposta, Panzieri e Libertini ribadirono che “il controllo operaio va visto come elemento centrale e insostituibile di sviluppo e di democrazia” [Libertini a].

I temi trattati da Panzieri e Libertini in “Sette tesi sul controllo operaio”, confluirono successivamente nelle “Tredici tesi sulla questione del partito di classe”, pubblicate su “Mondo operaio” nel novembre del 1958. Nelle tesi, Pcato per un lungo periodo, cioè i tempi di ammortamento diventano estremamente lunghi e quindi c’è la necessità di programmare un mercato”.
Per poter realizzare ciò, il capitale doveva uscire dalla fabbrica e doveva coinvolgere la società nel processo di valorizzazione. Come Panzieri notò nel saggio [Panzieri, h]  “Sull’uso capitalistico della macchine”, “come processo di sviluppo della divisione del lavoro e il luogo fondamantale di questo processo è la fabbrica”; è nella fabbrica, infatti, che si realizza “la contrapposizione delle potenze intellettuali del processo produttivo materiale agli operai come proprietà non loro e come potere cheli domina”; ed è pure nella fabbrica che si realizza “lo sviluppo della tecnologia” la quale “distrugge il vecchio sistema della divisione del lavoro e lo consolida sistematicamente quale mezzo di sfruttamento della forza lavoro in una forma ancora più schifosa”. Il punto d’arrivo di questo processo di espropriazione del lavoratore e del suo asservimeento al capitale è rappresentato dalla fabbrica automatica nella quale, scrive Panzieri citando Marx, “l’automa stesso è il soggetto e gli operai sono coordinati ai suoi organi incoscienti solo quali organi coscienti e insieme a quelli sono subordinati a quella forza motrice centrale”. In questo quadro, nota Panzieri nel suo saggio, “una formulazione non mistificataca del controllo operaio ha senso soltanto in rapporto a un obiettivo di rottura rivoluzionaria e ad una prospettiva di autogestione socialista”. In altre parole, “il controllo operaio esprime la necessità di colmare il salto attualmente esistente tra le stesse rivendicazioni operaie più avanzate a livello sindacale e la prospettiva strategica”.
Tale prospettiva strategica, secondoPanzieri, doveva tener conto, però, del fatto che la sfera d’azione del capitale non è più limitata alla fabbrica. La monopolizzazione dell’economia l’aveva estesa alla società; in altre parole, come Panzieri scrisse in “Plusvalore e pianificazione” [Panzieri, i], “dal capitalismo mono-oligopolistico si sviluppa il capitalismo pianificato… L’industria reintegra in sé il capitale finanziario e proietta a livello sociale la forma che specificatamente in essa assume l’estorsione di plusvalore: come sviluppo neutro delle forze produttive, come razionalità, come piano. Il compito dell’economia apologetica è facilitato.” Ciò, notò Panzieri, imponeva al marxismo un compito nuovo. Esso “si muove alla superficie della realtà economica e non riesce a coglire l’insieme né l’interna variabilità del funzionamento. I cambiamenti vengono visti a livello empirico e quando ci si sforza di raggiungere un livello scientifico, si torna a modelli di spiegazione che astraggono dallo sviluppo storico. Accade così che al pensiero marxista sfugga, in generale, la caratteristica fondamentale dell’odierno  capitalismo che è nel recupero dell’espressione fondamentale della legge del plusvalore, il piano, dal livello di fabbrica al livello sociale”.
Secondo Panzieri, infatti, la “sociologia di Marx”, in quanto “nasce dalla cirtica dell’economia politica, nasce da una constatazione e osservazione sulla società capitalistica, la quale è una società dicotomica, una società nella quale la rappresentazione unilerale della scienza della economia politica lascia fuori l’altra  metà”. Occorreva superare questa dicotomia e, per poterlo fare, occorreva superare l’ambito della critica dell’economia politica [Panzieri, l].
Ciò significava che noi potevamo “criticare la sociologia come Marx faceva con l’economia politica classica, cioè vedendola come una scienza limitata, e tuttavia ciò significa che ciò che essa vede è nel complesso vero, cioè non è qualcosa di falsificato in sé, ma è piutttosto qualcosa di limitato che provoca delle deformazioni interne; ma essa conserva tuttavia quello che Marx considerava il carattere di una scienza, cioè un’autonomia che regge su un rigore di coerenza, scientifico, logico” [ivi].

