CORRADO BEVILACQUA
UNA CRISI DI CIVILTA'
Ha
scritto Kenneth Rogoff a proposito della crisi finanziaria del 2008, in uno
studio per la Federal Reserve della California: “The fundamental flaw in these
analyses was the assunption that advanced country capital markets were
fundamentally perfect”. Eppure, c’erano state altre crisi, prima di quella del
2008: in Asia, in Messico, in Argentina. Esse erano state oggetto di studio di
due premi Nobel per l’economia: Joseph Stiglitz e Paul Krugman che avevano scritto
dei libri su di esse.
Altri
economisti, meno famosi, ma non meno valenti, Nouriel Roubini e Rafaj Rajan,
avevano messo in guardia sulla possibilità d’una crisi. I valori di borsa erano
troppo elevati rispetto ai “fondamentali”, c’era in giro troppa liquidità,
troppi titoli ad alto rischio erano posti in circolazione dalle banche. In
altre parole, si stava realizzando ciò che era previsto nel modello di Minsky.
Parole
al vento. Chi avrebbe dovuto ascoltare gli ammonimenti degli economisti più
avveduti, non aveva alcuna voglia di starli ad ascoltare. S’era creato un clima
di “euforia irrazionale” che gonfiava la bolla speculativa che s’era areata
attorno a dei titoli spazzatura. La
bolla si gonfiò, si gonfiò, poi esplose come la rana che voleva diventare bue,
splendida allegoria del capitalismo del nostro tempo. Un capitalismo che,
sospinto dal vento sprigionatosi dall’implosione del comunismo sovietico, ha
inondato di scintillanti monete false tutto il mondo che non era stato ancora
conquistato alla sua causa.
Un
mondo di risorse da sfruttare a proprio piacimento. Un mondo intero da
soggiogare alla logica della ricerca del massimo profitto. Un mondo intero nel
quale diffondere il verbo del neoliberismo. Liberi
di scegliere. Abbasso le regole. Viva la deregolamentazione. Liberalizziamo i
servizi che oggi sono pubblici, prendiamoci l’acqua. E con l’acqua prendiamoci
anche l’uomo che è per la maggior parte fatto d’acqua.
L’acqua
è un bene fondamentale, fonte essenziale di vita. Prendere l’acqua,
privatizzarla, sottomettere il suo sfruttamento alla logica della ricerca del
massimo profitto vuol dire prendere la vita delle persone, appropriarsi delle
loro possibilità di sopravvivenza. L’ha spiegato molto chiaramente Vandana Shiva.
Per
i neoliberisti queste preoccupazioni sono un non senso. Per essi, ognuno di noi
altro non è che una sorta di Robinson Crusoe e il mondo in cui viviamo altro
non è che l’isola dove egli ricostruisce la propria vita. E Venerdì? Venerdì
non è un uomo. Venerdì è uno schiavo: né potrebbe essere qualcosa di diverso. Nel
petto di Robinson Crusoe alberga l’anima di Kurz, l’eroe negativo di Cuore di
tenebra di Joseph Conrad: il pozzo nero del colonialismo europeo. In questo contesto Kurz rappresenta il Male e il capitano Marlowe, man mano che si avvicina al covo di Kurz, sente crescere dentro di lui un sentimento inaspettato di attrazione nei suoi confronti (A.Riding Belgium confronts the horrors of its colonial reign in Africa, ikn IHT, Sept. 25, 2002) In
Conrad c’è sempre qualcosa di irrisolto. Pensiamo a Lord Jim roso interiormente
da un oscuro senso di colpa; c’è sempre qualcosa di indecifrabile, ai limiti
dell’indicibile, come l’odio di Claggart per Billy Budd nell’omonimo racconto
di Herman Melville.
Nel
Kurz di Ford Coppola non v’è alcunché del genere. Né avrebbe potuto esservi,
considerato il contesto: una guerra fatta più per far dispetto al proprio
avversario che per convinzione. Una guerra che gli Usa non avrebbero mai potuto
vincere. Una guerra tipica della Guerra fredda. Prodotto della teoria del
domino.
Una
guerra che dimostrò come il sogno americano, il sogno della città sulla
collina, fosse ormai un lontano ricordo. Imperava la ragion di stato, la
necessità di dimostrare la propria esistenza come superpotenza: tutti dovevano
sapere che gli Usa non avrebbero mai consentito a nessuno stato al mondo di
diventare comunista.
Eravamo
negli Anni 60. Essi s’erano aperti con la elezione di John F. Kennedy alla Casa
Bianca. Un uomo giovane per una politica giovane. Walter Heller, suo
consigliere economico, scrisse un manifesto per la politica economica della
“nuova frontiera”. Essi s’era chiusi con due anni di anticipo, nel 1968, con
l’uccisione a Memphis di Martin Luther King, l’uomo che aveva un sogno. Non
aveva capito che il sogno americano era morto nel delta del Mekong.
Improvvisamente,
scoppiò il 68. Fu come una colata lavica che tutto travolse e per un momento
sembrò che fosse possibile realizzare “il sogno d’una cosa” di cui Marx parlava
in una famosa lettera giovanile a lettera a Ruge, siglata Kreuzenach, settembre
1843. Volevamo tutto perché ci sentivamo tutto. Avevamo deciso di non stare più
al gioco della dialettica servo-padrone. Noi un sapevamo cosa fosse avere un
padrone: né volevamo il suo riconoscimento. Bastavamo a noi stessi. Eravamo Il
momento svanì e noi ci trovammo a fare i conti con la prosaicità della politica
quotidiana, la politica delle mediazioni e dei compromessi, tra rumori di
sciabole e fragore di bombe fatte scoppiare dai manutengoli d’uno stato
corrotto che era gestito da fine della guerra da un partito che aveva
trasformato le istituzioni pubbliche in feudi per le proprie correnti
politiche.
Oggi,
tutto ciò è lontano da noi, avvolto nella nebbia dei ricordi, coperto dalla polvere
del passato. L’Unione Sovietica non esiste più. Il nemico è scomparso nel
nulla. L’impero del male è crollato e sulle sue ceneri è nato uno stato di tipo
nuovo controllato da una nuova classe dirigente. Nuove potenze economiche si
sono affacciate sulla scena mondiale mettendo in crisi le vecchie potenze
capitalistiche occidentali che non riescono a tenere il passo dei nuovi
concorrenti.
La
classe operaia, sulle quale Marx aveva puntato le sue speranze, è stata
smembrata dalla rivoluzione informatica; è stata messa al tappeto dalla
concorrenza delle nuove potenze economiche che possono contare su un enorme
esercito industriale di riserva che abbassa il costo di riproduzione della
forza lavoro a livelli preindustriali e mette fuori mercato i beni prodotti
dalle economie capitalistiche occidentali.
In
un capitolo famoso dei Principi di economia pubblicati all’inizio
dell’Ottocento, quando la Rivoluzione industriale era nella sua prima stagione,
David Ricardo, ricco agente di cambio trasformatosi in economista, dimostrava
che il Portogallo avrebbe guadagnato molto di più, nei suoi scambi con
l’Inghilterra, se avesse continuato a produrre vino invece di mettersi a
produrre il grano che importava dalla stessa Inghilterra. Il vantaggio sarebbe
stato ancora maggiore, se invece di grano si fosse messo a produrre macchine.
La
Germania dimostrò che Ricardo sbagliava. Essa dimostrò, infatti, che era
possibile per un paese non ancora industrializzato, com’era invece
l’Inghilterra, industrializzarsi fino a superare la stessa Inghilterra grazie
ad una oculata politica industriale che mettesse in uso le sue forze
produttive, come aveva suggerito Federico List in Il sistema dell’economia
nazionale.
E’
quello che sta oggi succedendo nei rapporti fra le potenze capitalistiche
occidentali e le nuove potenze economiche le quali stanno dimostrando che il
problema della formazione del capitale nei paesi sottosviluppati può essere
risolto attraendo capitali dall’estero grazie ai vantaggi comparati che la
presenza di un enorme esercito industriale di riserva offre agli investitori
esteri.
Questo
fatto, da un lato, ha mandato a gambe all’aria la vecchia divisione
internazionale del lavoro e ha posto in serie difficoltà le potenze
capitalistiche occidentali nelle quali il costo di riproduzione della forza
lavoro è molto più elevato di quello esistente nelle nuove potenze economiche;
dall’altro lato ha dimostrato che il problema del sottosviluppo era più n
problema politico relativo al controllo straniero sull’uso delle risorse locali
che un problema economico.
L’economia
di carta ha preso il sopravvento sull’economia reale, derivati, hedge funds
hanno preso il sopravvento su fabbriche, operai, prodotti materiali. In altre
parole, la ricchezza si è virtualizzata allo stesso modo che s’è virtualizzata
la nostra vita.
Esiste
ciò che si vede in televisione. Noi siamo ciò che si legge nei nostri profili
online. Lo spettacolo ha preso il sopravvento sulla realtà. Siamo degli
alienati che vivono vite virtuali. Non siamo più Tizio, Caio, Sempronio, Mevio,
Tullio, siamo i nostri Id online, le nostre passwords: 46maggio19. Marx
asseriva che non è la nostra coscienza che fa il nostro essere sociale, ma è il
nostro essere sociale che fa la nostra coscienza. Se è così, allora dobbiamo
chiederci, qual è l’essere sociale di una ragazza dei call center; qual è
l’essere sociale di un giovane precario.
Come
può svilupparsi una coscienza di classe in chi non ha classe di appartenenza,
in chi trascorre la propria vita facendo i lavori più diversi per brevi periodi
di tempo. Come può svilupparsi una professionalità in chi non ha una
professione, in chi non ha mai imparato un mestiere; in chi sa far tutto perché
ha sempre fatto dei lavori per i quali non era richiesta alcuna
professionalità, alcun saper fare?
Quale
vita può mai costruirsi costui’ E che senso può avere per lui una vita senza
alcun punto di riferimento; una vita, per usare una celebre espressione di
Deleuze e Guattari, da rizoma? Come può mettere radici chi non ha alcun terreno
in cui porle? Non ha un futuro cui guardare con speranza? Che umanità è quella
che stiamo generando?
L’uomo,
si dice, è un animale sociale che non può vivere isolato, come il protagonista
del racconto Il lupo della steppa di Hermann Hesse. L’uomo, si dice, è un
animale politico che non può vivere allo stato brado. Ha bisogno di
un’organizzazione, come spiegò Platone. Lo stato esiste perché nessun uomo può
fare da solo tutte le cose di cui abbisogna.
In
questo modo, si creò la prima elementare divisione del lavoro, nacquero le
prime specializzazioni C’è chi si specializza nella produzione di punte di
lancia e chi si specializza nella produzione di lame per coltelli. Chi si
specializza nella produzione di fiocine e chi si specializza nella produzione
di scodelle.
Siamo
ancora nella fase primitiva della divisione del lavoro; siamo, cioè, in quello
che Adam Smith chiamava lo stadio rude e rozzo della storia della società.
Smith vedeva, infatti, la storia come susseguirsi di fasi attraverso le quali
l’uomo era passato dalla barbarie primitiva alla civiltà. Oggi barbaro è il
diverso, l’altro, l’immigrato specialmente se è di colore; è chi parla un’altra
lingua a noi incomprensibile, ha altri usi e costumi, venera un altro Dio.
Questo
fatto mette paura, rende più sottile la nostra percezione del rischio, ci fa
sentire insicuri, determina la nostra domanda di sicurezza, anche se per
ottenere maggior sicurezza dobbiamo rinunciare a parte della nostra libertà;
dobbiamo accettare controlli che non avremmo mai accettato; accettiamo intromissioni
nella nostra vita privata che avremmo sempre rifiutato.
Ritorniamo
così al punto di partenza. La crisi contro la quale stiamo lottando non è una
crisi come le altre. Essa è molto più complessa; essa è espressione, infatti,
dell’intrecciarsi di differenti crisi che hanno coinvolto la nostra economia,
la nostra società la nostra politica, le quali richiedono per la loro soluzione
il varo d’un insieme di misure di carattere economico, sociale, politico che
l’attuale sistema economico-sociale non è in grado di offrire.
Essa
richiede quella che una volta si chiamava fuoriuscita dal sistema; superamento
del capitalismo. Per andare dove? Non c’è stato spiegato che la storia è finita
con il crollo dell’Unione sovietica. Che il comunismo mancò l’obiettivo, che
non c’è alternativa al capitalismo? Se fosse davvero così, vorrebbe dire che il
nostro destino è segnato, in quanto non c’è limite a quella che Eric Fromm
chiamò auto-distruttività umana.