Mario Tronti fu ancora più esplicito. “Il rapporto di produzione capitalistico vede la società come mezzo, la produzione come fine”, egli scrisse, infatti, nel saggio “La fabbbrica e la società”, pubblicato sul n. 2 dei “Quaderni rossi” [Tronti, a]. “Il capitalismo è produzione per la produzione. La stessa socialità della produzione è niente altro che il medium per l’appropriazione privata. In questo senso, sulla base del capitalismo, il rapporto sociale non è mai separato dal rapporto di produzione; e il rapporto di produzione si identifica sempre più con il rapporto sociale di fabbrica; e il rapporto sociale di fabbrica acquista sempre più un contenuto direttamente politico. E’ lo stesso sviluppo del capitalismo che tende a subordinare ogni rapporto politico al rapporto sociale, ogni rapporto sociale al rapporto di produzione: perché solo questo gli permette poi di cominciare, dentro la fabbrica, il cammino inverso: la lotta del capitalismo per scomporre e ricomporre a propria immagine la figura dell’operaio collettivo”. Si prefigurava, così, per Tronti, il nuovo assetto dei rapporti sociali di produzione: “Non più soltanto i mezzi di produzione e l’operaio dall’altro che lavora, ma da una parte tutte le condizioni di lavoro; dall’altra l’operaio che lavora: lavoro e forzalavoro tra loro contrapposti e tutti e due uniti dentro il capitale”.
Ciò apriva, per Tronti, come egli scrisse nel saggo “Il piano del capitale”, pubblicato sul n. 3 di “Quaderni rossi”, “una lunga serie di domande inquietanti”: “Fino a qual punto la contraddizione fondamentale fra carattere sociale della produzione e appropriazione privata del prodotto può venire investita e intaccata dallo sviluppo capitalistico? Nel processso di socializzazione del capitale non si nasconde una forma specifica di appropriazione sociale del prodotto privato? La stessa socialità della produzione non è diventata la più importante mediazione oggettiva della proprietà privata?”. La risposta di Tronti a queste domande era che “tutto il meccanismo oggettivo funziona a questo  punto dentro il piano soggettivo del capitalista collettivo. La produzione sociale diventa funzione diretta della proprietà privata. Agli operai non rimane altro che il loro parziale interesse di classe. Da un lato l’autogoverno sociale del capitale; dall’altro lato l’autogestione degli operai organizzati”. [Tronti, b]

Ciò chiamava in causa quella che veniva chiamata “programmazione democratica [Forte]. In un editoriale intitolato “Piano capitalistico e classe operaia”, pubblicato sul n. 3 della rivista, la direzione di “Quaderni rossi” affermava che “in questi anni il potere capitalistico si è andato profondamente trasformando”, . “L’aspetto più importante di questa trasformazione è la programmazione dello sviluppo che esso ha impostato. Tale programmazione ha molti aspetti complessi e importanti. Uno dei più importanti è la decisione coordinata degli investimenti di capitali, in modo da eliminare gli squilibri esistenti nell’economia del paese e da accelerare il ritmo di sviluppo. In questo coordinamento, il ruolo dello stato è fondamentale: possiamo dire che lo sviluppo del paese è deciso dai più grandi gruppi capitalistici attraverso il coordinamento dello Stato e che lo Stato ha un’importanza fondamentale anche negli interventi industriali che esso effettua direttamente attraverso le aziende da esso controllate.”
I “Quaderni rossi” ritornarono sul medesimo tema in un editoriale pubblicato suil n. 6 della rivista dal titolo: “Movimento operaio e autonomia della lotta di classe”. “L’economia italiana”, affermava l’editoriale, “è avviata a soluzioni pianificiate del proprio sviluppo, ma il processo di ristrutturazione dei rapporti capitalistici internazionali introduce un elemento di precarietà nelle scelte economiche nazionali. Per questo il capitalismo italiano si trova oggi nella impossibilità di programmare uno sviluppo economico nel quale si consideri obiettivo principale la soluzione dei tradizionali squilibri sociali del paese”. Questi problemi vennero affrontati da Dario Lanzardo in tre saggi apparsi sui numeri 3, 4, 6 di “Quaderni rossi”.