Questa
è una possibilità che Marx non prese in considerazione. Marx possedeva una
concezione della storia come progresso. Il comunismo rappresentava lo stadio
superiore, il più evoluto, nel quale, secondo la celebre formula del Manifesto
dei comunisti, “la libertà di tutti sarebbe stata la condizione della libertà
di ciascuno”
Le
cose andarono, com’è noto, in modo molto diverso. Preso il potere, il partito
bolscevico, prese anche possesso dello stato e attraverso lo stato, assunse il
controllo su ogni aspetto della vita economica, politica, sociale, culturale.
Nacque così una nuova classe di funzionari di partito, funzionari dello stato,
dirigenti industriali che gestì il potere in modo rude e violento. In gergo,
era nota come la Nomenklatura.
Non
era ammessa alcuna voce di dissenso, fosse essa espressione di un’ideologia progressista
come quella di Sacharov o fosse essa espressione di un’ideologia ancorata al
passato zarista come quella di Solzenitsyn. In altre parole, si trattava d’un
sistema basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, non più in nome del
profitto individuale, ma in nome del mantenimento del potere d’una classe di
burocrati.
Tutto
ciò non aveva alcun elemento in comune con la visione che Marx aveva del
socialismo, ma era stato il prodotto d’una serie di circostanze che avevano
costretto lo stesso Lenin a fare i conti con una realtà economica, sociale,
politica e culturale che mal si prestava alla costruzione di un sistema
economico, politico, sociale di tipo socialista.
L’idea
base fu che, se il capitalismo voleva dire anarchia della produzione, economia di
mercato, ricerca del massimo profitto individuale, il socialismo avrebbe dovuto
essere l’esatto opposto: direzione centralizzata dell’economia, pianificazione
economica, ricerca del massimo d benessere sociale. Il tutto da realizzarsi con
i pochi strumenti teorici e pratici che erano allora a disposizione dei
pianificatori.
Collegato
a questo, era il problema del modello di industrializzazione: quali settori
sviluppare, come finanziare gli investimenti, quale genere di organizzazione
dei rapporti di lavoro dentro e fuori le fabbriche costruire. Si aprì un
dibattito, si formarono delle scuole di pensiero, si crearono delle correnti
politiche, si organizzarono manifestazioni politiche.
Le
questioni dibattute furono molte. Qui è sufficiente ricordare alcune di esse.
Per quello che riguardava il modello di industrializzazione due furono le
principali scuole di pensiero. Una che sosteneva la necessità di mantenere un
rapporto equilibrato tra i diversi settori della produzione; un’altra che
sosteneva, invece, il punto di vista degli industrializzatori, di coloro, cioè,
che ritenevano che lo sviluppo dell’industria e nel fattispecie dell’industria
pesante dovesse aver la preferenza su quello dell’agricoltura e in particolare
su quello dei beni di consumo, la cosiddetta industria leggera.
Per
quello che riguarda le fonti da cui trarre le risorse necessarie allo sviluppo
dell’industria, è da sottolineare come anche in questo campo si fossero formate
due scuole di pensiero, l’una che faceva capo alla teoria di Preobrazenskij
sulla accumulazione originaria socialista che sosteneva che le risorse dovevano
essere tratte dall’agricoltura anche in modo forzoso; l’altra che faceva capo a
Nicholai Bucharin per il quale occorreva favorire, invece, lo sviluppo
dell’agricoltura..
Il
dibattito si protrasse per alcuni anni che furono caratterizzati dalla nuova
politica economia voluta da Lenin di incentivazione dell’iniziativa privata
nelle campagne nella speranza che in questo modo si potesse aumentare la
produzione agricola evitando gli sprechi delle confische e si potesse garantire
così il rifornimento di generi alimentari alle città.
Il
dibattito si concluse con la presa del potere da parte di Stalin che favorì la
vittoria degli industrializzatori e segnò l’inizio del nuovo corso economico
caratterizzato dalla direzione centralizzata della economia,
dall’industrializzazione pesante, dalla collettivizzazione forzata delle
campagne.
Destinati
a restare inascoltati furono gli ammonimenti di cui Bucharin s’era fatto
promotore in un articolo intitolato Note di un economista all’inizio del nuovo
anno economico, nel quale metteva in guardia nei confronti dei pericoli insiti
in un’industrializzazione spinta, perché come egli scrisse non si può costruire
con i mattoni del futuro.
In
altre parole, sosteneva Bucharin, non si può mettere in programma la
costruzione di un certo numero di case se devono essere ancora costruite le
fabbriche che dovranno produrre i mattoni con i quali dovranno essere costruite
le suddette case.
La
scelta a favore dell’industrializzazione pesante, della direzione centralizzata
dell’economia e della collettivizzazione forzata delle campagne, comportò da un
lato la crescita distorta dell’economia sovietica che costrinse a penosi
sacrifici il popolo russo a causa della penuria di beni di consumo; dall’altro
lato, comportò degli sprechi inauditi di risorse umane, economiche e naturali
che si nascondevano dietro agli alti tassi di crescita dell’industria pesante
sovietica.
Tali
alti tassi d crescita furono al centro di accese discussioni fra economisti
marxisti ed economisti borghesi, come allora si definivano, allo stesso modo
che furono al centro di un acceso dibattito le questioni relative alla
pianificazione dell’economia. Per gli economisti borghesi non era possibile
realizzare, come spiegò l’economista austriaco di Ludwig von Mises, un calcolo
economico razionale in un’economia che non fosse di mercato.
Ludwig
von Mises scriveva a ridosso della Rivoluzione bolscevica. Oggi, sappiamo che,
almeno in via teorica, è possibile realizzare un calcolo economico razionale
sia utilizzando teorie e metodi elaborati dagli “ottimalisti” sovietici, come
Kantorovic e Novozilov, che teorie e metodi elaborati in Occidente. Pressoché
insormontabili, invece, si sono rivelati i problemi pratici.
Questa
difficoltà nasce dal fatto che non è sufficiente emanare degli ordini di
produzione corretti dal punto di vista teorico. Occorre che ciò che viene
ordinato venga realizzato in tempi e modi previsti dai pianificatori e questo
fatto pone dei problemi che sono praticamente insormontabili per una
pianificazione di tipo centralizzato com’eraa quello sovietico.
Il
modello di crescita sovietico fu per anni il modello di rifermento dei governi
dei paesi in via di sviluppo (PVS) in generale e, in particolare, degli
economisti marxisti; penso a Paul Baran e a Charles Bettelheim. Baran parlava
di “ripida ascesa” e di massimo saggio di surplus investibile. Bettelheim
parlava di “sviluppo accelerato”
Le
teorie di Baran e di Bettelheim presentavano i difetti delle teorie dello
sviluppo della prima generazione, penso a Sviluppo economico e struttura di
Kuznets, a Teoria dello sviluppo economico di Lewis, a La formazione del
capitale nei paesi sottosviluppati di Nurske che fu tradotto in italiano da
Lucio Libertini.
Eccentrici
rispetto al pensiero dominante in materia di sviluppo economico, furono Teoria
economica e paesi sottosviluppati di Myrdal e La strategia dello sviluppo
economico nel quale Hirschman criticava il modello sovietico e introduceva il
concetto di connessioni. In base a questa teoria, gli investimenti per lo
sviluppo andavano effettuati nei settori che presentavano maggiori connessioni
a monte e a valle.
Il
fallimento dei modelli tradizionali di sviluppo e, più in generale, delle
politiche per lo sviluppo della prima generazione portò all’elaborazione di
nuove teorie, come la teoria dei poli di sviluppo e delle regioni motrici;
ovvero, le nuove teorie della nuova dipendenza di Theotonio Dos Santos, dello
sviluppo del sottosviluppo di André Gunder Frank, dello sviluppo autocentrato
di Samir Amin, dello scambio ineguale di Arghiri Emmanuel.
Oggi,
tutto ciò appare relegato irrevocabilmente al passato. Il neoliberismo ha
mietuto le sue vittime anche nei PVS. Nessuno più dibatte dei tassi sovietici
di crescita economica. Per essere più precisi, nessuno più si cura di teoria
dello sviluppo; nessuno più discute di modelli di crescita. Nessuno più discute
del problema relativo al rapporto fa economia e politica. Tutto ciò che succede
viene dato per scontato, come se fosse scritto nel libro del destino.
Nello
suo studio sullo sviluppo del capitalismo in Russia, Smith venne usato da Lenin
nella sua polemica contro i populisti e i seguaci russi di Simonde de Sismondi.
Sismondi fu uno dei primi critici del capitalismo. Sismondi non credeva nella
legge di Say, non credeva, come egli scrisse sulla Edinburgh Review, che
l’offerta creasse la propria domanda, che i prodotti si comperassero con i
prodotti, che gli economisti dovessero occuparsi solo della ricchezza “facendo
astrazione dalle sofferenze degli uomini che producono questa ricchezza”.
Tali
sofferenze erano note a Smith, il quale in un passo molto significativo della
Ricchezza delle nazioni si interroga sulle conseguenze che anni di lavoro
stupidamente ripetitivo avranno sulla mente dei lavoratori. Hegel, nella
Filosofia dello spirito jenese, analizzando le pagine dedicate da Smith alla
divisione del lavoro, introduce il concetto di alienazione: “Il lavoro diventa
sempre più assolutamente morto, sempre più macchina, l’abilità del singolo
diventa sempre più infinitamente limitata e la coscienza degli operai della
fabbrica diventa sempre più degradata fino all’ottusità”.
Queste
considerazioni di Smith e di Hegel ci permettono di capire cosa Marx intendesse
dire quando, nei Manoscritti del 1844 scriveva che “il lavoro non produce
soltanto merci, produce il lavoro e l’operaio come merce…l’oggetto che il
lavoro produce, il prodotto del lavoro, si contrappone ad esso come un essere
estraneo, come una potenza indipendente…”
Ne
derivava, per Marx, che solo nel comunismo, grazie alla abolizione della
proprietà privata dei mezzi di produzione e scambio, sarebbe stato possibile
abolire l’alienazione dell’operaio di fronte all’oggetto del proprio lavoro e
restituire all’operaio la sua perduta dignità.
Ritorniamo
così all’oggi. I dati della crisi sono impressionanti; e ancora più
impressionanti dei dati della crisi sono gli errori compiuti dai nostri governi
in nome del mito del pareggio di bilancio che hanno fatto precipitare le nostre
società in una recessione senza fondo che ha messo in ginocchio le classi
popolari, a dimostrazione che non è vero che le classi sociali non esistono
più.
Esse
continuano ad esistere e lo stato continua ad essere un comitato d’affari come
ai tempi della Curée di Zola, titolo intraducibile che può essere reso con
l’espressione volgare “trippa per gatti”. I gatti sono i signori del
finanzkapital, la trippa è costituita dai titoli dei debiti sovrani da essi
utilizzati per le loro speculazioni.
L’ attuale crisi economica è stata spesso paragonata alla crisi del 1929. Il paragone è suggestivo, ma fuorviante. All’origine della crisi degli anni Trenta del secolo scorso vi fu, com’è noto, il crollo nel 1929 della borsa di Wall Street. Le vicende che portarono al Great Crash sono state narrate da Galbraith in un famoso libro intitolato Il grande crollo. Qui, è sufficiente ricordare che il crollo fu dovuto allo scoppio d’una bolla speculativa che aveva fatto salire vertiginosamente i corsi dei titoli durante una fase caratterizzata da quella che Shiller ha chiamato euforia irrazionale.
In
altre parole, per dirla con Galbraith, nessuno può essere considerato
responsabile della crisi; nessuno condusse la gente al macello. La crisi fu il
prodotto della libera scelta di migliaia di persone spinte dal desiderio di
diventare ricche. In realtà, la crisi scoppiò, come ricordò Gordon in Crescita
e ciclo dell’economia americana, dopo un periodo di grande espansione sia a
livello di produzione industriale che d formazione del capitale e, come scrisse
Overy, le imprese lucravano cospicui profitti emettendo grandi quantità di
azioni che eccedevano le capacità di assorbimento del mercato.
Il
crollo di Wall Street si ripercosse sulla economia reale causando la chiusura
d’un grande numero di aziende e un aumento drammatico della disoccupazione. Gli
effetti negativi della crisi vennero aggravati dalla politica del governo
americano, il quale, invece di porre in essere le necessarie misure anti-crisi,
emanò una serie di provvedimenti che andavano in direzione affatto opposta.