Nel primo dei tre saggi recante il titolo “Temi della programmazione sociale dello sviiuppo”, Lanzardo dimostrava che i limiti che la programmazione doveva fronteggiare nascevano dalle contraddizioni dell’economia oligopolistica che essa pretendeva di gestire. [Lanzardo a]. Nel secondo saggio, intitolato “Produzione, consumi, lotta di classe”, Lanzardo, dopo aver rilevato che “la storia del capitalismo, dal periodo in cui Marx conduceva la sua analsi, ci mostra il meccacinismo attraverso il quale si produce l’accumulazione del capitale si è gradualmente modificata, nel senso che la seconda sezione dell’economia – quella che produce mezzi di consumo – è venuta ad avere un peso crescente nell’ambito del proceso accumulativo di ogni singolo paese e dello sviluppo mondiale del capitalismo”, notava che “stabilito che la programmazione economica è comunque una tecnica che ha lo scopo di intensificare il processo accumulativo e di controllarlo in tutte le sue componenti”, era chiaro che la programmazione andava incontro a due generi di limiti derivanti, da un lato, dal livello medio dello sviluppo mondiale, dall’altro lato, dallo stato dei rapporti sociali di produzione” [Lanzardo b]. Nel terzo saggio intitolato “Note sul problema dello sviluppo del capitale e della rivoluzione socialista”, Lanzardo individuava la causa del fallimento della rivoluzione socialista nella contraddizione che s’era aperta fra soggettività rivoluzionaria e arretratezza delle condizione oggettive [Lanzardo c].

Ciò ci riporta a Panzieri. Come scrisse, infatti, Panzieri, “La necessità di assicurare la vitalità e di difendere la esistenza del sistema socialista nelle condizioni di assedio e di accerchiamento capitalista, ha portato ad anticipare la trasformazione dei rapporti di produzione rispetto allo sviluppo delle forze produttive. Tale anticipazione s’è tradotta nel ritmo forzato impresso alla collettivizzazione forzata e alla industrializzazione e si è dato così luogo a un processo contradditorio di fronte al quale le strutture originarie della democrazia socialista sovietica e i suoi controlli hanno ceduto a causa del debole sviluppo iniziale delle deboli forze rivoluzionarie coscienti” [Panzieri, e].

In questo modo, offrendo una spiegazione economico- sociologica dello stalinismo, Panzieri evitò, però, di affrontare il problema delle origini ideologiche dello stalinismo. Lo stalinismo non nacque, infatti, dal nulla. Esso nacque dal medesimo ceppo da cui nacque il leninismo. Ciò significa che la critica dello stalinismo non può prescindere dalla critica del marxismo.
Chiarito ciò, possiamo pure discutere dell’accerchiamento dell’Unione sovietica da pate delle potenze capitalistiche che portò Stalin ad anticipare la trasformazione dei rapporti di produzione rispetto allo sviluppo delle forze produttive e possiamo pure discutere del “marxismo come abbozzo d’una sociologia”, per usare una definizione dello stesso Panzieri   [Panzieri, l].

Tutto ciò appare, oggi, in tempo di “pensiero unico”, privo di senso, come priva di senso appare, oggi, la affermazione di Panzieri che “solo una rozza mistificazione può presentare il neocapitalismo come una lotta del nuovo contro il vecchio: esso costituisce la tendenza e la direzione che si iscrivono e si definiscono all’interno della decadenza e della crisi” [Panzieri, a]. Non era così negli anni di Panzieri.

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* Nell’impossibilità di fornire una bibliografia completa si danno solo i titoli delle opere alle quali si è fatto riferimento nella stesura dei testi.

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