Il
crollo Wall Street ebbe conseguenze negative anche in Europa. Come ricordava
Aldcroft, alla metà del 1930 tutti i paesi europei erano caduti vittime della
crisi. Il peggio, però, doveva ancora arrivare. Esso arrivò nell’estate del
1931 con il crack del viennese Credit Anstalt.
Le
ripercussioni negative del crollo di Wall Street si fecero sentire
particolarmente duro in Germania che era ancora alle prese con le conseguenze
economiche negative della Prima guerra mondiale e con le difficoltà create dal
pagamento delle riparazioni di guerra, come Keynes aveva previsto in Le
conseguenze economiche della pace. Coloro che trattarono con la Germania le
condizioni della pace non erano preoccupati del futuro dell’Europa, ma erano
unicamente interessati a punire la Germania imponendole una pace cartaginese.
La
storia economica della Germania di Weimar può essere divisa, come ha scritto
Weitz, in tre fasi; la prima 1921-23 fu caratterizzata dall’iperinflazione, la
seconda 1924-29 fu caratterizzata dalla modernizzazione; la terza 1929-33 fu
caratterizzata dalla depressione. In altre parole, la crisi creata dal crollo
di Wall Street colpisce, come ha scritto Peukert, una “economia malata” e le
cause della malattia erano disoccupazione di massa e debolezza della crescita.
In
sede storica s’è discusso se la crisi degli anni Trenta fosse evitabile. La
conclusione è stata, per usare le parole di Kindleberger, che la crisi avrebbe
potuto essere evitata qualora fosse esistito un cd prestatore di ultima istanza
il quale si fosse fatto carico dell’onere non lieve dell’aggiustamento mettendo
a disposizione degli operatori economici e finanziari la liquidità necessaria a
frenare la corsa alla vendita di attività finanziarie.
Fu
in questo contesto che Keynes elaborò la sua teoria. Essa si basava sulla
critica radicale della teoria dominante secondo la quale l’economia di mercato
possedeva dei meccanismi automatici di aggiustamento come accadeva quando, come
Hicks aveva spiegato in Teoria dei salaria, a causa della elevata disoccupazione,
i salari cadevano in modo da rendere conveniente per le imprese la riassunzione
dei lavoratori che erano stati in precedenza licenziati.
La
stessa cosa accadeva sul mercato dei beni di consumo. Un eccesso di offerta
faceva scendere i prezzi. La discesa dei prezzi rendeva conveniente il loro
acquisto. Ciò faceva risalire i prezzi rendendo così nuovamente conveniente la
ripresa della loro produzione. Se ciò non accadeva, la causa andava cercata nel
fatto, come aveva notato Hicks in Teoria dei salari, che esistevano delle
rigidità, ovvero, andava cercata nel fatto che le curve di domanda e di offerta
non erano abbastanza elastiche perché i mercati non erano perfettamente
concorrenziali.
In
particolare, per quello che riguardava il mercato del lavoro, Cecil Pigou, in
The Theory of Unemployment, aveva sostenuto che se c’era disoccupazione la
causa andava cercata , da un lato, nella presenza dei sindacati che imponevano
salari più elevati di quello che avrebbero dovuto essere; dall’altro lato, nel
rifiuto dei lavoratori di prestare la loro opera per salari più bassi di quelli
contrattuali. In altre parole, se esisteva disoccupazione, era per colpa dei
lavoratori e delle loro organizzazioni sindacali. Quindi si trattava di
disoccupazione volontaria.
Keynes
non credeva nell’azione provvidenzialistica della mano invisibile della
concorrenza e non nutriva alcuna fiducia nei meccanismi automatici di
aggiustamento presenti in un’economia di mercato. Come egli aveva scritto nel
1926 in La fine del lasciare fare, il mondo non era governato dall’alto da una
mano invisibile che trasformava il perseguimento dell’interesse individuale in
benessere collettivo.
Inoltre,
egli pensava che, come ebbe a scrivere nel 1923 nel saggio La riforma
monetaria, “gli economisti si attribuiscono un compito troppo facile e troppo
inutile, se, in momenti tempestosi, possono dirci soltanto che , quando
l’uragano sarà lontano, l’oceano tornerà tranquillo”
Secondo
Keynes, noi agiamo in un mondo che noi non conosciamo e raramente gli effetti
delle nostre azioni, come egli aveva scritto nel Trattato delle probabilità,
risultano essere quelli voluti. In queste condizioni, soltanto per un caso
fortunato può crearsi una situazione di equilibrio di piena occupazione.
Per
quello che riguardava la crisi in corso, egli contestava l’affermazione che
essa potesse essere superata con una riduzione dei salari monetari. Secondo
Keynes, come egli aveva sostenuto nel 1933 in I mezzi della prosperità, la via
della ripresa passava attraverso l’investimento autonomo da parte dello stato
di denaro fresco in modo da attivare il moltiplicatore degli investimenti. Y
=kI, dove k è l’inverso della propensione al consumo.
Ciò
significava creare, attraverso una articolata politica di lavori pubblici, un
congruo numero di occupati che avrebbero speso i loro salari in beni di consumo
che erano altrimenti destinati a restare invenduti. Per Keynes, infatti, il
livello di occupazione dipende, da un lato, dalla propensione al consumo;
dall’altro lato, dalla disposizione a investire. La prima dipende dal livello
di reddito e e dalla sua distribuzione. La seconda dipende dalla preferenza per
la liquidità, dal tasso di interesse e dall’efficienza marginale del capitale e
da tasso di interesse.. L’efficienza marginale del capitale dipende dalla
quantità di capitale esistente, dallo stato della fiducia. Il tasso di
interesse dipende dalla preferenza per la liquidità e dalla quantità di moneta.
Per
quello che riguarda la legge di Say potremmo dire che essa è valida in
un’economia basata sul baratto dove tutti i beni vengono prodotti per essere
scambiati. Non è valida in presenza della moneta che ha fra le sue funzioni
anche quella di riserva di valore per cui solo una parte viene spesa
nell’acquisto di beni, mentre una parte, spesso cospicua, viene trattenuta
sotto forma di scorte, oppure, può essere investita nei mercati finanziari.
In
termini generali, posiamo dire con Joan Robinson che fu allieva di Keynes a
Cambridge, che “anzitutto Keynes ha riportato nell’economia politica la praticità
dei classici”; poi, “ha fatto riemergere il problema morale che la teoria del
laissez fare aveva abolito”; infine, “riportò il tempo entro la teoria
economica”. Soprattutto, potremmo aggiungere noi prese il capitalismo sul
serio, cosa che gli economisti neoclassici s’erano sempre rifiutati di fare. In
tal senso Keynes potrebbe essere definito il Marx della borghesia la cui
teoria, come scrisse Mattick, aveva uno scopo molto pratico: salvare il
capitalismo dal declino.
La
crisi favorì, alla lunga, un sempre più esteso intervento dello stato
nell’economia. Emblematici furono i casi dell’America del New Deal e
dell’Italia fascista, dove, nel 1933, venne fondato l’IRI in funzione
congiunturale come ente provvisorio. Nel 1937, esso venne trasformato in ente permanente
con il compito di assicurare allo stato fascista, diventato nel frattempo
imperiale, il controllo sui settori strategici dell’economia italiana.
Il
New Deal non produsse l’effetto sperato nel campo di pertinenza dell’economia e
nel 1937 l’economia americana piombò in una nuova drammatica crisi economica.
Fu solo con l’avvio della politica di riarmo che l’economia americana imboccò
la strada della ripresa. Grande fu invece l’effetto positivo prodotto dal New
Deal sul piano politico ideologico.
Da
questo punto di vista, estremamente interessante è, ancor oggi, la lettura dei
testi delle conferenze tenute dai collaboratori di Roosevelt per illustrare la
NRA. Tali conferenze vennero pubblicate in volume nel 1934 con il titolo
America’s Recovery Program. Il testo era aperto dalla conferenza di Dickinson
il quale analizzò l’impianto della NRA alla luce dei cambiamenti avvenuti nel
capitalismo nel corso degli ultimi decenni e spiegò che era necessario trovare
il modo di limitare il potere economico delle nuove grandi imprese se si voleva
salvaguardare la democrazia americana.
Lo
sviluppo di tale linea di ragionamento portò alla formulazione da parte d
Galbraith nel secondo dopoguerra della teoria dei “poteri contrapposti”. In
questo modo, come conseguenza della crisi economica, si operò, per usare una
celebre definizione di Polany, la “grande trasformazione” della società
capitalistico-borghese che sanzionò il passaggio dal capitalismo concorrenziale
fondato sull’attività di una miriade di imprese di medie e piccole dimensioni
al capitalismo monopolistico fondato su imprese di grandi dimensioni non più
gestite direttamente dai proprietari, ma da potenti consigli di
amministrazione, come dimostrarono Berle e Means in Società per azioni e
proprietà privata, opera da essi pubblicata nel 1932.
Pollock
dedicò la propria attenzione al nascente fenomeno del capitalismo di stato.
Buhrnam parlò di rivoluzione manageriale da lui definita come una rivoluzione
nei rapporti di proprietà e nella gestione degli stessi. Tale teoria, criticata
aspramente da Sweezy in Il presente come storia, per il quale l’avvento del
capitalismo manageriale non modificava il tradizionale ordine economico
capitalistico fondato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e
scambio. ispirò la teoria del “nuovo stato industriale” di Galbraith che nel
1966 introdusse nel ragionamento economico il concetto di tecnostruttura.
La
trasformazione del capitalismo da individualistico-concorrenziale in
capitalismo monopolistico indusse gli economisti a sviluppare nuove teorie a
livello di economia di impresa – teorie che cercavano di rendere conto delle
trasformazioni avvenute appunto a livello di impresa quali la teoria della
concorrenza imperfetta, la teoria della concorrenza monopolistica, la teoria
della concorrenza tra pochi, la teoria dell’oligopolio, la teoria del grado di
monopolio.
In
un modo o nell’altro, tutte queste nuove teorie si occupavano della maniera i
cui le imprese riuscissero a condizionare il mercato e potessero per questa via
difendere e/o espandere la propria quota di mercato utilizzando a proprio
vantaggio le esistenti barriere alla concorrenza.
Altri
economisti avevano dedicato le loro energie nell’affrontare il problema delle
crisi e, più in generale, il problema del ciclo economico. Di particolare
interesse in questo campo sono lavori di Aftalion, Spiethoff, Mitchell,
Hawtrey, von Hayek, Myrdal, Kondrat’ev.
In
particolare, secondo la teoria di Kondratev, lo sviluppo nel lungo periodo
della economia capitalistica sarebbe caratterizzato dalle presenza di onde
lunghe generate da fattori quali guerre e rivoluzioni, innovazioni tecniche,
scoperta di nuove miniere d’oro, la comparsa di nuove potenze economiche.
In
questo contesto, si colloca l’opera di Schumpeter. Come egli scrisse in Cicli
economici, sviluppando un’idea contenuta ini Teoria dello sviluppo economico,
il progresso tecnologico è uno dei fattori determinanti lo sviluppo
dell’economia capitalista. Esso, però, non procede i modo lineare, ma
attraverso delle fasi che determinano lo sviluppo ciclico dell’economia
capitalista. Fondamentali in tale contesto sono i concetti di innovazione e di
imprenditore. Laddove tale funzione venga meno, viene meno, come egli scrisse
in Capitalismo, socialismo, democrazia, anche la giustificazione dell’esistenza
del capitalismo.
Timori
sul futuro del capitalismo furono espressi anche da Hansen. Tre erano, secondo
Hansen, gli “elementi costitutivi del progresso economico: le invenzioni, le
scoperte geografiche e lo sviluppo di nuovi territori, lo sviluppo della
popolazione.” Questi fattori mostravano segni di rallentamento e questo fatto
non era certamente di buon auspicio per il futuro del capitalismo.
Per
Kaleki, l’economista polacco considerato come l’alter ego di Keynes, “lo
sviluppo di lungo di lungo periodo non è inerente l’economia capitalistica”.
Anche per Kalecki, come per Schumpeter, le innovazioni sono il motore dello
sviluppo economico. Il crescente grado di monopolizzazione dell’economia ovvero
l’aumento grado di monopolio delle imprese avrebbe potuto disincentivare
l’introduzione di innovazioni da parte delle imprese e rallentare la crescita
dell’economia capitalistica.
Posizione
analoga era stata espressa da Sweezy quando s’era chiesto se l’economia
capitalistica non stesse entrando in un’epoca di depressione cronica. Secondo
Sweezy, infatti, era inerente al capitalismo una tendenza al sottoconsumo che
portava al sottoutilizzo dei mezzi di produzione. Si creava in questo modo un
crescente surplus economico che veniva assorbito essenzialmente nell’aumento
delle spese militari.
A
conclusioni simili era pervenuto Baran nelle Riflessioni sul sottoconsumo. Per
tale via, Sweezy e Baran facevano propria, seppurev in forma diversa quella che
era stata la posizione di Rosa Luxenburg , in Accumulazione del capitale, aveva
notato che il capitalismo s’era sviluppato in un ambiente non capitalistico e
che gli occorreva l’esistenza di un ambiente non capitalistico per potersi
sviluppare ancora.
In
realtà, come i fattori scatenanti la crisi sono, come ricordava Dobb in
l’anarchia della ricordava Dobb, produzione capitalistica e la ricerca del
massimo profitto che porta i capitalisti a sovra-accumulare capitale il quale
viene poi svalorizzato attraverso la crisi.
La
crisi degli anni Trenta spianò la strada al nazismo che scatenò, a sua volta,
la Seconda guerra mondiale.. La responsabilità della Germania nazista nello
scatenamento della Seconda guerra mondiale venne messa in discussione dal
famoso storico britannico Taylor, secondo il quale fu la Gran Bretagna che,
modificando la sua politica verso l’Europa, si rese responsabile della crisi
che portò allo scatenamento della Seconda guerra mondiale. Per Taylor, Hitler
non fece altro che dare nuovo impulso al tradizionale espansionismo tedesco
verso oriente.
In
realtà, se Francia e Gran Bretagna avessero voluto fermare Hitler, esse
avrebbero potuto farlo in più d’una occasione. Il problema è che esse non lo
vollero fare. I motivi furono molti, non ultimo il fatto che gli elettori
francesi e britannici non avrebbero probabilmente accettato d’essere trascinati
dai loro governanti in una nuova guerra con la Germania.
Per
quello che riguarda l’ascesa al potere di Hitler, è da ricordare che essa venne
facilitata, com’era accaduto in Italia con il fascismo, dal comportamento della
classe dirigente tedesca che credette di poter utilizzare Hitler in funzione
antisocialista.
Inoltre,
è da ricordare che non si può capire l’ascesa al potere di Hitler se si
prescinde dalla crisi che sconvolse la breve e drammatica vita della repubblica
di Weimar. Frutto d’una rivoluzione abortita, essa non era mai riuscita a
ottenere il consenso della maggioranza dei tedeschi, i quali, quando gli eventi
giunsero al dunque, le voltarono le spalle e l’abbandonarono al suo destino
senza provare alcun rimpianto.
Ancora
aperta, invece, è la discussione sulla responsabilità del popolo tedesco per i
crimini compiuti dal regime nazista. Ora io credo sia sbagliato parlare di
responsabilità collettiva, ovvero, chiamare un intero popolo sul banco degli
accusati. La responsabilità è sempre individuale, a meno chi compie l’azione
non sia legato a qualcun altro da un accordo preventivo. E’ l’individuo che
commette il crimine. Chiarito ciò, possiamo pure discutere di tutto il resto al
fine di dare a ciascuno il suo. Ciò non riguarda solo il popolo tedesco.
Riguarda anche la chiesa cattolica.
Mentre
in Occidente imperversava la più grave crisi che avesse mai colpito il
capitalismo, in Russia si stava costruendo una società di nuovo genere i cui
pilastri erano: la pianificazione economica centralizzata, il partito unico
della classe operaia, un potente e temuto servizio di sicurezza, un’ideologia
ufficiale che veniva inculcata nelle teste dei bambini fin dalle scuole elementari
e che costituiva, in quanto teoria dei “nessi dell’esistente”, la fonte di ogni
sapere.
Tale
ideologia, nota come materialismo dialettico, era la rielaborazione del
pensiero di Marx letto attraverso l’interpretazione che ne era stata data da
Engels, cui s’erano aggiunti i contributi di Lenin. E’ un errore infatti
considerare il marxismo come un blocco monolitico. Il pensiero di Marx
differisce da quello di Engels il quale differisce da quello di Lenin che
differisce da quello di Marx. Per Marx, la rivoluzione era il punto d’arrivo di
un processo storico che era necessario alla creazione delle basi materiali del
socialismo. Per Lenin, la rivoluzione era il punto di partenza del processo
storico che avrebbe portato alla costruzione del socialismo. Per Marx, la
coscienza di classe si formava nel corso del processo storico che creava le
bassi materiali della costruzione del socialismo. Per Lenin, la coscienza di
classe doveva essere portata al proletariato dall’esterno.
Per
Marx, il soggetto rivoluzionario era rappresentato dalla classe operaia. Per
Lenin, il soggetto rivoluzionario era rappresentato dal partito intesa come
avanguardia politica composta da rivoluzionari di professione.
Engels,
figlio di un industriale tessile della Renania, finito il liceo, era stato
mandato dal padre a farsi le ossa a Lubecca; quindi venne inviato a Manchester,
dove il padre aveva aperto una succursale. Engels era, perciò, un autodidatta e
come tale si mise a studiare filosofia, fisica, chimica, biologia. Chi legga oggi
i sui scritti in materia non può non rimanere colpito dalla loro ingenuità.
Malgrado
ciò, egli influenzò il pensiero socialista più di Marx. Fu Engels infatti a
dare la definizione del materialismo dialettico come “filosofia dei nessi
dell’esistente” che tanta parte ebbe nella formazione del Diamat sovietico.
Lenin era un rivoluzionario di professione, non era un filosofo; tuttavia, egli
si occupò, per motivi politici, anche di filosofia. Lenin era un “realista”,
sbeffeggiava la cosa-in-sé di Kant e ironizzava sulla nuova fisica senza aver
compreso, come scrisse il socialista olandese Pannekoek in Lenin filosofo, il
significato della rivoluzione quantistica.
Per
Lenin, l’unica differenza era fra ciò che sappiamo e ciò che ancora non
sappiamo, come scrisse in Materialismo e empiriocriticismo. Lenin pensava, come
scrisse in Quaderni filosofici, che le cose del mondo esterno si riflettessero
nel nostro cervello.
Lenin
ragionava come un economista classico. La sua visione dello sviluppo
dell’economia di mercato era prettamente smithiana. Critico di Simondi, come
dimostra il suo saggio sul Romanticismo economico, egli associava, infatti,
come egli scrisse in Lo sviluppo del capitalismo in Russia, sviluppo
dell’economia di mercato e sviluppo della divisione del lavoro.
Il
suo scritto economico più importante è comunemente considerato Imperialismo
fase suprema del capitalismo. Nel saggio, pubblicato nel 1917, egli intendeva
dimostrare le origini economiche della Prima guerra mondiale. Secondo Lenin,
l’imperialismo era il prodotto del capitalismo monopolistico sorto dalla
fusione fra banche e industria.
L’analisi
di Lenin, stimolante dal punto di vista politico, era gravemente manchevole,
come dimostrarono Baran e Sweezy, dal punto di vista economico, mancando nel
saggio di Lenin un’analisi microeconomica del modo di funzionamento delle
grandi imprese moderne.
Alla
guida della nuova società in costruzione in Russia c’era Stalin, un uomo, che
era stato criticato dallo stesso Lenin per i suoi modi militareschi, la sua
insofferenza per ogni genere di dibattito politico, per il suo modo burocratico
di affrontare i problemi del partito. Quest’uomo, tanto odiato quanto temuto,
era riuscito a creare un filo diretto con le masse alle quali l’ideologia
ufficiale affidava il compito di creare questo nuovo genere di società.
Gli
studiosi di cose sovietiche si sono a suo tempo chiesti, per usare le parole di
Nove, se Stalin fosse necessario; ovvero, se fosse destino della Russia cadere
nelle grinfie di Stalin. Io credo di no. Stalin non fu necessario, come la
Rivoluzione d’ottobre non fu ineluttabile. Stalin e, più in generale, il
fenomeno dello stalinismo, furono, come dimostrò Reiman, il prodotto d’una
serie di circostanze economiche e di decisioni politiche che segnarono il corso
della storia russa.
L’abilità
di Stalin consistette nel sapersi avvalere delle suddette circostanze per
conquistare il potere. Poi, una volta conquistato il potere, egli usò in modo
spietato gli strumenti che gli erano forniti dal potere che era nelle sue mani
o per liberarsi di tutti coloro che avrebbero potuto ostacolare la sua azione o
per vendicarsi delle umiliazioni subite. Il metodo fu quello di offrirli in
pasto alle masse con l’accusa d’aver tradito la causa della rivoluzione.
Fu
così che venne messa a morte tutta la vecchia guardia bolscevica. Stalin fu
autore d’una nutrita serie di scritti e discorsi che diventarono la lettura
obbligata dei comunisti di tutto il mondo. Come scrittore, Stalin fu una
nullità. Ed una nullità fu anche come ideologo. Ciononostante, egli affascinò
fior fiore di intellettuali in tutto il mondo, a dimostrazione del potere
micidiale dell’ideologia.
Bettelheim,
nel libro Lotte di classe in Urss 1917-1930, critica quella che egli chiama la
visione idealistica della storia dell’Unione sovietica, propria di storici come
Ellenstein, che vedono nella creazione dell’Unione sovietica la realizzazione
pratica del pensiero di Marx. In realtà, se è vero che, quando Marx parlava di
socialismo, pensava a tutto meno che alla Russia da lui considerata troppo
arretrata per essere oggetto del suo interesse; è anche vero che furono proprio
Lenin e Stalin a assumere il pensiero in Marx come riferimento della loro
azione politica.
Per
renderci conto di questo fatto, possiamo pensare agli appunti preparatori di
Stato e rivoluzione di Lenin, oppure, possiamo pensare a Materialismo storico,
materialismo dialettico di Stalin. Ciò non significa che Marx debba essere considerato
l’ispiratore dei crimini di Stalin.
Stalin
era, come ha messo in evidenza Amis, un dittatore sanguinario che si divertiva
a giocare a gatto e topo e che godeva nel far soffrire le sue vittime prima di
consegnarle ai suoi boia, nessuno dei quali è morto nel proprio letto.
Chiarito
ciò, va ricordato che, se fu possibile a Stalin procedere all’eliminazione
fisica dei suoi avversari politici per vie legali, ciò accadde in virtù d’una
concezione strumentale del diritto che era considerato, per usare le parole del
pubblico accusatore nei processi si Mosca, “forza materiale nella costruzione
del socialismo”.
In
questo contesto, io credo sia difficile comprendere il pensiero politico
bolscevico prescindendo dalla concezione comunista del diritto cui Kelsen
dedicò a suo tempo alcuni saggi fondamentali.
La
Seconda guerra mondiale aprì la via al lungo boom degli anni ’50-’60 che – è
stato detto – vide il trionfo delle idee di Keynes. In realtà, gli anni ’50-’60
videro il trionfo della cd sintesi neoclassica. In tal senso, più che gli anni
di Keynes essi furono gli anni di Modigliani.
Keynes
non era un rivoluzionario. Professore di economia a Cambridge, direttore di
“Economic Journal”, membro della delegazione britannica ai colloqui di pace a
Versailles, membro della delegazione britannica a Bretton Woods, frequentatore
del Circolo di Bloomsbury, amico di Wittgenstein, autore di ponderosi libri di
economia, di brillanti saggi di attualità politica, di fondamentali testi di
logica matematica, era un liberale vecchio stampo che non voleva abolire la
proprietà privata dei mezzi di produzione e scambio. Ciò non gli impedì di
elaborare una critica della teoria economica dominante che ne distruggeva i
fondamenti.
La
pubblicazione di tale critica gli attirò gli strali dei suoi colleghi di
Cambridge e delle altre università. Fu così che si pensò, stimolati da una
famosa recensione di Hicks, di correre ai ripari cercando di dimostrare che la
teoria di Keynes rappresentava un caso particolare della teoria economica dominante
che si registra quando le condizioni economiche sono tali da scoraggiare gli
investitori anche in presenza di un tasso di interesse prossimo a zero. Nacque
in questo modo con il contributo fondamentale di Modigliani la cd sintesi
neoclassica.
Il
nome di Keynes è stato spesso associato a quello dei teorici dell’economic
planning. Niente di più sbagliato. Keynes era un economista tradizionale; né ci
potremmo aspettare qualcosa di diverso da un allievo di Marshall. Keynes s’era
reso conto che la tradizionale prassi liberale di attendere che che la crisi
facesse il suo corso non funzionava più. Occorreva intervenire con denaro
fresco per mettere in moto il moltiplicatore.
Nessun commento:
Posta un commento